Fuoco in Normandia

Fuoco in Normandia - Racconto di David Fivoli

Boris Kapper

Quella mattina, prima dell’appello, sentimmo il catenaccio alzarsi. Quel rumore mi fece battere il cuore. Non esiste un rumore simile nella vita di un prigioniero. Cosa sarebbe successo? A chi sarebbe toccato, e cosa? Fucilazione per basso rendimento? Trasferimento? O cos’altro ancora? Entrò un ufficiale. Prese un foglio e lesse il mio nome in un tedesco molto stentato.

«Boris Kapper, nato ad Amburgo, di anni 23.»

Mi alzai, rassegnato più che impaurito: mille volte meglio morire fucilato subito che diventare come gli uomini che vedevo lì fuori.

«Qui c’è scritto che sei studente di Psicologia e che conosci l’italiano. È vero?»

Feci cenno di sì con la testa.

«Seguimi.»

Seguii l’ufficiale fuori dalla baracca, lasciando cadere distrattamente i miei logori guanti ai piedi dell’uomo con cui dividevo il tavolo di legno per la notte. Di lui non sapevo neanche il nome. Ci incontravamo solo all’ora di coricarci, stremati e affamati, senza neanche la forza di parlare. Ci abbracciavamo sotto una vecchia coperta infestata da migliaia di pulci cercando di sconfiggere il freddo delle notti siberiane con il calore dei nostri corpi. Gli lasciai i guanti perché pensavo che mi avrebbero fucilato, e ai morti non servono guanti.

Il Campo K è un campo di lavoro situato duecento chilometri a nord est di Norils’k, nella Siberia settentrionale.

 Vi arrivai con un convoglio speciale una gelida mattina di ottobre dell’anno 2041. Eravamo stati trasferiti due notti prima, in gran fretta. Eravamo tutti A-27, prigionieri politici, nemici del GSP, il Governo Speciale del Popolo che una decina di anni prima aveva preso il potere su quello che rimaneva di un’Europa devastata dalla guerra. Un regime totalitario che riprendeva idee e metodi dal nazismo e dallo stalinismo governava da allora, con un sistema fortemente centralizzato che si estendeva da Lisbona fino agli estremi confini della Russia orientale.

Al di là del cancello e del filo spinato poche figure scheletriche si trascinavano tra la prima neve e una apparentemente infinita fila di baracche. I soldati ci fecero entrare e ci sistemarono in un capannone, dove ricevemmo l’equipaggiamento invernale: stivali di tela e giacche imbottite per affrontare temperature che potevano arrivare anche a sessanta sottozero. Alcuni protestarono: non si poteva sopravvivere all’inverno con quella roba. Altri indicarono ai soldati gli attendenti e i sorveglianti che indossavano cappotti di pelliccia e stivali imbottiti. Ma quelli erano prigionieri comuni, non A-27. Erano ladri, assassini, stupratori, non nemici del popolo. Molti di loro potevano avere più di qualche speranza di sopravvivere al campo.

La giornata lavorativa era di quattordici ore, tra miniere, boschi e cave di pietra. La razione giornaliera variava dai 500 agli 800 grammi di pane e un pezzetto di pesce salato o cavolo in salamoia, oltre la zuppa di mezzogiorno, a seconda del rendimento lavorativo. Scorbuto e avitaminosi erano diffusissime, e chi riusciva a sopravvivere per un anno o due ne dimostrava dieci o venti in più di quelli che effettivamente aveva.

Il campo era misto, uomini e donne divisi in sezioni e baracche diverse. Le donne che arrivavano venivano a volte stuprate dai soldati e dagli attendenti comuni, le A-27 venivano invece stuprate sistematicamente e quotidianamente, fino a che le loro figure riuscivano a ricordare solo vagamente quelle di una donna.

Io ero stato condannato a cinque anni come nemico del popolo in quanto iscritto a Psicologia, una facoltà che recenti leggi avevano bollato come eversiva. Dopo due settimane di Campo K non avrei scommesso nulla sulla mia vita: non ho mai avuto una gran tempra e non potevo sopravvivere all’inverno. No. Non avrei scommesso nulla sulla mia vita. Fino a quella mattina.

 L’ufficiale mi fece salire su una vecchia jeep e in pochi minuti arrivammo alla struttura in mattoni adibita a ospedale del Campo K. Due attendenti mi portarono nelle docce, mi fecero spogliare e mi disinfestarono dalle pulci. Poi mi fecero lavare e mi diedero dei vestiti puliti, un camice bianco, degli stivali imbottiti e un cappotto rivestito in pelliccia. Non feci domande. Il destino mi stava regalando una nuova vita. Seguii gli attendenti per i cupi corridoi dell’ospedale fino alla porta di un ufficio. Uno di loro la aprì e mi fece cenno di entrare dicendomi: «Da adesso sei l’assistente del dottor Nash».

Entrai. Di fronte a me, seduto dietro una scrivania disordinata, c’era un uomo basso e calvo di una quarantina d’anni, con il camice stazzonato e sporco. Era ubriaco, e si stava versando della vodka liscia in un piccolo bicchierino che poi mandò giù tutto di un fiato. Mi guardò distrattamente e mi chiese, in inglese, se avessi conoscenze di psicologia, e se capissi l’italiano. Risposi affermativamente a entrambe le domande. La psicologia mi aveva fatto precipitare in quell’inferno ghiacciato, e in quanto alle lingue, oltre al tedesco, parlavo correttamente inglese, francese e italiano. Il dottor Nash si alzò barcollando e mi disse: «Vado a visitare i miei pazienti. Metti in ordine qui dentro e dai una pulita. Da oggi sei il mio assistente. Da stasera, forse, qualche altra cosa. Ti occuperai del detenuto 64543.»

E uscì senza aspettare risposta.

 

«Io sono l’Angelo della vendetta di un Dio rinnegato. Io sono la luce cupa dei tramonti d’Israele.»

