Capitolo 12

 

venerdì 06 dicembre

 

Mi risveglio steso a terra, con il torcicollo e la schiena indolenzita. Lo schermo del televisore, ancora acceso, mostra un uomo che corre su una biga. Vince la gara, poi va ad abbracciare moglie e figlia, che per rinfrancarlo dalla fatica gli porgono uno squisito yogurt della provincia ellenica. Tutti sorridono e sembrano davvero molto felici, come solo gli attori delle pubblicità possono essere.

È l’una passata. Pianifico le prossime mosse sotto la doccia. Se nessuno è venuto a cercarmi, vuol dire che nessuno mi ha riconosciuto, e quindi posso stare tranquillo e aspettare che Paul Santamonica si faccia vivo.

Il riposo mi ha fatto bene, e la situazione sembra meno drammatica di quanto ho pensato stanotte. In fondo, io non ho fatto proprio un bel niente. Non sono un ricercato, non sono un criminale e non sono neanche accusato di nulla; i romani e i giapponesi mi stanno addosso solo nella speranza che li possa condurre da Nataniel Rojas. Anche se mi dovessero trovare, cosa mi potrebbe succedere?

Nulla, se continuo a mantenere la solita versione: non ricordo niente, credo di venire da un altro mondo, non so chi sia e tantomeno dove si trovi Rojas. Potrei dire che sono scappato perché mi sentivo soffocare e volevo starmene da solo. A pensare al mio prossimo romanzo, magari. Prima o poi si convinceranno e mi lasceranno in pace, stufi di sorvegliarmi e spiarmi.

L’unico problema è che se mi dovessero trovare posso scordarmi di arrivare a Rojas senza che se ne accorgano. Rintracciare quello spagnolo prima che loro trovino me è una priorità; devo muovermi con prudenza, senza lasciarmi andare ad attacchi di panico o essere preda di paranoie.

Oramai è solo una questione di ore, poi questa storia si risolverà, in un modo o in altro. Devo depistarli. Far credere loro che sono lontano; a Milano, magari.

Mi asciugo e, armato di una determinazione nuova, apro le tende e spalanco la finestra. Mi affaccio sul parcheggio, su cui splende un bel sole. Nel boschetto si sentono gli uccelli cantare. Prima di uscire controllo che nel parcheggio non ci sia nessuno, poi mi dirigo a passi veloci verso gli alberi. La strada che separa l’albergo dal bar la percorro nascosto tra la vegetazione. Una volta arrivato osservo la situazione da dietro un albero,

È l’ora di pranzo. Non il migliore degli orari, per me. Nel piazzale accanto al bar ci sono diverse auto, un paio di furgoni e un camioncino; dentro deve esserci un bel po’ di gente. Li invidio, non so quanto pagherei per un pasto decente.

Di cabine telefoniche ce ne sono due. Si trovano dalla parte opposta rispetto al piazzale del parcheggio, dove vedo anche una fermata degli autobus. Una cabina è libera, l’altra è occupata da una ragazza con un vestito a fiori. Aspetto che se ne vada, quindi mi tolgo la giacca e la lego in vita, tiro su il cappuccio della felpa e mi avvio. Prendo la scheda telefonica e l’agendina. Compongo il numero di Iris.

Uno squillo, due squilli.

Mi chiedo come reagirà, sempre ammesso di trovarla in casa, a quest’ora.

Tre squilli, quattro squilli.

«Sì?» La sua voce. Un tuffo al cuore.

«Ciao Iris, sono io. Devo parlarti e… cazzo, no.»

Ha riagganciato. Mi ha sbattuto la cornetta in faccia. Ricompongo il numero, ma non c’è niente da fare: ha staccato il telefono. Chiamo Sergio.

«Casa Zattin, buon pomeriggio. Chi parla?»

«Ciao Adelmo, sono David. Sergio è in casa?»

«Attenda in linea, signor Resti.»

Aspetto per qualche secondo, poi un click. «David, cristo santo! Si può sapere dove cazzo sei finito? Ma cosa ti passa per la testa? Stai bene, almeno?»

La voce è concitata, nervosa.

«Sto bene, Sergio, sto bene.»

«Dove sei?»

«Sono a Milano. Avevo bisogno di stare un po’ da solo, di staccare. Senti, ho provato a chiamare Iris, ma non vuole parlarmi, mi ha riagganciato il telefono. Lei come sta?»

«Come vuoi che stia? Ieri per lei è stata una giornata folle. Prima sei praticamente scappato da casa sua, poi i giornalisti che le volevano chiedere di voi, della vostra relazione, e infine è uscita fuori la storia di quella donna con cui ti sei… intrattenuto durante lo spettacolo. Lo ha saputo dalla televisione, ti rendi conto? Mi ha chiesto se fosse vero, e non me la sono sentita di mentirle. Ha riattaccato in faccia anche a me, urlando che sono uno stronzo.»

