IRIS
lunedì 02 dicembre
Mezz’ora dopo sono nello studio di Sergio. Di fronte a me c’è il dottor Ernesto Herlinga. L’uomo, che assomiglia al Freud anziano di cui tante volte ho osservato la classica immagine, mi scruta accigliato, apparentemente assorto nei propri pensieri. Lui si è acceso la pipa, io una sigaretta. Gli racconto cosa è successo, attenendomi ai fatti, e solo alla fine azzardo la mia ipotesi. Sono molto chiaro nello spiegargli che la botta in testa che ho preso non c’entra nulla: tutto era cambiato da prima che svenissi, non dopo.
«Quindi lei sostiene di ricordarsi un mondo che in definitiva sarebbe quello da lei descritto nei suoi romanzi? Anzi, di venire da quel mondo?» chiede.
«Sì» rispondo.
Lo psichiatra rimane in silenzio. Mi guarda negli occhi con un’insistenza tenace, come se volesse leggermi dentro. Quindi, mi invita a parlare di me: come ero solito impiegare il tempo libero, come passavo le giornate, le mie storie sentimentali. Mentre recito questo monologo lui scrive non so cosa sul taccuino, borbottando tra sé e sé. Alla fine, perso nelle sue silenziose riflessioni, fissa un punto indefinito nella stanza, come se stesse inseguendo un pensiero sfuggente. Poi, sfila la pipa dalla bocca e parla con tono solenne: «Lei è affetto da delle bizzarre forme di depersonalizzazione e schizofrenia post traumatica, presumibilmente dovute a un forte stress».
«Cosa?» faccio io, divertito.
«Vede, signor Resti, nella sua mente c’è una rottura. Lei si è rifugiato in un mondo fittizio, il mondo dei suoi romanzi, da dove crede di venire. Perché? Non lo so. Ammetto di non aver mai assistito a un cambiamento così radicale, netto e deciso. Sembra quasi che lei abbia subito un’aggressione robusta al suo Io. Una sorta di lavaggio del cervello. Si è per caso sottoposto a interventi chirurgici di qualche tipo, mentre era a Palermo? Ha assunto sostanze psicotrope?»
«No, proprio no» rispondo. Poi mi tocco il viso, quasi a sincerarmi che sia tutto al proprio posto. «Lei è fuori strada. Io ricordo perfettamente ogni cosa» dico, cercando di rimare calmo. «Ricordo film, o pellicole, come le chiamate voi. E libri, fumetti, canzoni, la mia infanzia. Se fossi pazzo o se mi avessero bruciato il cervello avrei dei buchi, dei vuoti di memoria, non certo ricordi specifici su mille e mille cose che nei miei romanzi non sono neanche citate. Vuole che le parli di quella volta che…»
«Mi perdoni, ma è lei a essere fuori strada» mi interrompe Herlinga. «Lei non ha idea della capacità di calcolo della mente umana, la capacità di elaborare informazioni e ricordi all’istante, se necessario. Non metto in dubbio che potrebbe passare giorni a elencarmi aneddoti e a citare pellicole o canzonette, signor Resti, ma le assicuro che non si tratterebbe altro che di rielaborazioni della sua mente.»
«Senza offesa, ma credo il pazzo tra noi due sia lei» taglio corto. «Mi scusi, non volevo offenderla» aggiungo dopo un istante, maledicendo la mia maleducazione. Non ha senso prendersela così. Non ha senso aspettarsi una reazione diversa, dalle persone a cui dovessi raccontare la mia verità. Fino all’altro giorno, se qualcuno fosse venuto a confidarmi una storia del genere gli avrei dato del pazzo anche io. Sicuro come la morte.
Lo psichiatra, comunque, non fa una piega; anzi, si lascia andare a un sorriso. Poi si toglie gli occhiali e si mette a pulirli con meticolosità. «Non si preoccupi, Resti, nulla di strano» fa, accomodante. «Chi vive situazioni come la sua crede che siano gli altri a essere in torto, per usare un eufemismo da galantuomini. Nella psichiatria è molto comune, c’è anche un racconto di Poe che tratta l’argomento, sa?»