Continuava a ripetere queste parole come un disco incantato. Aveva una cinquantina d’anni. Ne dimostrava molti di più. La schiena incurvata da mesi di lavori forzati, le gengive scoperte e sanguinanti, la pelle squamata e livida, segni evidenti di scorbuto e avitaminosi in stadio avanzato. Il petto e la fronte erano segnati da cicatrici a forma di croce che, mi dissero, si era inciso da solo qualche mese prima. Era sopravvissuto al Campo K per due anni, pesava trentacinque chili e le dita delle sue mani erano insensibili, rigide e curve, abituate a maneggiare un piccone nel gelo della Siberia.

Si chiamava David ed era italiano, di lui si sapeva che un tempo era stato uno scienziato, ma nessuno ne ricordava il cognome. Da due anni era al Campo K, un altro A-27 condannato a vent’anni di lavori forzati. Tutti lo chiamavano l’ebreo perché, impazzito da tempo, si credeva Re David fatto angelo immortale da Dio per combattere una battaglia che avrebbe deciso le sorti del mondo. Da alcuni giorni era stato esentato dal lavoro e ricoverato in ospedale. Ora quest’uomo era la mia vita. Seduto su una sedia accanto al suo letto mi rigiravo tra le mani due buste con su scritto: Massima Riservatezza. Avevo paura ad aprirle.

Il dottor Nash mi aveva detto che David era in possesso di alcune informazioni che interessavano il Consiglio. Per essere più precisi, una parte del Consiglio. Mi aveva spiegato che alcuni membri, le nuove leve, avevano chiesto al Direttore del Campo K di controllare se il detenuto 64543 fosse effettivamente ancora vivo come a loro risultava, e in quel caso di isolarlo e averne cura. Era tutto spiegato nella lettera contenuta nella busta, ancora sigillata.

Al Direttore era anche arrivata un’altra comunicazione, da parte di altri membri del Consiglio, gli anziani, in cui si lasciava invece intendere che il detenuto 64543 doveva essere eliminato. Anche in questo caso le spiegazioni si trovavano in una lettera, contenuta nell’altra busta. Ancora sigillata anch’essa.

All’interno del Consiglio del regime c’erano delle fratture. Giovani contro anziani. I vincitori avrebbero governato, gli sconfitti sarebbero stati condannati a morte come nemici del popolo. Il Direttore del Campo K non aveva idea di quale fazione del Consiglio avrebbe sopraffatto l’altra, e quindi salvare o uccidere quel detenuto poteva, a seconda dei casi, costargli la vita. Per questo aveva deciso di girare lettere e responsabilità, nel limite del possibile, al dottor Nash, consegnandogli anche le buste, ancora chiuse. Burocrazia. Meno sapeva e c’entrava con questa storia, più possibilità avrebbe avuto di cavarsela in ogni caso.

Il dottor Nash aveva fatto lo stesso ragionamento e, sentendosi incastrato, aveva provato a scaricare la responsabilità su qualcun altro. Su di un detenuto che non aveva altra scelta, magari con conoscenze di psicologia e lingua italiana per rapportarsi con quel pazzo: su di me.

Chiese e ottenne dal Direttore del Campo K che la mia condizione di detenuto politico fosse commutata immediatamente. Nel giro di poche ore ero un uomo libero, il Responsabile del Settore Incarichi Speciali del Campo K. Una carica inventata ex novo per me che significava di fatto: il detenuto 64543 e tutto ciò che lo riguarda ora è affar tuo.

Firmai una montagna di documenti in cui mi assumevo in toto la responsabilità della gestione di tutta la faccenda e mi assegnarono delle stanze in un’ala semivuota dell’ospedale: per me, per David e per un detenuto comune di madrelingua italiana che avevo richiesto come assistente; era stato infermiere e aveva esperienza con i malati di mente.

Le mani mi tremavano. Era passata la mezzanotte quando mi decisi e aprii la prima busta. Quella spedita dai membri giovani del Consiglio. La lettera al suo interno era scritta in inglese, fortunatamente.

 

A Nicolaj Karinsky, Comandante in capo del Campo di Lavoro K

Come Lei di certo saprà, la decimazione della popolazione globale e la crisi energetica del dopoguerra portarono ad anni bui, anni nei quali le conoscenze in materia nucleare andarono perdute.

Ciò che si chiamava allora Unione degli Stati Europei, con quella che a noi piace definire oculata lungimiranza, reclutò segretamente un gruppo di scienziati con il compito di riconquistare all’uomo la conoscenza atomica perduta.

Il Progetto NN, “Nuovo Nucleare”. A quanto a noi risulta questi nuovi pionieri riuscirono nell’impresa circa cinque anni fa, ma prima che le loro scoperte fossero divulgate il Consiglio del GSP reputò il ritorno al nucleare come eccessivamente pericoloso e decise di eliminarli o imprigionarli tutti come nemici del popolo.

I piani originali di sviluppo del progetto, però, non vennero mai ritrovati. Allo stato attuale delle cose i membri giovani del Consiglio, che noi rappresentiamo, ritengono prerogativa assolutamente necessaria alla sopravvivenza della nostra struttura sovranazionale il ritorno all’energia nucleare e, soprattutto, alle testate missilistiche atomiche.

Disgraziatamente, i membri anziani del Consiglio sono orientati verso un atteggiamento di colpevole cautela, e ritengono troppo pericoloso esporsi in questo senso. Nonostante il loro ostracismo e i tentativi di insabbiamento del Progetto Nuovo Nucleare, sappiamo per certo che due anni fa nel Campo K sono stati internati due di quegli scienziati.

Conosciamo solamente il numero progressivo di uno di loro: 64543. Il Suo compito è quello di trovarlo, salvaguardarlo e interrogarlo. Dobbiamo sapere se è a conoscenza del luogo dove sono stati nascosti i piani di sviluppo del progetto.