«Ascoltami bene, Sergio: devi chiamarla. Devi chiamarla e devi dirle che mi dispiace. Devi convincerla che, per quanto possa sembrare assurdo, non è come sembra. Ora non posso spiegarti, ma ti prometto che appena questa storia finirà ti sarà tutto chiaro.»

«Ma cosa diavolo stai dicendo?» mi interrompe. «Tu non stai bene, lo sappiamo tutti e due. Devi farti curare. Devi chiamare il tribuno Chelli.»

«Cosa diavolo c’entra Chelli?»

«È stato qui stamattina e mi ha pregato di dirti, nel caso ti fossi fatto vivo, di contattarlo. È convinto di sapere cosa ti è successo. Ha detto che conosce le cause del tuo male e che può spiegarti tutto e aiutarti.»

«Aspetta, aspetta: ha scoperto come mi sono ritrovato in questo mondo?»

«Non ho detto questo. Mi ha lasciato intendere che sa perché credi di venire da un altro mondo.»

«E perché? Sentiamo. Sono curioso.»

«Non ne ho idea. Devi chiamare Chelli. Hai ancora il biglietto da visita con il suo numero? Altrimenti posso dettartelo io se hai carta e penna.»

«Ce l’ho ancora, il numero. Ma sono certo che sia tutto un trucco. Una trovata per incastrarmi.»

«Ma per incastrarti in merito a cosa, santo dio?» urla Sergio. «Si può sapere cosa sta succedendo? Sei coinvolto in quell’attentato?»

«No» rispondo, senza troppa convinzione. «Il fatto è che… ti spiegherò tutto, promesso.» Silenzio. «Sergio, ci sei ancora?»

«Non voglio più sentirti» risponde alla fine il mio amico, con una voce tanto calma quanto distante. «Almeno fino a che non avrai deciso di farti aiutare. Nel caso, io ci sarò, ci sarò sempre. Non ti fidi della guardia pretoriana? Benissimo: ho sentito Herlinga. È disposto ad accoglierti nella sua clinica ai Castelli in modo assolutamente riservato. Oggi stesso. Nessuno saprà che sei ricoverato lì, a parte me e lui. Neanche Chelli e Smiti lo sapranno mai. Ma devi volerlo, devi fidarti di chi ti sta vicino. E il ricovero è l’unica opzione possibile. Mi hai capito, David?» Ora sono io a rimanere in silenzio. «Fatti vivo, quando hai preso una decisione» conclude Sergio. Poi riattacca.

Mi chiedo cosa stia pensando di me, e mi rispondo che non è un mio problema; saranno problemi dell’altro me, semmai, una volta sistemato tutto. La cabina accanto, nel frattempo, è stata occupata da un uomo di mezza età con addosso un brutto gessato. Un sigaro gli riempie la bocca, e una nebbia vaporosa invade l’angusto spazio, donandogli un non so che di magico e fiabesco.

Mi incammino verso il boschetto, ma accanto a una delle finestre del bar sono assalito da un odore intenso di carne alla brace e parmigiana di melanzane. Penso ai biscotti secchi che mi aspettano in motel e ai tramezzini un po’ gommosi del distributore automatico.

«Oh, ma al diavolo le mie paranoie» dico, ed entro. L’ambiente sembra uscito dalla fantasia di uno scenografo di colossal a tema Roma antica.

Sulle pareti ci sono trompe l’oeil che mostrano fauni e ninfe rincorrersi tra fontane monumentali, immersi in giardini rigogliosi. Sullo sfondo, scorci e monumenti di Roma. Mi siedo al tavolo più defilato che c’è. Non tolgo il cappuccio dalla testa neanche quando una giovane e sorridente cameriera viene a prendere l’ordinazione. «Prezzo fisso o vuole il listarello?» fa.

«Il fisso cosa prevede?» chiedo.

«Abbiamo la parmigiana di melanzane, poi braciola, salsiccia e insalata. Carne alla brace, eh! Caffè e acqua sono compresi, il tutto a diecimila lire. Dolce, ammazzacaffè e altre bevande sono a parte.»

«Va benissimo il fisso. Mi porti anche mezzo litro di vino rosso della casa, grazie» dico, giocherellando con le posate, senza guardarla negli occhi.

«Subito. Io sono Nina Aurelia, per servirla» conclude lei, regalandomi l’ennesimo gran sorriso.

Mangio e bevo di gusto, assaporando ogni boccone.

Mentre giro lo zucchero nella tazzina del caffè, mi viene un dubbio atroce. Un pensiero improvviso, come un urlo nella notte che, inaspettato, ti brucia i timpani e ti spiazza.

