DAVID RESTI
lunedì 09 dicembre
Apro gli occhi, e la prima cosa che metto a fuoco è una bandiera rosso sbiadito con la lupa capitolina che allatta Romolo e Remo, sovrastata da una scritta color giallo sporco: Res Publica.
Su una mensola, lì accanto, due malmesse statue di bronzo: il busto di Caio Crasso e quello di Marco Bruto, in tutta la loro iconica fierezza. Sembra quasi che mi fissino e mi sorridano strano, come a dirmi che sono diventato pazzo.
«Maledizione» sibilo, con la bocca impastata e la rabbia di chi si è appena svegliato maledicendo il mondo. Mi guardo attorno, avvolto da una luce fioca, figlia di una lampadina appesa a un filo, proprio sopra la porta di ingresso. Non è cambiato nulla. Allungo la mano e prendo l’ultimo foglio dalla risma che ho accanto. Lo guardo, lo leggo e lo rileggo ad alta voce, adagio, come se stessi officiando un rituale capace di liberarmi da questo dannato incantesimo.
Aspetto. E aspetto ancora. Niente. Lo sguardo va dal foglio alla finestra aperta, da cui entra una folata gelida. Mi alzo e mi ci trascino. Ho voglia di affacciarmi, di ubriacarmi di quest’aria pungente. Osservo le strade vuote, le luci accese oltre le finestre dei palazzoni. Nessuno dorme, sono tutti incollati allo schermo.
Scommetto che in molti non hanno chiuso occhio, stanotte. Il tempo sembra essersi fermato, si sente solo l’audio di migliaia di televisori, tutti sintonizzati sullo stesso canale. Tra poco sorgerà il sole e andrà in onda l’evento del secolo.
Se adesso avessi per le mani quella lampada che a strofinarla viene fuori un genio, il primo dei tre desideri sarebbe un telecomando universale per togliere simultaneamente l’audio a tutti gli apparecchi. Per godermi qualche secondo di silenzio e pensare a come cambiare il finale di questo romanzo balordo che è la mia vita.
Per seconda cosa, vorrei avere per le mani un computer portatile, anche un 12 pollici mi andrebbe bene. Tutto, ma non questa Olivetti Lettera 72, che sarà anche il top di gamma delle macchine da scrivere ma il cui utilizzo, credetemi, non lo augurerei a nessuno, neanche per un biglietto d’auguri.
Il terzo desiderio? Far scomparire il cadavere che mi penzola davanti. Sì, perché di fronte a me dondola un corpo, con ancora il collo infilato dentro al cappio improvvisato che è diventata la cintura dei suoi pantaloni. È il proprietario di questo monolocale fatiscente.
O forse no, forse il monolocale non è neanche suo. Poco importa, ora è morto. Si è impiccato con la cintura, legandola a un gancio di ferro che spunta dal soffitto scrostato, neanche questo buco al terzo piano fosse il retrobottega di una macelleria.
«Maledizione» ripeto, ad alta voce.
E strappo la pagina. L’accartoccio e la getto a terra, a fare compagnia a decine di altre pagine che hanno fatto la stessa fine. Poi siedo sul bordo del letto e inserisco un foglio vergine nella macchina da scrivere. Le dita scivolano sui tasti, ma niente da fare. Di scrivere non se ne parla. Forse perché mi sono appena svegliato, o forse perché non è facile concentrarsi con un cadavere accanto. Mi affaccio di nuovo alla finestra e per un istante penso che dovrei andarmene da qui, che dovrei fuggire. Scuoto la testa. Non saprei dove altro nascondermi e, se anche lo sapessi, considerando le condizioni in cui si trova la mia gamba non andrei lontano.
Al limite potrei cacciarmi in uno dei tanti locali ancora aperti e mescolarmi alla folla che ha passato la notte riunita davanti ai televisori e ai maxischermi in attesa della diretta dello sbarco. Potrei fare colazione, oppure ordinare una birra e il piatto del giorno; fare conversazione con qualcuno, magari. Così, tanto per ammazzare il tempo fino a quando non mi troveranno. Potrei ubriacarmi in compagnia, alla salute del comandante della Mercurio 15, il tribuno Luigi Flavio Salis. Potrei, ma la verità è che non ho nessuna intenzione di uscire, vedere gente e festeggiare.
Guardo ancora l’impiccato. Vi starete chiedendo perché non lo tiro giù, per sistemarlo da un’altra parte. Il fatto è che non è possibile: questo monolocale fa qualcosa come venti metri quadrati, compresi bagno e angolo cucina. Non ci sono sedie, o scrivanie. Un letto, un televisore appeso alla parete, un piano per i fornelli, un lavandino, un frigorifero e un grosso baule rettangolare con sopra un vecchio telefono grigio, di quelli con il disco. Non c’è altro.
Io sono seduto ai piedi del letto, mentre la macchina da scrivere è poggiata sul baule, che uso come tavolino improvvisato. Se tirassi giù l’impiccato non saprei dove metterlo. Per terra non c’entrerebbe: mi troverei a doverlo calpestare ogni volta che mi muovo. Sdraiarlo accanto a me è fuori discussione. Nasconderlo sotto al letto non è possibile: è di quelli pieni, con i cassettoni. Rimarrebbe il bagno, ma è uno stretto buco con un lavabo che cade a pezzi e la tazza infilata dentro il box doccia. Potrei trascinarlo lì, ma se poi dovessi andare a espletare un bisogno fisiologico…
Niente da fare. La soluzione migliore è lasciarlo dov’è. Per un attimo ho pensato anche di buttarlo dalla finestra; in questa Cloaca, in fondo, non esiste legge. O almeno credo. Ma se lo facessi volare giù potrei attirare le attenzioni di qualche rais della zona, e costui potrebbe chiedersi come mai per le strade piovono cadaveri mentre tutti sono incollati alla televisione. Potrebbe pensare che si tratta di un nuovo, fantasioso modo di festeggiare. E potrebbe avere voglia di andare a cercare il buontempone che ha avuto la bella idea di provare a lanciare questa macabra moda. No, meglio lasciarlo penzolare.