Ci sembra inutile ricordarle che un fallimento in tal senso sarebbe considerato un atto di sabotaggio al Governo Speciale del Popolo e considerato un reato di Alto Tradimento. Non possiamo al momento inviarle alcun tipo di supporto, in quanto la situazione all’interno del Consiglio è molto delicata. Contiamo di risolvere questa disputa intestina al più presto.

Il Governo del Popolo conta su di Lei.

 

Rilessi la lettera diverse volte. Non avevo idea di cosa fare. Non avevo nessuno con cui consigliarmi. Ero poco più di un ragazzino e il destino del Nuovo Nucleare sembrava dipendere dalle mie decisioni. Aprii anche la seconda busta, quella dei membri anziani del Consiglio. Dentro c’erano una lettera e un fascicolo, entrambi scritti in russo, lingua che non capivo.

Il fascicolo riguardava i due scienziati prigionieri, visto che c’erano due foto: riconobbi a fatica in una di queste il detenuto 64543: David l’ebreo. Due anni di Campo K lo avevano trasfigurato. Cosa fare? Farmi assegnare un traduttore sarebbe stato molto rischioso, considerando la riservatezza delle informazioni. Ero curioso di ricostruire i tasselli di quella storia incredibile. Sapevo che nei primi anni di attività l’amministrazione del campo schedava e fotografava i prigionieri politici, gli A-27.

Da qualche mese le epurazioni erano diventate talmente frequenti e il numero di prigionieri talmente elevato che questa abitudine era andata persa. Ma se anche l’altro scienziato era stato imprigionato nello stesso periodo di David, allora da qualche parte nell’archivio del campo c’era la sua scheda. E la sua foto. Facendo un controllo incrociato potevo identificarlo.

Passai la mattina successiva negli archivi del Campo K. Avevo lasciato il prigioniero alle cure dell’infermiere italiano. La mia intuizione si era rivelata corretta, e riuscii a identificare l’altro scienziato: Prigioniero n. 63556 – Kalmut Coen

Né il dottor Nash né il Direttore del campo mi ricevettero, lasciandomi intendere che con questa storia non volevano avere nulla a che fare. Mi avevano dato ampi poteri, ed era stato ordinato agli ufficiali di soddisfare, nei limiti del possibile, ogni mia richiesta. Passai quindi il nominativo del prigioniero che mi interessava a un anziano ufficiale olandese, responsabile da anni del reparto smistamento degli A-27. Mi assicurò che se lo avesse trovato lo avrebbe trasferito nell’infermeria dell’ospedale. La sera stessa un giovane soldato dai capelli rossi e il naso lentigginoso venne a chiamarmi, invitandomi a seguirlo in infermeria.

 

Kalmut Coen

Quella giornata sembrava non voler passare più. C’era da rimettere a posto l’ala della miniera crollata. Cosa avevo fatto? Cosa ero diventato? Vendetta e rimorso. E ora? Mi sentivo meglio? No, non mi sentivo affatto meglio. Ripensai a quell’ultimo periodo della mia vita. Della mia nuova vita al Campo K.

Vi ero giunto già avanti con gli anni. Ricordai le percosse. Le umiliazioni. Il lavoro disumano. Il freddo. La fame. Soprattutto la fame. Come stringevo quei piccoli tozzi di pane congelato. Come li leccavo lentamente durante la mezz’ora di pausa per il pranzo. Mi avevano parlato dei primi tempi, quando in giro si potevano ancora vedere gatti e topi. Se eri fortunato, alla sera potevi cuocere un po’ di carne.

Ora non più. Ora quei piccoli pezzetti di pane erano il tuo tesoro. Il tuo tesoro da far durare quanto più potevi. Potevi leccarlo fino a consumarlo tutto, lentamente. O potevi farne piccole briciole da succhiare. O ancora, potevi scaldarlo con dell’acqua e qualche ago di mugo o pino in un barattolo di latta.

La fame. Ero troppo vecchio per combattere ancora. Troppo vecchio per resistere. Poi mi spostarono a lavorare dal bosco alla miniera. Ero un ingegnere. E non uno qualunque, uno dei migliori al mondo. Due giorni e avevo tirato giù una lista di cose da fare per aumentare la produttività del trenta per cento. Non ricordo neanche io come riuscii a farmi ricevere dall’ufficiale responsabile.

Se c’è una verità che ho imparato in questi anni al Campo K è che solo una cosa conta più delle procedure, della vita dei prigionieri e degli A-27: la produttività. E io ero una macchina di produttività. Nel giro di un mese ero assistente dell’ufficiale. Mi affidarono anche tutti i progetti per le nuove gallerie. Certo, rimanevo un A-27, ma avevo la razione dei soldati, vestiti adeguati e una baracca con la stufa dove dormivo con i capisquadra polacchi, una decina di prigionieri comuni.

Oh la stufa c’era anche nelle nostre baracche, ma lì eravamo in cento, duecento. E una stufa, per il poco tempo che rimaneva accesa la sera, quanto poteva scaldare? Chi non dormiva abbracciato ai suoi vicini moriva, nelle notti d’inverno. Il mio lavoro poi non era più così duro: avevo un ufficio tutto mio, addirittura. Nel giro di un anno iniziarono a rispettarmi, a tenermi in considerazione sia i soldati che i detenuti comuni. Mi chiamavano Kalmut il saggio, perché avevo sempre una buona parola per tutti.

Cercavo di aiutare come potevo i polacchi: feci formare delle squadre di lavoro per la miniera composte solo da miei connazionali e le mandavo a lavorare nei punti dove sapevo avrebbero prodotto più degli altri. Così avrebbero avuto più pane. Cercai allora di sfruttare la mia posizione privilegiata per scoprire che fine avesse fatto David. Mettevo da parte un po’ di cibo e lo barattavo in cambio di informazioni.