«E se la guardia pretoriana avesse già trovato Rojas?» mormoro tra me e me, quasi incredulo di fronte all’evidenza di un fatto che, nella sua semplicità estrema, cambierebbe tutto. C’è in corso una caccia all’uomo, sarebbe anzi strano se non lo avessero già trovato, quello spagnolo.

Prendo il biglietto da visita di Chelli e me lo rigiro tra le dita. Magari assieme a Rojas hanno trovato anche il romanzo. Un ponte tra dimensioni diverse, una scoperta che rivoluzionerà il modo stesso di concepire la realtà, le leggi fisiche e filosofiche, la vita stessa.

Chiedo il conto a Nina Aurelia e lascio sul tavolo ventimila lire, dicendole che il resto è per lei. Esco e mi dirigo di nuovo alle cabine. Quella che ho usato prima di pranzare è occupata da un operaio con una salopette di jeans unta d’olio. Sta urlando qualcosa riguardo a dei pezzi di ricambio che dovevano arrivare in mattinata. Entro nell’altra e sono assalito da un puzzo stantio e pungente. Maledico il signore con il gessato e penso bene di combattere l’odore del suo dannato sigaro con quello di una sigaretta, così tiro fuori il pacchetto per accendermene una. L’ultima.

E pensare che ero riuscito a smettere. Anche l’aver ripreso il mio vecchio vizio sarà da mettere in conto a… a chi? A cosa? Non ne ho idea. Infilo la tessera e digito il numero che mi ha dato Chelli. Mi fermo a metà. E se fossero in grado di rintracciare la chiamata? Non ho idea di come funzioni, qui. Magari possono farlo, magari no. Certo è che questa cabina è sperduta nel bel mezzo del nulla, a parte il bar e l’alberghetto dove alloggio. Mi troverebbero in un amen. Me la sento di rischiare? Sì, ma non così tanto. Rientro nel bar, dove acquisto un pacchetto di Imperiali e un paio di biglietti dell’autobus; la navetta per il parco giochi passa ogni quarto d’ora. Non aspetto molto, e dopo una manciata di minuti eccomi nel grande piazzale di fronte all’entrata est del parco, dove ci sono decine di cabine telefoniche. Anche se dovessero rintracciare la chiamata ci metteranno un po’ a capire in quale albergo mi trovo, tra le centinaia presenti in zona. Entro nell’ultima cabina della fila, mentre continuo a ripetermi che, qualunque cosa dovesse dire Chelli, non devo dargli l’impressione di essere in soggezione o, peggio, intimorito.

Dopo due squilli mi risponde una voce femminile: «Ufficio del tribuno militare Samuele Cesare Chelli, chi parla? Posso esserle utile?».

La voce è al contempo energica e rasserenante. Un formidabile mix tra decisione e tranquillità. Esattamente la voce che ci si aspetta di sentire dalla segretaria di un tribuno militare.

«Sì, vorrei parlare con Chelli. Sono David Resti.»

«Mi dia solo un attimo, non riagganci» risponde lei, con un tono decisamente più concitato del precedente.

Attendo in linea, divertito per essere riuscito a causare quel cambiamento di tono dicendo semplicemente il mio nome. Mi sento potente, importante.

«C’è ancora, signor Resti?»

La voce di Chelli mi riporta alla realtà, facendomi scendere in un attimo dal piedistallo immaginario su cui si era arrampicato il mio ego.

«Sì, ci sono» rispondo, brusco.

«Buongiorno.»

«Buongiorno a lei.»

«Ha sentito il signor Zattin? Le ha detto lui di chiamare?» Il tono del tribuno è neutro. Qualunque siano le emozioni che prova Samuele Cesare Chelli, riesce a dissimularle alla perfezione.

«Sì, Sergio mi ha detto che siete riusciti a capire cosa mi è successo.»

«È così. Una cosa per volta, però. Dove si trova, signor Resti? Me lo dica, e se vuole vengo io stesso a prenderla, o mando qualcuno.»

«Io non so se…» tergiverso, lasciando cadere la frase a metà. Voglio dare l’idea di farmelo tirare fuori quasi a forza, dove sono. Devo lasciargli credere che mi abbia convinto, che mi abbia fatto cedere.

«La capisco. In questi giorni si è sentito oppresso, sorvegliato come un criminale. E mi creda se le dico che mi dispiace per come abbiamo gestito questa situazione. Mi rendo conto anche di quanto debba essere stata dura tutta la vicenda, per lei. Le prometto che, d’ora in poi, sarà tutto diverso. Le prometto che, da questo momento in poi, mi occuperò io di ogni cosa. Ora, però, mi dica dove si trova.»

Faccio un mezzo sospiro, esito un secondo e, finalmente, rispondo: «Sono a Milano».

«Milano?» Sento l’inconfondibile rumore di una penna che scrive su di un foglio di carta.