Certo che lo so. Mentre i ragazzi del mio quartiere crescevano a pane, calcio e nutella, io crescevo a pane, Poe e Lovecraft. «Il sistema del dottor Catrame e del professor Piuma» rispondo.
«Esatto. Lei ritiene che sia io a non capire. Nulla di grave, s’intende. Potrei essere in grado di aiutarla, se vuole. Per ora le prescrivo una terapia farmacologica.» E si mette a scrivere sul taccuino. Quando finisce strappa il foglio, si alza e me lo porge. «Ecco. Prenda questi farmaci agli orari che le ho scritto e nelle dosi specificate. Le ho lasciato il numero del mio studio di Roma, mi chiami tra qualche giorno; ho l’agenda occupata per mesi, ma per lei un po’ di spazio riuscirò a liberarlo. Sarebbe il caso che, da questo fine settimana o al massimo dall’inizio della prossima, io la veda con una certa regolarità. Ogni dieci, quindici giorni.»
«Grazie. Lei è davvero molto gentile» gli rispondo.
«Un’ultima cosa» fa Herlinga, prima di uscire dallo studio. «Chi altro conosce questa bizzarra storia?»
Ci rifletto un secondo. «Sergio e la mia ex moglie. Ma a loro ancora non ho detto nulla dello scambio tra me e il mio alter ego scrittore.»
«E ha fatto benissimo. Sarebbe anzi opportuno che da questo momento lei si attenesse a una semplicissima regola: dica a tutti che ha sbattuto la testa e che non ricorda nulla, o che ha ricordi confusi» si raccomanda. «Ad eccezione mia e del suo amico Sergio, nessuno deve sapere la verità; per il mondo lei deve essere affetto da un’amnesia dovuta a un trauma cranico. Questo fino a quando non ne avremo capito qualcosa di più.»
Ripenso alla chiacchierata con i tribuni, o alla videochiamata con la mia agente, e sorrido: anche senza le raccomandazioni dello psichiatra mi sto comportando con prudenza, esattamente come mi ha appena consigliato.
Herlinga, interpretando il mio sorriso come una leggerezza, mi stringe il braccio con forza. «Signor Resti, sono serissimo. Semmai lei dovesse rilasciare dichiarazioni ufficiali, magari a qualche giornalista, sostenendo che il mondo che lei ricorda è diverso, dicendo che ritiene di essere uscito fuori dai suoi romanzi… insomma, signor Resti, voglio essere chiaro: c’è la possibilità che venga richiesto e concesso un tso, e che lei sia ricoverato nel reparto psichiatrico di un ospedale. Aggiungo che, semmai in futuro la soluzione estrema di un ricovero dovesse a mio giudizio rendersi necessaria, sarà saggio procedere con la massima discrezione, in una delle mie cliniche private. Ne ho una deliziosa ai Castelli, riservata a una clientela che non ama certe pubblicità. Lo dico per lei e sono certo che converrà con me.»
Tranquillizzo Herlinga: non sto prendendo sottogamba la situazione, tutt’altro. Lo ringrazio ancora per la disponibilità e lo rassicuro su tutto. Quando usciamo dallo studio lo psichiatra si mette a parlare con Sergio, che a sua volta dice qualcosa ad Adelmo. Il maggiordomo si infila un impermeabile e un cappello e si dirige sul retro della casa. Poco dopo lo vedo uscire dal garage, alla guida di un’utilitaria. Dieci minuti dopo, anche Herlinga va via.
«Cosa ti ha detto lo strizzacervelli? Che sono pazzo?» chiedo.
Il mio amico scuote la testa. «No. Mi ha spiegato le tue teorie e ha detto che è perplesso. Herlinga ritiene che la tua non sia un’amnesia, e vorrebbe studiare il caso con attenzione. In ogni caso, è convinto che tu non stia mentendo.»
«Perché, tu avevi il dubbio?» faccio, quasi offeso.
Per tutta risposta Sergio si dirige in biblioteca, all’angolo bar. «Vuoi da bere? Un distillato Scozzo, magari?» chiede. «Riserva speciale dalla provincia di Britannia. Mi è arrivato la settimana scorsa. Un milione a bottiglia.»
«No. Anzi sì, versami un bicchiere di quello che ti pare» rispondo, mentre prende una bottiglia di scotch whisky. Ci sediamo sui divanetti vicino all’angolo bar.