Molti prigionieri, anche tra i comuni, avrebbero ucciso per un’aringa, o per della verdura. Figuriamoci quando si sparse la voce che per avere del cibo bastava venire da me con una storia. E le informazioni in un campo di prigionia girano veloci. David, mi dissero, era impazzito. Credeva di essere un Angelo, la reincarnazione di Re David e Dio solo sa cos’altro ancora. Scorbuto e avitaminosi lo stavano uccidendo. Lo chiamavano David l’ebreo.

Mi ero anche innamorato, in quel periodo. Di una prigioniera comune, una polacca, Karolina. So che può sembrare grottesco e patetico innamorarsi a sessant’anni, quando si vive in quelle condizioni. Ma a me era successo. Lei ricambiava. Se lo facesse per amore o per convenienza, non lo sapevo. E non mi interessava saperlo.

Poi un giorno, non tornò. Era andata nel bosco con una squadra femminile, dovevano raccogliere delle radici e delle bacche. Di quella squadra faceva parte anche una detenuta comune inglese, Alexandra. Ci fu una tormenta e la squadra si diresse al rifugio più vicino, ma Karolina e Alexandra sbagliarono strada, si persero. Le ritrovarono il giorno dopo in una baracca nel bosco, di quelle usate come appoggio dalle squadre di taglialegna.

Alexandra era dentro che dormiva, era riuscita ad accendere la stufa a legna. Karolina era fuori, morta assiderata. In ginocchio, davanti alla porta della baracca. Aveva le dita delle mani scarnificate. Doveva aver provato ad aprire quella porta in ogni modo. A bussare. A graffiare. Alexandra disse di non essersi accorta di nulla, disse di averla persa di vista e di essere arrivata alla baracca. Aveva messo la catena per abitudine, e dopo aver acceso il fuoco si era addormentata. Non aveva sentito la sua compagna urlare e bussare nella tormenta, là fuori. Mi convinsi che l’avesse lasciata morire al freddo apposta, per invidia.

Ero distrutto. Pensai a come ucciderla e a farlo sembrare un incidente. Mi informai e scoprii che anche Alexandra era stata un ingegnere, un tempo. Quasi non riuscivo a credere a una simile fortuna. Lo feci presente ai miei superiori e chiesi una sua consulenza per una galleria che avevo fatto sistemare da una squadra di polacchi fidati. La galleria crollò sulla sua testa e su quella dei tre soldati che l’accompagnavano. Vendetta era compiuta.

Ma io non mi sentivo meglio. Ero divorato dal rimorso. E se lei non avesse avuto colpe nella morte di Karolina? E i tre soldati che colpe avevano? In ogni caso, mi sentivo meglio ora? No. Avevo ucciso per la prima volta nella mia vita, e continuavo a pensare a Raskolnikov. A tutti quei detenuti del campo che, qualunque fosse la loro nazionalità, continuavano a recitarsi, a tramandarsi brani di Delitto e Castigo, sussurrandoli piano nelle notti siberiane intorno alle stufe, intorno ai fuochi, come una preghiera votata a esorcizzare i loro rimorsi. Le loro colpe, vere o presunte che fossero. Raskolnikov ci accompagnava tutti, il fantasma silenzioso e cupo delle nostri notti di vento ghiacciato.

Quella giornata non sembrava passare più, no. Il passato e il presente si sovrapponevano. Il rimorso mi divorava. L’ufficiale capo della miniera continuava a chiedermi come diamine era potuto accadere quel crollo. Le squadre a domandarmi come dovevano procedere per sgombrare tutto. I capisquadra se c’era pericolo che ricapitasse.

Verso sera un ufficiale olandese già avanti con gli anni mi venne a cercare. Era da sempre il responsabile del reparto smistamento degli A-27. Lo seguii nell’infermeria dell’ospedale. Mi chiedevo cosa volesse da me: fisicamente, tutto sommato, stavo bene. I miei mali erano tutti nell’animo.

Dopo pochi minuti ci raggiunse un medico giovanissimo, un tedesco. Il dottor Kapper. L’ufficiale mi disse che era il Responsabile del Settore Incarichi Speciali del Campo K, e che dovevo mettermi a sua completa disposizione. Era molto gentile questo ragazzo, non sembrava proprio un membro del regime. Lo seguii per i corridoi dell’ospedale. Mi fece delle domande generiche su David.

Il dottor Kapper sapeva qualcosa del Progetto NN, non c’era dubbio. Arrivammo in un’ala semideserta, il dottore aprì una porta e quasi mi si fermò il cuore. Nella stanza c’erano due uomini. Uno, seduto sulla sedia accanto al letto, era un infermiere. L’altro, quello sul letto, era David. David l’ebreo.

Come era ridotto. L’ombra dell’uomo che avevo conosciuto. Chi avrebbe mai detto che quello scheletro era stato uno dei più grandi fisici teorici del mondo? Un uomo brillante, di una cultura e di un’intelligenza straordinarie. Oltre la fisica amava la storia, la letteratura e le arti in genere. Conosceva a memoria interi canti della Divina Commedia, e non era insolito sentirlo citare brani tratti dal Vecchio Testamento, mai a sproposito peraltro. Riusciva anche a essere simpatico, ed era dotato di un’ironia particolare, arguta e sottile. Quando capì che le cose si stavano mettendo male nascose i piani di sviluppo del nostro progetto. Non ci volle mai dire dove.

E ora quest’uomo, l’unico uomo al mondo in grado di riaccendere l’interruttore dell’energia atomica, era steso morente e impazzito sul letto di un ospedale di un campo di lavoro siberiano. Il destino a volte sa essere strano. Il dottor Kapper mi fece segno di seguirlo nella sua stanza. Mi fece accomodare e mi offrì un bicchierino di vodka.

«Cosa sai dirmi di lui?» chiese.