«Sì. Alloggio in un albergo di periferia, zona nord. Non so l’indirizzo esatto.»

«Vuole che mandi qualcuno a prenderla?»

«No, non si preoccupi.»

«Sicuro?»

«Sicuro.»

«Allora ci vediamo presso il palazzo proconsolare di Milano? O preferisce venire a Roma? Mi dica lei.»

Rifletto; devo portare la discussione dove voglio io.

«Ne possiamo parlare dopo? Adesso vorrei che mi spiegasse cosa ha scoperto. Avete trovato Rojas… avete trovato anche il romanzo, vero?»

«No, non lo abbiamo ancora trovato.»

«Non capisco: lei ha detto che poteva spiegarmi cosa mi è successo.»

«Ed è così.»

Aspetto che aggiunga qualcosa, ma non lo fa. «Insomma?» sbraito.

«Mi ascolti bene, signor Resti» risponde Chelli, con un tono duro e autoritario, assai diverso da quello usato fino a ora. «Abbiamo scoperto delle cose, su Nataniel Rojas. Il giorno dell’attentato era a Palermo, dove ha trafugato un oggetto di grande importanza.»

«E quindi?»

«Dopo il furto Rojas si è visto con lei, proprio nel momento in cui si compiva l’attentato che lo spagnolo aveva organizzato in prima persona.»

«Lui, non io! Io non sono coinvolto nell’attentato.»

«Si calmi, Resti. Vogliamo solo aiutarla, mi creda.»

«Allora mi dica ciò che sa» rispondo, sforzandomi di riacquistare un minimo di lucidità. Ancora una volta, è questo dannato tribuno a condurre la conversazione.

«Non al telefono.»

«Che diavolo significa non al telefono? Lei mi deve dire qualcosa in più, Chelli.»

Il tribuno della guardia pretoriana rimane a pensarci qualche secondo, poi si decide a rispondermi: «Come le ho detto, siamo in grado di aiutarla. E posso anticipare che per farlo dovremo mandarla a Madeira».

«Madeira?» ripeto, con un filo di voce. «L’isola?»

«Sì. Gli unici specialisti che possono confermare le nostre teorie in merito lavorano nei laboratori presenti su quell’isola sperduta nell’Atlantico. Lei dovrà essere ricoverato e monitorato in una clinica specializzata.»

«Un attimo: ha detto che sapeva cosa mi era successo, e ora parla di teorie? Di teorie del cazzo? Di ricovero?»

Chelli sbuffa. Sta iniziando a perdere la pazienza anche lui. «Senta, Resti: quando le spiegherò la situazione lei avrà bisogno di tutto il supporto psicologico necessario. Dove ci vogliamo vedere?»

«Milano; questo pomeriggio, sul tardi. Vengo io da voi, mi dia l’indirizzo.»

«Via principe Amedeo, numero 2» dice. «Ascolti, signor Resti…» aggiunge poi, lasciando la frase sospesa.

«Cosa?»

«È sicuro di non avere nient’altro da dirmi?»

«In che senso, scusi?» chiedo, con una certa apprensione. Il tono accusatorio che sento ora nella voce del tribuno non mi piace per niente.

«È sicuro di trovarsi a Milano?»

«Certo» rispondo, con la certezza che quel figlio di puttana di Chelli deve aver capito che gli sto mentendo. «A Milano, come le ho detto. Ci vediamo tra qualche ora» concludo. Poi riattacco, senza attendere risposta.

Torno sui miei passi e aspetto il bus. Non so cosa pensi di aver scoperto Chelli, ma devo trovare Rojas e il romanzo prima che loro trovino me, o passerò il resto dei miei giorni internato in una clinica psichiatrica in mezzo all’oceano Atlantico. Un esilio degno di un Napoleone.

Una volta capito come funziona il collegamento tra i mondi, tanti saluti. L’unica cosa che rimpiangerò davvero è Iris. Chissà, magari posso ritrovarla anche dall’altra parte.

Magari non sarà un’attrice famosa, magari sarà una cameriera con l’hobby del teatro. Una alla mia portata. Sì, una volta tornato la cercherò su ogni social e la corteggerò allo sfinimento.

Scendo alla fermata di fronte al bar, intenzionato a comprare un paio di bottiglie di birra.

Ho voglia di bere. Una dannata voglia di bere. Tanto che, oltre a una birra, acquisto anche una bottiglia di Distillato del Centurione. Mi incammino verso l’hotel e rientro nella stanza numero 8 che sono le quattro passate. Sullo schermo del videoterminale lampeggia una piccola luce rossa: in segreteria c’è una chiamata per me. Alzo la cornetta e sento la voce roca e cavernosa di Paul Santamonica.

«Ho trovato quello che cercavi, ragazzo. Ci sentiamo stasera. Ti faccio una videochiamata verso le otto.»

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