Il verniciatore di bare

Il verniciatore di bare - Racconto fantastico di David Fivoli

Gioco con la morte, a tratti lucidamente perverso, di norma indifferente alla vita. Potrei definire ciò che faccio come espressione della mia libera scelta, e dare a questo il nome della più sublime delle arti, se non fosse che il mio talento è ignoto alle genti.

Ho un dono.

Dono raro, si dice essere l’invisibilità.

Posso dormire dove voglio, mangiare ciò che più mi aggrada, possedere tutto ciò che desidero. Mi basta concentrarmi un secondo e posso decidere di non esistere agli occhi del mondo.

Di certo, uomini più pratici di quanto lo sia io avrebbero inteso questo privilegio come il messaggio di un Dio benevolo… o come la lusinga di un Diavolo tentatore, prediligendo ora una vita di invasata spiritualità, ora una carriera da svaligiatore di banche. Predatori di anime o predatori di cose.

Non io.

Io, che per anni ho assistito, non visto, a quello che uomini e donne fanno credendosi soli. In silenzio dietro di loro mentre tradivano partner, genitori, figli, amici, compagni, colleghi, la patria e, a volte, anche sé stessi. Alla fine sono arrivato alla conclusione che non valga la pena osservare le vite degli uomini più di quanto non valga fare con le vite degli insetti.

Fu allora che mi rifugiai nella morte.

Ma di essa preferisco l’aspetto squisitamente iconografico a quello prettamente materiale. Non amo i morti più di quanto ami i vivi, sia ben inteso, ma l’aspetto che la morte rappresenta di sé mi affascina.

Per questo ho iniziato a dipingere bare.

Sì, perché dipingere bare conferisce alla morte il rovesciamento concettuale di cui da tempo vado predicando il senso. Non più diversi in vita e uguali nella morte. No. L’esatto contrario.

Uguali gli uomini in vita, con le loro storie più o meno meschine, che siano Re o mendicanti. Diversi invece nella morte. Diversi per mia mano, con le loro bare verniciate a effetto.

Mi venne l’illuminazione, lo ammetto, guardando il cortile di un artigiano; un falegname che aveva bottega in un paesino dimenticato da Dio nel centro Italia. Tipo bizzarro costui, che, con l’aiuto di un giovane apprendista e declamando versi immortali, alla morte restituiva una dignità peculiare e dovuta.

Una bara verde smeraldo, una blu elettrico, una con la croce sudista lì vidi mentre, invisibile, passeggiavo in campagna cercando risposte alle mille domande che da sempre mi pongo nel tardo meriggio. Accanto a quel falegname c’erano anche due uomini meschini, uno morto, in terra, e uno legato e imbavagliato. L’artigiano era intento a spennellare di giallo una bara raccontando di Paolo e Francesca, senza sapere che mi stava per cambiare la vita.

Certo, come ebbi modo di capire ascoltando i suoi discorsi, quell’uomo lavorava su commissione e per soldi; invisibile mi sedetti accanto a lui, oltremodo colpito da ciò che stava facendo, e da ciò che disse al suo apprendista capii. Nient’altro che un meschino sicario era quel falegname, che dietro compenso faceva sparire uomini e problemi. Aveva il vezzo di sotterrarli nei boschi, a volte ancora vivi, all’interno delle bare che lui stesso costruiva e dipingeva assecondando il suo gusto e recitando i versi della Commedia di Dante.

Mi allontanai in silenzio ragionando su ciò che avevo visto, e mi convinsi che quello sarebbe stato il mio futuro. Per il bene superiore della giustizia essenziale, propria di un Dio o del caso, come che voi la vogliate credere, mi resi conto allora che il mio destino era quello. Il mio privilegio, questo dono bizzarro, ora capivo perché mi era stato inviato dal cielo. Per dare un senso alla morte oltre alla vita.

Per esercitarmi, non volendo umiliarmi a chiedere a nessuno d’insegnarmi il mestiere, iniziai a entrare nei cimiteri di giorno, invisibile ai vivi quanto lo ero, forse, ai morti. Portavo con me pitture e pennelli, e attendevo la chiusura. Poi, tirate fuori le bare, iniziavo a fare pratica su di esse, a caso.

Mi lasciavo ispirare dalla brezza della sera, dal canto dei grilli. Dal profumo dei fiori mortuari e, a volte, dalle foto che ornavano l’ultima dimora di uomini e donne insignificanti alla Storia. Mai dagli epitaffi, voglio essere chiaro su questo. Meschina e fallace è la parola scritta, e spesso bugiarda.

Cosa dipingevo, vi starete chiedendo? A volte arabeschi astratti, a volte paesaggi fiamminghi, a volte graffiti colorati e a volte semplici schizzi di vernice, ornavano le bare prescelte. Girai migliaia di cimiteri in ogni continente, nei dieci anni che prefissai per il mio apprendistato.

Verniciai decine di migliaia di bare. Diventai bravo, bravo davvero. La compagnia dei morti era per me l’ideale: sono ottimi ascoltatori e le loro domande raramente sono indiscrete. Né con loro ho bisogno di fingere alcunché riguardo il mio dono.

Più di qualche volta un custode zelante trovò al cospetto del fascio di luce della sua torcia una mano invisibile che spennellava una bara con sapienza divina, sempre scappando con risibili urla invece di inginocchiarsi onorato da simil fortuna a lui occorsa: veder la mia mano e il mio genio al lavoro.

Fuggivano tutti, accompagnati dal mio infinito sdegno.

Terminato l’apprendistato iniziai a operare sul serio. Per mia mano ora mille e più capolavori ornano la morte di personaggi più o meno famosi.

Sulla bara di Elvis ho verniciato un maxi panino; pancetta fritta, burro d’arachidi e marmellata le ho dipinte come cose vive, e ne sono orgoglioso. Ciuffi e basette, microfoni e chitarre ornano con pregio la sua ultima dimora: un giusto omaggio, mi sembrava. Con colori vivi e accesi, tinte pastello al profumo piccante.

La bara di Marylin poi, un capolavoro. Un missile atomico e un enorme pene stilizzato, di quelli che si trovano effigiati nei bagni di scuole e pubblici esercizi. A raffigurare la fascinazione di sesso e potere, metempsicosi delle suggestioni bipolari mi piace chiamarla; in tinte grigie e blu scuro, perché il cielo quel giorno era cupo e mi parlava di pioggia.

Perché dipinsi una tazza da bagno sulla bara di Napoleone? O tante ballerine di varietà a seno scoperto su quella di Einstein? O la faccia di Mickey Mouse su quella di papa Wojtyla? Non starò a spiegarvelo, sarebbe forse troppo complicato capirlo per chi non ha conosciuto e toccato con mano l’essenza della realtà delle cose. Come io ho fatto.

Vi basti sapere, però, che i miei capolavori sono nascosti in cimiteri sperduti e dimenticati, dipinti su bare di uomini, donne e bambini sconosciuti al mondo.

Vi basti sapere che sono in mezzo a voi, invisibile come la nube radioattiva che perseguita i vostri sonni, ma che delle vostre patetiche e inutili vite nulla mi interessa. Perché io esisto per dare un senso estetico alla persistenza della morte.

Perché io sono il verniciatore di bare.

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