Epilogo

 

lunedì 09 dicembre

 

Il resto lo sapete.

Non è successo proprio nulla, e stamattina mi sono risvegliato in questa dannata stanza. Anche il finale che ho scritto prima di iniziare a raccontarvi la mia storia non sembra aver sortito alcun effetto.

Ci riprovo. Le dita scorrono sui tasti della macchina da scrivere. Li accarezzo con rispetto, mentre riscrivo il finale di questo dannato romanzo. Ancora, e ancora. E ancora. Cambio le parole, cambio le dinamiche, ma il concetto rimane sempre lo stesso: David Resti, il protagonista, riesce a tornare nel suo mondo. Eppure, non succede niente.

Sospiro, mi alzo e mi affaccio alla finestra. Le strade sono vuote, manca davvero poco allo sbarco sulla Luna. Il collegamento in diretta con la Mercurio 15 è già iniziato, la voce eccitata dei telecronisti commenta le immagini che arrivano dal satellite. Ogni tanto si sente qualche botto, e qualche colpo di pistola. La gente ha iniziato a festeggiare.

Non io. Credo di essere l’unico in tutto l’Impero ad avere la televisione spenta. Perché? Non lo so. Davvero: onestamente, non saprei spiegarvelo.

Forse perché tutto questo mi sembra ancora così finto, così dannatamente irreale. E non voglio partecipare alla festa perché so che non è la mia festa, se capite cosa intendo. No, non è il mio mondo, questo.

Sento dei rumori, oltre la porta. Mi avvicino. C’è qualcuno che sta armeggiando con la serratura. Sono in due, a giudicare dalle voci.

«Sicuro che…» dice uno.

«See. Non se sente niente. La tele è spenta: è vuoto» risponde l’altro.

«Daje, allora. Sbrigate co sta cazzo de serratura.»

Non sono l’unico a disinteressarmi allo sbarco, a quanto pare. Furbi, questi topi d’appartamento: quale occasione migliore dell’evento del secolo per rubare nelle case? Prendo la Colt e miro alla parte alta della porta: non voglio uccidere più nessuno, se non devo. Sparo, e nel legno da due soldi si apre un buco grosso come un pugno, mentre le schegge volano in tutte le direzioni, come tanti coriandoli.

I ladri imprecano, poi li sento correre via, giù per le scale. Mi infilo una sigaretta in bocca, l’accendo e aspiro. Mi ritrovo a pensare ancora una volta che prima di tutta questa storia ero riuscito a smettere. E non è stato facile, credetemi. Faccio l’ultimo tiro e butto la cicca dalla finestra, poi torno a sedermi davanti alla macchina da scrivere. Intanto, i rumori dei botti sono aumentati, neanche fosse Capodanno. Sono come le ciliegie, questi botti. Uno tira l’altro. È bastato che qualcuno iniziasse e via, gli altri dietro in progressione. Spero per loro che se ne tengano qualcuno per festeggiare come si deve il momento dello sbarco.

«Maledizione» dico, sbattendo stancamente il pugno sul baule. Poi strappo la pagina, l’ultima pagina che ho scritto, con l’ultimo finale che ho inventato, e l’accartoccio. La getto a terra, assieme alle altre. Mi prendo la testa tra le mani. So qual è la verità. La so da quando mi sono svegliato. Solo che non voglio affrontarla. Non ho il coraggio di affrontarla. Perché la verità è che Rojas aveva ragione.

Ripenso alle parole di Herlinga, che sosteneva mi avessero fatto una sorta di lavaggio del cervello. Alle parole di Akane, sul balcone del caffè del teatro Argentina: «Ora lei è una vittima. Solo una vittima». Poi aveva dato la colpa delle mie disgrazie a Rojas. Alle parole di Chelli, che aveva parlato di un laboratorio a Madeira, lo stesso luogo da dove, a detta dello spagnolo, era stato studiato il Ceo negli ultimi mesi. Per quanto sia dura, devo fare i conti con il fatto che non esiste nessun “altro mondo”. Non è mai esistito. E se non l’ho capito subito è solo perché non ho voluto ammettere con me stesso che sono impazzito. O che mi hanno “cancellato la mente”, a essere precisi.

C’è differenza, in fondo?