«Davvero eccellente» dico, dopo aver fatto un sorso. «Allora, avevi il dubbio che stessi mentendo?» Il tono della mia voce tradisce un certo fastidio. Sergio se ne accorge.
«Voglio essere sincero, David. Un piccolo, piccolissimo dubbio mi era rimasto. Converrai con me che è tutto così strano.» Rimaniamo in silenzio per un pezzo. «Ti va di ascoltare un po’ di musica? Vuoi che metta su un disco?» chiede, alla fine.
«Non so, che musica si ascolta, qui? Solo roba italiana? Cosa sentono i cittadini dell’Impero Romano? Non la musica che ricordo io, immagino.»
«Be’, non ascoltano quella che ascoltavi tu neanche prima del tuo incidente, o come vogliamo chiamare quello che ti è successo.»
«Che vuoi dire?»
«Hai sempre avuto un gusto particolare; io ci scherzavo su e ti definivo un “archeologo musicale della Britannia”. Pagavi bei soldi a un tipo per girare la provincia e riportarti quelle che definivi vere e proprie chicche: musicassette dei Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd, Clash e altri matti.»
«Quindi sono esistiti anche in questo mondo?»
«Sì, certo. Solo che non erano musicisti. Erano operai, contadini, criminali, gente che si dava da fare per sopravvivere in quelle terre devastate dalle radiazioni, in un modo o in un altro. Registravano quella merda di musica che a te piace tanto come capitava. Nel tuo universo narrativo hai scritto che erano famosi e qualcuno, sulla scia del successo dei romanzi in cui erano citati, ha anche provato a proporre sul mercato i loro nastri, ma con scarsi risultati. Quella non è musica. Ora ti faccio sentire io della roba buona.»
«No, grazie. Davvero, non ne ho voglia.» Ho bisogno di riflettere. Ogni tanto faccio un sorso di liquore. «E il mio ultimo romanzo, sai per caso come finiva? Te ne ho parlato? Ti ho detto qualcosa?»
Sergio si alza e si riempie di nuovo il bicchiere. «Non ne abbiamo mai parlato. In realtà io e te non parliamo quasi mai dei tuoi romanzi.»
«Capisco» mormoro.
Intanto è tornato Adelmo, con i farmaci; li posa sul tavolo della biblioteca. Sfoglio i bugiardini dei medicinali: antipsicotici, antidepressivi e compagnia bella.
«Saresti disposto a prendere sul serio la possibilità che io venga da una sorta di universo parallelo, e che il ponte tra questo mondo e il mio sia l’ultimo romanzo che ho scritto assieme a Rojas?» chiedo a Sergio, che per tutta risposta mi guarda in un modo tale da farmi male: nei suoi occhi leggo la compassione e la tristezza che si concedono ai pazzi.
«Quelle dovresti prenderle» dice, indicando le medicine che ho davanti.
«Magari da domani» rispondo. C’è anche un altro pensiero che ha iniziato a frullarmi per la testa negli ultimi minuti. «Dimmi la verità. Mettiamo che Rojas sia davvero coinvolto in quell’attentato: secondo te potrei entrarci qualcosa anche io?»
«Fino a qualche mese fa non avrei esitato a risponderti con un secco no. Solo che di recente…» Sergio esita.
«Di recente cosa?» lo incalzo.
Il mio amico mi invita a seguirlo in salone e mi fa accomodare sul divano. «Immagino che non ricordi nulla del referendum, vero?» chiede.
«No. A che referendum ti riferisci? Non pensavo che ci fossero consultazioni popolari, sotto un impero.»
«Ci sono eccome. Riservate solo ai cittadini romani, ma ci sono. Per quanto riguarda il referendum: tieni.» Mi passa un giornale, Il Popolo Romano. È aperto sulle pagine centrali, su cui campeggia il titolo: Sì o No?
Leggo l’articolo con una curiosità quasi morbosa.
Si parla di legalizzare la schiavitù; una schiavitù a tempo o perpetua, al posto del carcere. Si parla di aumentare i reati per cui è prevista la pena di morte. Si parla di tornare a usare il Colosseo per esecuzioni di massa, come ai tempi del primo Impero. Si parla di legalizzare gli spettacoli gladiatori ovunque e non solo, come avviene adesso, nel Colosseo. L’introduzione dei combattimenti nell’arena romana, a quanto leggo avvenuta tre anni prima, è stata un enorme successo. Un successo talmente grande che si pensa potrebbe essere replicato in ogni e dove.