Lo guardai in silenzio. E in silenzio bevvi la mia vodka. Questo giovane dottore tedesco mi era simpatico. Non sembrava ancora viziato da quella sete di potere e di comando che prosciugava i sentimenti degli uomini che ricoprivano cariche importanti nel sistema. Sembrava solamente curioso.

Di norma questo non mi sarebbe bastato, ma avevo bisogno di sfogarmi. Di parlare con qualcuno. Di liberarmi. Gli dissi che gli avrei detto tutto quello che sapevo del Progetto Nuovo Nucleare. Gli avrei detto tutto perché mi ispirava fiducia. Perché mi sembrava un bravo ragazzo e io avevo bisogno di parlare di tutto questo. Gli avrei detto tutto se mi avesse concesso, dopo, di poter parlare con David. Forse mi avrebbe riconosciuto. Forse sarei riuscito a fare breccia nella sua pazzia.

Il dottor Kapper aveva gli occhi lucidi. Anche lui, mi disse, doveva parlare con qualcuno. Aveva bisogno di parlare di quello che stava succedendo in quei giorni, di chiedere un consiglio a un uomo con più esperienza di lui. E io gli ispiravo fiducia. Gli sembravo una brava persona. Mi raccontò la sua storia, quasi in lacrime. Non era un medico, non era un membro del regime… era solamente uno studente di psicologia capitato per caso dentro una faccenda molto più grande di lui.

Mi fece tenerezza, quel ragazzo. Mi lesse la lettera dei membri giovani del Consiglio e mi chiese se potevo tradurgli quella degli anziani. Io il russo lo capivo: gli avrei letto quello che c’era scritto, poi avremmo fatto il punto della situazione. Avremmo provato a parlare assieme a David e, dopo, avremmo deciso il da farsi.

 

A Nicolaj Karinsky, Comandante in capo del Campo di Lavoro K

Il Consiglio del Popolo le ribadisce la necessità di eliminare il prigioniero n. 64543. Potrebbe ricevere ordini diversi da questo da parte di altri membri di questo stesso Consiglio: la preghiamo di non tenerne conto. Questi membri hanno le ore contate e saranno al più presto giudicati e condannati come nemici del popolo.

Alleghiamo un fascicolo con descrizione e foto di due prigionieri. Uno è il n.64543, dell’altro non sappiamo il numero ma il nome: Kalmut Coen, di nazionalità polacca. Facevano entrambi parte di un progetto sovversivo, erano spie al soldo dei nostri nemici. Assieme all’eliminazione del prigioniero n.64543 vorremmo che ci fosse una stretta sorveglianza su quest’altro prigioniero. Con chi parla. Cosa dice. Ogni cosa.

Ci sembra superfluo ricordarle che se questi ordini non dovessero essere immediatamente eseguiti Lei sarebbe accusato dal Governo Speciale del Popolo di reato di Alto Tradimento.

 

Rilessi la lettera diverse volte, incredulo. Spiegai al dottor Kapper tutto quello che sapevo.

Il Progetto Nuovo Nucleare, istituito dall’ Unione degli Stati Europei nel 2026, dopo la grande guerra, era segretissimo. Dopo il colpo di stato, il Governo Speciale del Popolo e il Consiglio non fermarono le nostre ricerche. Ma proprio quando riuscimmo a concluderle con successo, decisero che il ritorno al nucleare non era una scelta saggia. E decisero di eliminarci, o imprigionarci tutti. David rubò i piani, gli altri provarono a scappare, sparpagliandosi per l’Europa. Li trovarono e li uccisero. Io mi consegnai spontaneamente. David lo trovarono che fumava un sigaro in riva al mare, in Normandia. Sembrava li stesse aspettando, con la valigia pronta. Non oppose la minima resistenza e fu mandato al Campo K, come me. Questa era la storia del Progetto NN.

Boris Kapper mi guardava affascinato. «E i piani? Dove sono nascosti i piani? Tu lo sai?»

No che non lo sapevo. L’unica persona al mondo che lo sapeva era sdraiata sul letto della stanza attigua alla nostra, in fin di vita e senza più il lume della ragione. Ma anche se fossimo riusciti a farci dire che fine avevano fatto quei piani, cosa avremmo fatto dopo? Non lo sapevamo. Avremmo preso tempo, aspettando di vedere come si evolveva la lotta all’interno del Consiglio, probabilmente. Entrammo nella stanza di David e Boris Kapper chiese gentilmente all’infermiere di uscire.

 

Francesco Rinaldi

Lo sa Dio se sono stato fortunato. Sono entrato nel Campo K quattro anni fa. Rapina a mano armata. A mano armata? Era un’arma giocattolo. Un giocattolo, dico. Per cosa poi? Bigiotteria da quattro soldi. Porcherie. Mi hanno beccato, processato e giudicato. Niente attenuanti, niente di niente. Condanna a cinque anni di lavori forzati da scontare al Campo K, in Siberia. Neanche sapevo cosa fosse la Siberia. Tipo che d’inverno si arriva ai sessanta sottozero.

Ci sono i vecchi, ‘sti vecchi russi, che ti dicono i gradi sputando a terra. Roba che quando lo sputo gela in aria, prima di arrivare giù, allora vuol dire che sarà una giornata lunga e fredda. Quando sono arrivato ho pensato: qui non ci resisto una settimana. Sono morto. Fortuna che c’era la comunità italiana. Quelli anziani, quelli con anni di campo alle spalle mi hanno detto subito: «Amico, se vuoi andare avanti qui mettiti dietro a noi. Fai quello che diciamo noi, quando lo diciamo noi e come lo diciamo noi. Che se ti sembra di affogare nella tua merda beh, guarda che noi qui siamo privilegiati.»

Privilegiati? Cosa c’è peggio di questo pensavo? Poi li ho visti. I detenuti politici, gli A-27. Be’, avevano ragione gli anziani. In confronto a loro, noi ci sembrava di stare in villeggiatura. Del tipo che a noi ci davano scarpe e cappotti di pelliccia, a loro no. Noi si lavorava come schiavi, ma almeno un minimo da mangiare lo passavano. A loro no, loro non erano neanche schiavi. Erano peggio.