Ci riprovo. Una rinnovata ispirazione mi suggerisce un finale convincente. Ci metto meno di cinque minuti a scriverlo. Ora c’è solo da aspettare.
Tanto vale raccontarvi qualcosa di me, giusto per ammazzare un po’ il tempo. Forse vi starete chiedendo chi è l’impiccato, che ci faccio in questo monolocale di merda e via discorrendo.
Com’è che si chiama? Contesto. Vorreste un contesto. Vi capisco. E vi spiegherò ogni cosa, ve lo prometto. Il fatto è che è tutto così dannatamente complicato.
Partiamo da me. Il mio nome è David Resti. Cosa faccio per sopravvivere? Scrivo. Ma no, non sono uno scrittore. Mi sarebbe piaciuto esserlo, credetemi. Mi sarebbe piaciuto diventare uno sceneggiatore di serie tv di successo. Cosa volete che vi dica? Ci ho provato, ma non ci sono riuscito. Non ho mai sfondato, per così dire. Cosa scrivo, allora? Lavoro per una società che si occupa di gestire i siti internet e di inserire i prodotti negli store online delle aziende clienti. Io scrivo le descrizioni dei prodotti, soprattutto elettrodomestici. La mia giornata tipo consiste nello studiare le specifiche di una nuova asciugatrice e magnificare i dettagli del prodotto. Se leggete qualcosa tipo: «Il programma piumone è progettato specificatamente per tutti i tessuti imbottiti, garantendo ai capi un’asciugatura perfetta e una morbidezza senza uguali», è facile che l’abbia scritto io.
Sognavo di essere un nuovo Shakespeare, ma i Romei e le Giuliette di cui racconto le avventure sono le centrifughe e i frullatori finalmente uniti assieme in un nuovo, formidabile elettrodomestico due in uno. O il tritacarne, il passa pomodoro e la grattugia di ultima generazione. Che vi stupiranno in un’indimenticabile orgia multifunzione. Elettrica o a batteria, quale che siano le vostre esigenze o preferenze.
Ma chiudiamo la parentesi sulla mia tutt’altro che avvincente vita. Magari volete sapere come è iniziata questa storia. Se è una di quelle storie che cominciano per caso o, al contrario, è una di quelle storie dove il protagonista se la va a cercare, come nel più classico degli incipit del più classico dei romanzi d’evasione, se capite cosa intendo.
Niente di tutto questo. Questa storia, a modo suo, non è mai iniziata, perché a quanto pare l’anomalia, la storia, sono io stesso.
Ma se proprio vogliamo farla cominciare da qualche parte, diciamo che dobbiamo tornare alla tarda serata di sabato 30 novembre 2024, quando è atterrato il volo che da Palermo mi riportava a Roma.
Avevo trascorso una settimana di più che meritate vacanze in Sicilia, le prime dopo due anni. Il mondo continuava a essere scosso dalla stagione delle guerre, degno sequel di quella che era stata la stagione dedicata alle ondate pandemiche. Nulla di nuovo sotto il nostro sole stanco; niente che mi impedisse di avere voglia di viaggiare, di svagarmi e divertirmi.
La sera prima di rientrare mi sono lasciato trascinare a un concerto da una ragazza appena conosciuta. Lei aveva due biglietti e un cuore spezzato, io l’intenzione di finirci a letto. Impresa che, in effetti, mi è riuscita. Non ho dormito niente e all’alba mi sono rivestito. Ho salutato la ragazza con la vaga promessa di farmi sentire al più presto e sono andato alla ricerca di un autobus che mi portasse all’aeroporto. Il volo è partito con diverse ore di ritardo, per via del maltempo. Ore passate a sfogliare delle riviste enigmistiche e a buttare giù idee per serie televisive che mi avrebbero cambiato la vita. Alla fine, siamo partiti alle otto di sera passate.
Avete presente come va in questi casi, no? Non fai in tempo a sederti al posto accanto al finestrino in primissima fila datoti in sorte dal software della compagnia aerea e a riporre gli occhiali nel borsello che scivoli nel sonno, mentre fantastichi di avere raggiunto il successo.
Di essere lo sceneggiatore di serie più richiesto al mondo. Ma non di quelli con la villa e la canonica piscina a forma di cuore a Hollywood, con uno stuolo di attrici e di attori sulle sdraio a prendere il sole tutti nudi, stile arredo per giardino di lusso modello Mulholland Drive. O con gli inservienti messicani pronti a svuotarti il posacenere e a prepararti un mojito quando schiocchi le dita.
No, io fantasticavo di vivere in una baita superaccessoriata sulle alpi svizzere, nella periferia di qualche paesino del cazzo, di quelli tranquilli e puliti che sorgono sulle rive di un lago e hanno un paesaggio da cartolina. Mi immaginavo da solo, o con un gatto nero accoccolato sulle ginocchia, mentre scrivevo di zombi e draghi, di detective e serial killer, di mafiosi italoamericani e di eroi con qualche superpotere strano. Insomma, mi vedevo come un mostruoso incrocio tra Heidi e un genio maledetto e misantropo.
In ogni caso, mi sono addormentato mentre l’aereo rullava sulla pista, ancora prima del decollo. E mi sono risvegliato a Fiumicino, con una minuta hostess bionda che mi scuoteva con un’energia inaspettata. Ecco, se volessi trovare un inizio per questa storia incredibile, sarebbe esattamente questo.