Il Senato è d’accordo. Papa Pio xiii ha dato la sua benedizione, a patto che sia specificato e messo nero su bianco che nessun cristiano possa essere giustiziato nelle arene per motivi religiosi. L’Imperatore Marzio Marcello è entusiasta dell’idea, ma vuole prima sapere cosa ne pensano i primi cittadini dell’Impero, ovvero tutti gli italiani, che vengono genericamente chiamati “romani”. L’articolo termina specificando che il referendum, in realtà, è un pro forma: i sondaggi dicono che ci sarà un plebiscito a favore del si per ogni punto, anche perché schiavitù e morte nell’arena, per legge, non saranno applicabili ai primi cittadini.
«Tutto questo è pazzesco. Folle» mormoro.
Sergio annuisce. «Mi aspettavo lo dicessi. Non eri d’accordo neanche prima. E quando ti ho fatto vedere questa pellicola» dice, prendendo una videocassetta, «ti sei arrabbiato moltissimo. Abbiamo litigato, e non mi hai parlato per due settimane. I nostri rapporti si sono un po’ raffreddati. Non sei tipo da infilarti in strade accidentate: repubblicani, attentati e compagnia bella. Però eri davvero scosso per quella che definivi una pericolosa deriva del nostro sistema sociale. Quindi, sinceramente, non so che dirti. Ignoro se, preso da chissà quale estasi rivoluzionaria, ti sei andato a cacciare in qualche guaio.»
«Vorrei vedere quel filmato» chiedo al mio amico.
Sergio mi risponde che no, non me lo mostrerà: mi spiega che si tratta di immagini girate in Madagascar, Cuba e Islanda, tre province senatorie lontane.
I governatori di quelle province fanno capo all’ala del senato che più preme perché la riforma venga introdotta; sono i primi sostenitori del referendum, legati alla corporazione degli edili e dei costruttori, di cui il mio amico è un membro di spicco. Trasformare gli stadi in arene per spettacoli gladiatori ed esecuzioni significherebbe attirare centinaia di migliaia di spettatori: un’opera di costruzione monumentale, che prevede non solo il rifacimento degli stadi.
«La ristrutturazione degli stadi e la costruzione di moderne arene attrezzate in ogni grande città rappresenta un’opportunità di sviluppo enorme» conclude.
«Che c’entra con quella videocassetta?» chiedo.
«Sono riprese di arene improvvisate. I propretori che governano su quelle isole hanno fatto combattere o giustiziare delle persone. E hanno ripreso tutto per far girare le immagini tra i costruttori.»
«A che scopo?»
Le riprese, mi dice Sergio, servono per mostrare le varie criticità di uno stadio strutturato per certi spettacoli. Bisogna progettare spazi per bestie feroci, celle per i prigionieri e spogliatoi per i gladiatori. Senza contare le aree dove sistemare i pulitori, perché i cadaveri, o quel che ne rimane, vanno portati via tra uno spettacolo e un altro.
«E non voglio aggiungere altro» conclude.
«Discorsi che assomigliano a quelli dei nazisti quando progettavano i sistemi di smaltimento cadaveri delle vittime dei campi di sterminio, te ne rendi conto?»
«Capisci ora?» mi risponde. «Già hai quasi dato di matto quando le hai viste la prima volta, ed eri in te. Non voglio mostrartele di nuovo. Non ora, che sei in queste condizioni. Il fatto è che hai sempre avuto un rapporto conflittuale con gli spettacoli gladiatori.»
«Che vuoi dire?»
Sergio distoglie lo sguardo.
«Che vuoi dire?» insisto.
«Che i combattimenti dal vivo al Colosseo ti hanno sempre eccitato. Pensa a ieri sera. Ti infervori, urli, speri che i combattenti muoiano. Nulla di strano, lo faccio anche io. Capita a tutti, quando siamo lì. Poi, il giorno dopo, te ne penti e sei arrabbiatissimo con te stesso. Mi hai fatto una testa così con i discorsi sulla psicologia delle masse, sul… come lo chiamavi? Delirio psichico, o qualcosa del genere.»