C’erano alcuni gruppi che li massacravano di botte, li torturavano e li uccidevano così, per il gusto di farlo. Ma non era roba per noi italiani quella. Ste cose noi della comunità non le volevamo mica fare. Neanche ci girava di fare le poste di notte alle donne che andavano sole per il campo per prenderle, portarle nelle baracche e violentarle in gruppo. Ste robe le lasciavamo agli altri, noi ci occupavamo del mercato nero. Gli anziani della nostra comunità erano arrivati a gestire i traffici del campo. Avevano lottato per anni con i francesi, i greci e gli spagnoli. Tanto sangue era scivolato su questo ghiaccio sporco, mi avevano detto.

Potevamo procurare tutto. Oddio, tutto quello che si può procurare in un campo di lavoro, almeno. Ai soldati passavamo una tangente. Tabacco, vodka, e se andava di lusso anche cioccolato e burro. Quando arrivavano le prigioniere italiane, loro erano spostate direttamente nelle baracche. Niente stupri, per loro. Almeno le prigioniere normali, per le A-27, non c’era mica nulla da fare. I nemici del popolo non erano più italiani, o tedeschi o nulla. Non lo cos’erano. Marcati. Morti viventi.

Poi altre tangenti ai medici. Sì perché c’erano dei medici lì, mica tutti eh, ma certi dico, che mi hanno detto facevano cose strane. Tipo che prendono sti prigionieri e li fanno a pezzi, li operano che sono ancora vivi. Ci fanno gli esperimenti. Di solito lo fanno con i politici, ma quando gli servono bambini no. Perché gli A-27 non possono mica avere bambini. Le donne che rimangono gravide le fucilano e via. Invece le comuni sì. E i bambini del campo girano come i topi da mattina a sera, strisciando sotto le baracche per nascondersi. Fino a che non sono abbastanza grandi da lavorare anche loro. Poi quando la madre sconta la pena amen. Via, fuori dal campo con lei.

Ma ecco che ci devi arrivare a quel giorno, tra i medici che cercano bambini per gli esperimenti e i soldati e gli ufficiali pedofili che vogliono organizzare feste con carne fresca ogni sera be’, devi essere un bambino fortunato per uscire dal Campo K con la tua mamma. Devi imparare a strisciare mezzo nudo nella neve e nel ghiaccio, sottozero. Mica facile. Tranne che se non sei un bambino italiano. Tangenti ai medici, tangenti ai soldati, tangenti agli ufficiali. I bambini italiani non si toccano.

Tra le nostre baracche si vedeva poca sorveglianza. I soldati neanche ci passavano più. Gli anziani gestivano tutto, e a noi italiani nessuno ci dava fastidio, almeno fino a che stavamo nella nostra zona. E i nostri bambini lo sapevano, mica si allontanavano. Si erano fatti furbi. Lì gli anziani facevano celebrare anche matrimoni. Avevamo un paio di preti, di quelli sopravvissuti da prima che mettessero al bando le religioni.

Sono preti, ma quelli del campo mica lo sapevano, altrimenti sarebbero stati A-27. Gli anziani però sì, loro lo sapevano eccome, e quando ci stavano due italiani che si volevano sposare nel campo be’, ecco che saltava fuori il prete. Si faceva la cerimonia e tutto. Si mangiava un po’ di più e saltavano fuori anche le bottiglie di vodka. E gli anziani li facevano stare anche due notti in una baracca agli sposi, da soli, per la luna di miele. No, non ci potevamo lamentare noi italiani. Eravamo prigionieri, ma la vita continuava. Continuava anche al Campo K.

Quella mattina me la ricordo ancora. Ero lì con la mia squadra a fare questo lavoro, si trattava di spaccare il cranio con il piccone a un cumulo di cadaveri congelati. Alcuni li avevano fucilati, altri erano semplicemente morti di qualcosa. Vai a capire. Erano tutti A-27, un centinaio a occhio e croce. Erano ammucchiati uno sopra l’altro. Le ruspe stavano aspettando di buttarli dentro una fossa comune. Non so perché volevano che gli spaccassimo il cranio a picconate prima di interrarli. Ci sono cose che mica hanno un senso dentro un campo di lavoro. Questa era una di quelle. Preciso. Burocrazia, abitudini, manie. Comunque, ero lì che facevo finta di sbattermi col piccone, quando ecco che mi sento chiamare: «Franz, ehi Franz!».

Era un giovane ufficiale tedesco. Franz, mi chiamavano i crucchi. Questo lo conoscevo, gli passavo il tabacco. Una volta gli avevo regalato anche due grammi di marjuana, non ricordo come me la fossi procurata. La sua faccia! Quasi piangeva dalla felicità, quel ragazzino. Mi aveva giurato che si sarebbe sdebitato. E ora era lì che mi chiamava.

Praticamente era saltato fuori che all’ospedale serviva un italiano che sapesse fare l’infermiere o qualcosa del genere. Del tipo: niente più lavori pesanti al freddo e ‘ste robe. Dalla mattina alla sera al caldo, in ospedale. Vestiti puliti, cibo di qualità superiore e tutto. Stava arrivando l’inverno, era qualcosa che non si poteva neanche credere.

Qualunque prigioniero avrebbe ucciso, per quel posto. E ‘sto ragazzino aveva pensato a me. Era lì che mi chiedeva se fossi capace a fare l’infermiere. Amico, anche il chirurgo ti saprei fare per questo. Anche il chirurgo! Avevo trent’anni, lavoravo da quindici e prima di essere internato avevo fatto di tutto. Ma l’infermiere mai. Gli dissi che ero stato infermiere in Italia. Del resto avevo assistito mio padre quando il tumore se l’era portato via, anni prima. Un minimo d’esperienza l’avevo.