«Contagio psichico» rispondo con un filo di voce. «Isterismo collettivo. Ne ha parlato Agostino nelle Confessioni, la storia di Alipio è significativa.»
«Sì, mi parlavi anche di questo tipo. Un uomo buono e giusto che non avrebbe fatto male a una mosca. Poi lo hanno portato a vedere i gladiatori al Colosseo ed è diventato una belva assetata di sangue. Ecco, tu ti sentivi come quel tipo, quell’Alipio.»
«L’esaltazione collettiva di decine e decine di migliaia di spettatori che vogliono il sangue, la musica, il ritmo ipnotico dei tamburi, le urla. Gli esseri umani vengono depersonalizzati, privati dei più elementari criteri di discernimento tra bene e male» mormoro.
«Sì, è quello che sostenevi anche prima. Capisci, David? Capisci perché non posso farti vedere il filmato? Le immagini presenti in questa videocassetta sono crude. Estremamente crude. Mostrano cose che non puoi accettare. Men che meno senza il filtro della folla, di quest’esaltazione collettiva che tanto disprezzi.»
«Ad esempio?»
Sergio ci pensa su qualche secondo. «Ad esempio, neonati strappati dal grembo delle proprie madri e dati in pasto a bestie feroci. E mi fermo qui.»
Non riesco a crederci. «E tu sei d’accordo con questo orrore?» La voce mi trema. «Tu speri di arricchirti costruendo arene dove delle persone vengono assassinate in modi orribili e alberghi per chi vuole assistere alle esecuzioni?»
«Io faccio ciò che devo. È il mio lavoro. Quello che c’è nella videocassetta è eccessivo, lo ammetto. Vengono uccisi degli innocenti, va bene, sono d’accordo. Ma né io né te possiamo farci nulla. I governatori delle province lontane fanno ciò che vogliono lì, sono come degli dei in terra. Ma ti assicuro che una volta che sarà tutto legalizzato e normalizzato ci saranno delle regole precise, e a essere giustiziati nelle arene saranno solo quelli che se lo meritano.»
«Basta» faccio. Poi mi vado a sedere, con la testa tra le mani. Non so per quanto rimango in questo modo. Perché me la prendo tanto? Non è il mio mondo, questo. Devo solo trovare il modo di tornare indietro, e tanti saluti. Che facessero il cazzo che vogliono nel Colosseo. Che ne costruiscano pure altri cento, altri mille, di Colossei.
«Senti, io stasera ho un treno veloce per Milano» dice Sergio. «C’è una riunione importante con alcuni costruttori del nord. Dovrei tornare mercoledì nel primo pomeriggio, ma non me la sento di lasciarti solo. Però non posso neanche saltare la riunione, dannazione.»
«Non sono mica un ragazzino. Posso badare a me stesso, non preoccuparti.»
«Mentre parlavi con il dottor Herlinga ho chiamato Iris. Stasera è libera, e ti porta volentieri a cena fuori, a Roma.»
«Iris?» mormoro. Il nome non mi è nuovo. Mi ci vuole poco per realizzare che Sergio mi ha già parlato di lei: l’attrice che ho frequentato con una certa regolarità fino al mese scorso. Da quello che ho capito siamo rimasti in ottimi rapporti. Secondo Sergio è la persona con cui nell’ultimo periodo mi sono confidato di più e giudica che, forse, passarvi una serata assieme mi potrebbe aiutare. Ne ha parlato anche con Herlinga, e lo psichiatra ha convenuto che valga la pena tentare.
Accetto lo strano invito combinato per un solo motivo: se davvero io e questa Iris siamo stati così intimi posso averle accennato qualche particolare sul mio ultimo romanzo. Forse posso addirittura averle dato una copia, magari per lei ho fatto un’eccezione.
«Le ho detto che hai sbattuto la testa e che sei un po’ confuso. Solo una raccomandazione.»
«Quale?»
«Non parlarle di mondi paralleli, ti prego.»
Tranquillizzo Sergio, esattamente come ho fatto con lo psichiatra: non ci tengo a farmi prendere per matto.