Una cosa avevo capito in tre anni di campo: non c’è nulla che un uomo non può imparare a fare. Nulla. Ho visto uomini fare cose che non avrei scommesso un soldo bucato contro un sacco d’oro. Preciso. Prigionieri politici magri come scheletri tirar fuori dalle cave dieci volte più roba che prigionieri comuni robusti come tori. Gente che aveva studiato da intellettuale imparare in pochi minuti a fare il falegname o il fabbro, o morire. E gente che non sapeva leggere o scrivere diventare filosofo, anche. Preciso. Il Campo K era anche questo. Quindi da quel momento io ero un cazzo di infermiere.

L’ufficiale mi portò dentro l’ospedale. Mi fecero lavare, sbarbare e ripulire. Vestiti nuovi, freschi di bucato. E il camice bianco. Poi arrivò ‘sto tipo. Un tedesco, giovanissimo. Era smunto, smagrito. A vederlo così lo avrei scambiato per un A-27 arrivato al campo da due, tre settimane. Invece era un dottore, un responsabile di non so cosa, uno importante comunque. Mi disse di chiamarsi Boris Kapper, e parlava anche italiano.

«Francesco Rossi, detto Franz. Conosci anche il tedesco?»

«Ià!»

Risposi. Per le lingue ero portato, tipo dono naturale. Il tedesco me lo ero imparato al campo.

«Bene. Qui dice che sei un infermiere.»

Annuii.

«Hai esperienza con i malati di mente?»

«Ci ho lavorato per un periodo.»

«Prima che venissero promulgate le leggi speciali immagino… i malati di mente ora non vengono curati, vengono fucilati o internati, e la psicologia è stata messa al bando. Scommetto che ti hanno condannato per questo vero? Perché lavoravi con i malati di mente.»

Non so di cosa stesse parlando, ‘sto dottorino. Sorridevo e annuivo, io.

«Preciso. Proprio per quello.»

«Perfetto. Sei esattamente la persona che mi serve. Da adesso mi aiuterai a occuparmi di David l’ebreo, e farò immediata richiesta per farti diventare un uomo libero.»

E mi fece cenno di seguirlo.

 

Di gente impazzita nel campo ne avevo vista. Ma questo li batteva tutti. Era proprio andato. Continuava a ripetere di essere un Angelo del Signore. Cercava la sua spada e mi riempiva la testa con delle menate sulla storia di Israele e di Re David. Fottuto dal freddo. Dalla fame. Dal Campo K. Ma grazie a lui stavo per diventare un uomo libero. Fino a qualche ora prima ero un prigioniero e ora ero un infermiere. Mi guardavano con rispetto mentre camminavo per i corridoi dell’ospedale. Tipo che al pomeriggio mi avevano portato il tè. Il tè dico, con un biscotto. Un biscotto vero, di quelli fatti in casa. Avevo pianto.

Era ridotto male il compatriota. Scorbuto, avitaminosi, pazzia dilagante. Quanto poteva vivere ancora? Difficile dirlo. Avevo visto uomini ridotti peggio di lui andare avanti per mesi, tenersi aggrappati alla vita come delle sanguisughe. Altri che sembravano scoppiare di salute morire così, da un giorno all’altro. Era questione di occhi. Di quello che avevi negli occhi. La scintilla, la chiamavano i vecchi. Il tuo corpo poteva essere già arrivato, ma se avevi la scintilla be’, andavi avanti. Se invece non ce l’avevi, se il campo ti metteva in ginocchio e ti rubava la voglia di vivere, allora eri morto. Era questione di ore, massimo di giorni. Solo che a ‘sto tipo mica gli riuscivo a leggere negli occhi. Perché la pazzia aveva fottuto anche quelli. Preciso. Speravo solo non mi morisse prima che il dottorino crucco riuscisse a farmi diventare davvero un uomo libero.

Cosa che fece in meno di ventiquattro ore. Giuro. Mi portò il foglio con l’amnistia. Ero libero e lavoravo come infermiere, mi avrebbero anche accreditato uno stipendio. Poca roba certo, ma da non credersi. Quella notte non chiusi occhio, tanto ero felice. La mattina successiva il dottorino era andato a fare ricerche e mi aveva lasciato solo con il matto. Fortuna che lo aveva sedato e non mi era toccato di sorbirmi altre robe sulla fine del mondo.

Era tornato nervoso ed eccitato e aveva passato il pomeriggio a camminare su e giù per i corridoi. Ogni tanto si affacciava per vedere se il matto si fosse svegliato, mi chiedeva delle cose a cui rispondevo sempre «Ià! Ià!» e poi si metteva nella sua stanza a leggere e rileggere una lettera. Sarà stata della sua ragazza. Io non mi lamentavo, ero seduto davanti a ‘sto David l’ebreo, ogni tanto gli misuravo la febbre, ogni tanto gli cambiavo la padella e intanto fantasticavo su cosa avrei fatto una volta tornato a casa.

Poi verso sera un soldato pel di carota con le lentiggini venne a chiamare il dottore, che lo seguì. Tornò dopo un po’ con un prigioniero, un vecchio dai capelli bianchi. Doveva essere polacco, dall’accento. Si chiamava Kalmut Coen. Si chiusero nella stanza del dottore e si misero a parlare per non so quanto. Intanto il matto si era risvegliato. Ero lì che cercavo di tenerlo buono quando ecco che entrarono il dottor Kapper e il polacco. Il dottore mi chiese di uscire, e andai a fumarmi una sigaretta per i corridoi.

 

Ero lì che facevo avanti e indietro tutto concentrato ad assaporare il gusto del tabacco quando ti sento ‘sti gridi. Venivano dalla stanza del matto, anche perché lì di altre stanze e altri pazienti mica ce n’erano. Ci arrivai di corsa e quello che vidi quando aprii la porta non so se riuscirò a scordarmelo. L’ho già detto che dentro il campo capitano cose che a raccontarle uno non le crederebbe vere. Be’, questa era una di quelle. Preciso. Il matto, delirante, scheletrico e tutto, aveva staccato una barra di ferro dal letto, vai capire come ci era riuscito, e aveva colpito il dottorino crucco e il vecchio polacco, ferendoli gravemente. E ora stava rantolando a terra accanto a loro.

Quando entrai prese a strisciare per avvicinarsi, a volere il conforto di quando sai che stai per esalare l’ultimo respiro, credo. Ne avevo visti tanti fare così subito prima di morire. Lo sforzo lo aveva finito. E lo sapeva. Così mi ci sono inginocchiato vicino e gli ho retto la testa mentre se ne andava. Glielo dovevo. Preciso. Dopo vabbè, ho chiamato le guardie dell’ospedale, e mi ha mandato a chiamare addirittura il Direttore del campo in persona, che pensavo che mi avrebbero processato e fucilato per negligenza. Invece il Direttore se la stava facendo sotto.

Mi disse che c’erano state delle epurazioni nel Consiglio e che alcuni dei membri giovani erano stati arrestati. E che l’indomani sarebbero arrivati due dei membri anziani, addirittura. Sicuramente aveva qualcosa da nascondere, perché era lì che da una parte mi lisciava, dall’altra minacciava di farmi fucilare. Cioè se non mi fossi imparato a memoria una storia da dire a ‘sti membri del Consiglio. Ero appena tornato libero, mica avevo voglia di ripassare per processi, carceri e campi di lavoro. Anche un libro intero mi sarei studiato a memoria.

Quella notte sognai quel matto che mi infilzava con una sbarra di ferro. Preciso. Poi la mattina dopo ecco che mi vennero a chiamare. Arrivai dal Direttore e dentro c’erano questi due signori vestiti di lusso. Sui sessant’anni. Portati bene però. Il Direttore me li presentò: due dei membri anziani del Consiglio del Popolo. Le persone più importanti che esistano, tipo. Una parola sbagliata e ti ritrovavi alla Kolyma, che è anche peggio di qui. O ad Auschwitz, dove si dice che hanno le camere a gas e i forni.

Salutai con educazione, mi misi a sedere e rimasi zitto. Il Direttore iniziò a raccontare tutta la storia che mi aveva fatto imparare a memoria. Che lui, ricevuta non so che loro lettera, aveva deciso di eliminare David l’ebreo. E che io ero stato il suo braccio destro, e che quel matto lo avevo ucciso io. E tutta una serie di altre bugie. I tipi annuivano contenti, ogni tanto mi chiedevano qualcosa.

«Come dice il Direttore. Preciso» rispondevo, quasi balbettando, con gli occhi bassi.

A un certo punto mi hanno chiesto seri seri se David mi avesse parlato di certi piani o qualunque altra cosa. Io ho iniziato a sudare e ho risposto: «No, era andato. Delirava, pensava di essere un angelo e di camminare nel deserto. Niente di sensato diceva più».

Oh, se ero nervoso. Lì mi ci stavo giocando la vita.

Poi i due si sono messi a parlare tra di loro a voce bassa. Alla fine, hanno tirato fuori un gran sorriso e si sono messi a fare complimenti. Al Direttore gli hanno detto che gli avrebbero dato non so che promozione, che ne avrebbero parlato poi in privato. A me che potevo andare via da lì quando volevo e che per premio mi davano un milione di crediti. Un milione di crediti! Stavo per svenire, giuro.

Quella sera ho fatto un giro alle baracche della comunità italiana e ho salutato tutti. Gli ho raccontato un po’ la storia e gli ho lasciato la metà di quei soldi. Per ringraziarli di tutto e per aiutarli. Glielo dovevo.

Il giorno dopo ero sul treno che salutavo la Siberia.

Prima di tornare a casa giù in Italia, però, sono venuto in Normandia. C’è ‘sto casolare abbandonato, quasi sul mare. Di gente ne vedo poca in giro, sarà perché qui è ancora radioattivo di brutto. Vai a capire. Il casolare è vuoto, però c’è il camino. Ora si sta facendo sera e si è alzato un venticello fresco. Abituato alla Siberia si sta benissimo eh, però dopo tanto tempo sottozero oh se hai voglia di accendere un bel fuoco per scaldarti le ossa fino a fartele bruciare. Preciso. E allora raccolgo legna mezza secca e mezza marcita sulla spiaggia e preparo il camino.

Quello che non ho detto a nessuno è che quel matto di David prima di morire mi ha bisbigliato all’orecchio di venire qui. Mi ha poggiato la mano sulle due chiavi che aveva appese al collo con una catenina di fil di ferro, nascoste dalla maglia e la camicia. Chissà cosa pensavo di trovarci, magari un tesoro o vai a capire. Invece niente.

Una delle chiavi apre la porta del casolare. L’altra il baule che ho trovato in soffitta. Dentro non ci sta mica nulla di valore. Solo una pila di fogli con tutti schemi e robe matematiche e formule. E disegni strani, anche. Era proprio un matto fottuto.

Comunque, ora non ci voglio pensare. Voglio godermi la libertà e questa nuova vita da ricco. Ho comprato un sacco di cose da mangiare, e anche delle salsicce da farmi alla brace. Accendo il fuoco, ma mica prende bene, la legna è umida e marcita. Fortuna che ho tutto ‘sto baule pieno di carta da usare per farlo prendere come si deve.

Inizio a buttare i fogli sotto la legna. È davvero umida, per accenderlo dovrò usarli tutti, mi sa. Poco male, mica c’ho fretta, io. Stappo una birra e mi godo il rumore del mare.

E continuo a gettare fogli sulla fiamma.

Oh se voglio godermelo sto camino.

Sto fuoco in Normandia.

 

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