Decidiamo come organizzarci. Il treno veloce, che impiega circa un’ora a percorrere la tratta da Roma a Milano, parte verso le otto di sera dalla stazione Termini. Iris ci aspetterà lì. Dico al mio amico che possiamo andare a Roma in auto, ma lui è categorico: a suo avviso sono ancora troppo scosso e non sono in condizione di guidare. Andremo con uno dei treni metropolitani che collegano la capitale alle cittadine più importanti del Lazio. Al contrario delle schifezze sporche e decadenti che ho descritto nei miei romanzi, questi treni sono puliti, confortevoli, silenziosi e velocissimi, dice. Ne passa uno ogni trenta minuti fino a mezzanotte e uno ogni ora da mezzanotte alle sei del mattino; non avrò alcun problema a tornare da Roma. E al ritorno, dalla stazione di Anagni a casa, guiderò la sua auto.
Durante il viaggio non posso fare a meno di ammirare l’efficienza che mi circonda: tutto ciò che osservo sa di nuovo, di ordinato e di pulito, dalle panchine sulla banchina della stazione ai comodi sedili su cui mi adagio. Sugli schermi presenti tanto nella sala d’attesa che sui vagoni ci sono servizi e documentari sull’imminente sbarco sulla Luna, un evento epocale e sentitissimo.
Ma è a Termini che resto ancora una volta basito. Scesi dal treno, Sergio mi porta a fare un giro della stazione, che sembra una sorta di monumentale galleria d’arte. Ovunque mi giro vedo marmi, porticati, colonne e archi romani.
Sono anche esposte delle opere d’arte: tra le altre cose riconosco il David di Michelangelo e alcuni quadri di Caravaggio, come Salomè con la testa del Battista e un Bacco. Su un palco allestito lungo una parete, poi, un giovane pianista si sta esibendo di fronte a un pubblico estasiato di spagnoli e nord africani, a giudicare dalle parole che rubo passando loro accanto.
«A Termini c’è una galleria permanente» dice Sergio, indovinando il mio stupore. «Ogni tre mesi cambiano sculture e quadri. Inoltre, c’è sempre qualche artista dell’accademia o del conservatorio che si esibisce: pianisti, violinisti, a volte orchestre intere. La stazione centrale di Roma è un fiore all’occhiello dell’Impero.»
Sergio mi spiega che le stazioni centrali rappresentano il biglietto da visita di una città, e non si bada a spese per trasmettere un’immagine che sia quanto di più rappresentativo ci si possa aspettare da quel luogo.
Roma è considerata la città più bella e importante del mondo e la sua stazione principale non è solo un nevralgico punto di scambio. Termini è molto di più: un’esperienza visiva e sensoriale che deve accogliere turisti, visitatori e pendolari. Ogni particolare viene curato nei minimi dettagli, dal complesso di negozi dislocati sui vari piani ai servizi igienici che, come ho modo di constatare, sono puliti e curatissimi, degni di quelli di un albergo a cinque stelle.
«Chi arriva in treno, chi arriva con uno Zeppelin e poi prende il metropolitano per il centro» continua Sergio, indicando ora questo, ora quel particolare della stazione. «Tutti finiscono la corsa alla stazione Termini. Ed è qui che inizia la loro esperienza nella Città Eterna. Eterna, come il ricordo di infinita magnificenza e di splendore senza tempo che Roma deve lasciare, indelebile, in chiunque abbia la fortuna di vedere con i propri occhi la Caput Mundi.»
Neanche a dirlo, nel mondo in cui mi trovo Termini è un luogo assolutamente sicuro a ogni ora del giorno e della notte, con presidi fissi di carabinieri e centinaia e centinaia di militari vestiti da antichi legionari che controllano discretamente tutto ciò che succede.
«È incredibile» mormoro, guardandomi attorno.
Mi chiedo se la sicurezza che si respira sia una costante di questa società, e dove siano finiti tutti i criminali. Rinchiusi in qualche segreta in attesa di essere sbranati dalle belve feroci, immagino. Il pensiero mi fa rabbrividire. Come è possibile che una società apparentemente perfetta come quella in cui sono capitato possa indulgere a una simile barbarie? Forse questo è il prezzo che gli uomini hanno dovuto pagare a tanta magnificenza, sacrificando la propria umanità su un altare di sangue e ferocia.
Forse è sempre stato così, in ogni tempo e luogo. Anche la Berlino del Reich doveva apparire ricca di sfarzo e pregna di gloria ai suoi abitanti e ai visitatori che vi posavano gli occhi. Anche lo splendore delle antiche Piramidi è stato frutto del sacrificio di un’immensa quantità di schiavi. Forse c’è sempre un prezzo da pagare.
Intanto, è arrivata Iris. Prima di andare via Sergio la prende da parte e le dice qualcosa, poi mi saluta con un «Mi raccomando» che vuol dire «Fai che non debba venirti a ripescare nel reparto psichiatrico di qualche ospedale, quando torno da Milano».
Rimasto solo con la ragazza allargo le braccia. «Eccoci qui. Lo sai, vero, che non mi ricordo di te?»
La spensierata leggerezza con cui sorride Iris mi fa superare l’imbarazzo iniziale. «Non preoccuparti» risponde, intrecciando il suo braccio al mio. «Sai che sono un’attrice, no? Questa sera faremo finta di esserci appena conosciuti, che ne dici?»
Non ho nulla da obiettare e mi lascio guidare attraverso la stazione, e poi fuori, a Piazza dei Cinquecento, dove prendiamo un autobus per il centro. Mangiamo a Campo de’ Fiori e finiamo la serata a Piazza Navona, dopo aver passeggiato in lungo e in largo per un centro di Roma bello come non l’avrei potuto immaginare neanche nei miei sogni più fantasiosi.
Iris ha trent’anni, ed è bellissima. Una bellezza spontanea e genuina. Si è presentata in jeans e scarpe da ginnastica; un abbigliamento semplice che indossa con naturale eleganza, e che esalta il suo corpo longilineo. Così come il suo trucco, leggero e quasi impercettibile, che le fa risaltare la dolcezza del viso. Ha i capelli lunghi e nerissimi, come i suoi enormi occhi da cerbiatta che non stacca mai dai miei, quasi volesse scavarmi nell’anima per capire a quale strano gioco io abbia deciso di giocare.
La serata, inaspettatamente piacevole, passa in un attimo. L’unico piccolo neo è uno strambo tentativo di furto, al ristorante: mentre stiamo finendo di mangiare mi accorgo di non trovare più il borsello, che ricordavo di avere appeso alla spalliera della sedia. Faccio presente la cosa a un cameriere, e dopo due minuti un più che mortificato caposala mi accompagna nel bagno degli uomini. Il borsello è a terra; qualcuno ci ha rovistato dentro, buttando tutto all’aria. La cosa incredibile è che non manca nulla, compreso il contenuto del portafoglio.
Mi ricordo della coppia che ci si è seduta vicino: un giovane uomo e una giovane donna che non dimostravano più di venticinque, trent’anni. Sono arrivati dopo di noi, hanno mangiato in fretta e se ne sono andati di corsa. Devono avermi sfilato il borsello da sotto il naso. Poi nel bagno, chissà, magari il ragazzo si è messo paura e ci ha ripensato.
Le ore passate con Iris sono senza dubbio le migliori che trascorro da quando mi sono risvegliato sullo Zeppelin. Forse perché non parliamo di me, ma di lei. Tra le altre cose, mi dice che tra due giorni al teatro Argentina andrà in scena la prima di uno spettacolo in cui recita. Si tratta di una delle tragedie shakespeariane che preferisco, e lei ne sarà la protagonista: Lady Macbeth.
«Tra due giorni? E non avete le prove generali, stasera?» chiedo, un po’ stupito.
Iris mi risponde che sono più che pronti, di prove generali ne hanno già fatte diverse, e l’ultima l’avranno domani. Quella che sta passando con me, aggiunge, è la sua ultima serata libera, la quiete prima della tempesta. «Perché tu e Sergio non venite, dopodomani? Dai, vi metto da parte i biglietti, va bene?»
Non trovo nessun buon motivo per rifiutare l’invito: Sergio tornerà proprio mercoledì, e a me non dispiace affatto assistere alla rappresentazione del Macbeth. Inoltre, sono curioso di veder recitare la ragazza che ho di fronte; è bella, intelligente, simpatica e solare. Inizio a invidiare il mio alter ego per averla avuta come amante, o qualunque cosa sia stata per lui.
«D’accordo allora, vi riservo un paio di posti» conclude. Poi guarda l’orologio che ha al polso. Si sta facendo tardi; forse è il caso di congedarmi. Prima, però, c’è una cosa che voglio chiederle.
«Perdonami Iris» dico, «per caso ti ho mai parlato del romanzo che stavo scrivendo assieme a quello spagnolo, Nataniel Rojas?»
Lei, che per tutta la sera è stata ben attenta a non sfiorare neanche lontanamente discorsi che riguardassero ciò che mi è successo, l’attentato e il presunto coinvolgimento dello scrittore spagnolo, rimane un po’ sorpresa.
«Be’, sì. Me ne hai parlato. Ma sei sicuro di voler affrontare questo argomento? Mi ha detto Sergio che…»
«Lascia stare quello che ti ha detto Sergio» la interrompo. «Voglio dire: so che si sta preoccupando per me, e non lo ringrazierò mai abbastanza per quello che sta facendo, ma il fatto è che lo avevamo praticamente finito, questo romanzo, e ora sono curioso. Magari ti ho parlato della trama, o magari ti ho addirittura dato una copia. Leggerlo potrebbe aiutarmi a ricordare alcune cose.»
Purtroppo, le mie speranze sono mal riposte.
«No. Non facevi leggere nulla a nessuno, eri maniacale. Mi hai accennato la trama che stavi sviluppando con quello spagnolo un po’ strambo: ti ritrovavi nel mondo dei tuoi romanzi e ne rimanevi intrappolato, o qualcosa del genere.»
«Intrappolato? In che senso intrappolato?» chiedo. Senza accorgermene le prendo il polso e glielo stringo.
«David, mi stai facendo male.» Lascio la presa, mortificato. «Non lo so, in che senso» continua lei.
«Perché hai detto che Rojas era un po’ strambo?»
«Lo definivi così, dicevi che era troppo idealista. Un pazzo che credeva alle favole. Ma un grande scrittore, molto bravo nel realismo magico e nel raccontare storie paradossali, strane, distorte… esattamente quello che ti serviva per il tuo romanzo. Un tizio con un’intelligenza assolutamente fuori dal comune, comunque. Almeno, così mi hai detto.»
E così Rojas è pazzo? Ma pazzo come? Un po’ eccentrico, come molti artisti, o instabile mentalmente? E a quali favole ritenevo credesse? Mi chiedo se e come queste nuove informazioni possano tornarmi utili; soprattutto, mi chiedo per l’ennesima volta se comporre quel dannato numero e affrontarlo sia una buona o una pessima idea. Mi riprometto di pensarci sul treno. «Grazie per la splendida serata» dico, alzandomi. «Immagino di averti rubato fin troppo tempo. Vieni via con me?»
«No, io abito a due passi da qui, vicino al teatro Argentina. Quando si dice casa e chiesa.»
Insisto per pagare almeno il conto del bar, visto che la cena al ristorante ce l’hanno offerta per via del tentato furto. Mentre ci dirigiamo verso la Fontana dei Quattro fiumi del Bernini l’occhio mi cade proprio sull’insegna del locale dove abbiamo appena consumato: Bar del Pretoriano.
«Ma le parole straniere non erano state bandite?»
«Ti riferisci a bar?» risponde Iris. «Ma è italianissima: l’acronimo di Banco a Ristoro.»
Non ne avevo idea. Lo stupore con cui guardo Iris non passa inosservato, e si mette a ridere. «Che c’è? Si studia a scuola, questa roba.»
Non ribatto e mi perdo dentro a quel sorriso. Certo che è davvero bella. «Allora a dopodomani. L’autobus lo prendo da quella parte, vero?» dico, indicando la traversa che porta a Corso del Rinascimento.
Iris si avvicina e mi prende le mani tra le sue. Si morde il labbro superiore, si avvicina ancora e mi dà un bacio leggero. «Perché non passi la notte da me?» chiede, con una dolcezza disarmante. Per un attimo è come se la terra mi mancasse da sotto i piedi.
Ricambio il bacio. Ed è come volare.