Guardo l’Olivetti Lettera 72 e ho voglia di prenderla e di buttarla giù dalla finestra. E mentre inseguo questo pensiero mi alzo. Il Ceo. Quello che è successo a me non deve succedere più a nessuno. E allora lo faccio a pezzi. Lo sbatto sul muro, lo getto a terra. Lo colpisco con la macchina da scrivere fino a che non è distrutto, ridotto a un rottame. Poi afferro i fogli che compongono il romanzo e mi trascino zoppicando fino al lavandino. Li brucio. A uno a uno. Vedo le fiamme danzare davanti a me, mentre si mangiano l’unica copia del mio ultimo capolavoro.

Quando ho finito cerco la foto del Checkpoint Charlie nella tasca interna del borsello. Quel cane deforme mi fissa con la ferocia di sempre. Rimango a guardare la foto, inebetito. L’avvicino alla fiamma, lentamente.

I contorni si anneriscono e si deformano. Poi le fiamme esplodono e l’avvolgono. Lascio cadere la foto nel lavandino, tra i cumuli di cenere grigiastra, tutto ciò che rimane di questo romanzo di merda che ho giudicato così importante, confondendo cause ed effetti: non era un ponte tra due mondi, ma il rifugio della mia mente. È così ovvio, in fondo.

Il cane a tre teste sembra davvero Cerbero, ora. Lo guardo bruciare, e voglio credere che le fiamme dell’Inferno lo stiano inghiottendo per nasconderlo agli occhi del mondo e riportarlo nell’oblio dell’oltretomba. Poi mi trascino ancora alla finestra, dopo aver recuperato la bottiglia di distillato.

Ho la mente vuota. Non riesco a pensare a nulla, non voglio pensare a nulla. Sento l’audio di migliaia di televisori sintonizzati sullo stesso programma. Bevo questo whisky di merda e ascolto la diretta.

Ci siamo. Un minuto ancora e la capsula atterrerà. L’equipaggio della Mercurio 15 non parla, impegnato nelle procedure di allunaggio. Tutto il mondo guarda la telecamera della capsula che si avvicina al suolo con il fiato sospeso e, per la prima volta, attorno a me è tutto silenzio. Finalmente è tutto silenzio. Solo silenzio.

Faccio ancora un sorso dalla bottiglia e ringrazio per questo silenzio. Dura poco. Migliaia di urla di gioia lo rompono. Lo spaccano, lo squarciano, lo violentano. Centinaia di persone lanciano fuori dalle finestre qualunque cosa, c’è anche chi spara in aria con un fucile o con una pistola. Ascolto il rumore di migliaia di voci in festa, mentre dei fuochi artificiali riempiono l’aria, andando a colorare un’alba che si affaccia timida, pronta a rubare la scena alla notte e a illuminare questo giorno memorabile. E questo è solo l’antipasto: quando il tribuno Luigi Flavio Salis uscirà dalla capsula e metterà piede sulla Luna sarà anche peggio.

Ancora un sorso di distillato. Ancora una sigaretta. Poi lo sguardo mi cade su una lussuosa Maserati nera dai vetri oscurati che sta parcheggiando nella piazza. L’unica macchina che circola. La osservo incuriosito, e quando gli sportelli si aprono e vedo scendere gli agenti Chelli e Smiti non provo nulla. Nessuna paura, nessuna rabbia. Niente di niente. Solo, un altro sorso di distillato. La bottiglia è quasi finita. I tribuni si guardano attorno, non sanno bene dove cercare, evidentemente. Entrano in un locale dall’altra parte della strada, dove oltre le vetrate vedo una piccola folla accalcata davanti a un maxi schermo.

Guardo il mozzicone di sigaretta che ho tra le dita e sorrido. Lo getto dalla finestra, assieme a quel che rimane della macchina da scrivere e di questo strano macchinario.

Mi siedo sul bordo del letto, prendo il telecomando e accendo la televisione. Il conduttore dice che tra una manciata di minuti il comandante della missione uscirà dalla capsula, che è già stata depressurizzata. Aggiunge dettagli tecnici che non capisco. Provo a fare zapping. Niente da fare. Tutti i canali mandano lo stesso programma, a reti unificate. Sospiro e faccio un altro sorso di questo schifosissimo whisky.

«Il Distillato del Centurione» dico. E rido, rido come un bambino, pensando a questo nome di merda e a tutti i nomi di merda che ho sentito qui. Dio, come si può chiamare un hamburger svizzerina?

Mi affaccio alla finestra e rido ancora. Rimango a fissare il sole che sorge e si alza dietro i palazzi, poi lo sguardo torna a vagare sulle costruzioni, sulla piazza, sulle strade. Vedo gli agenti Chelli e Smiti che camminano a passo deciso verso il portone di questo palazzo. Sono proprio sotto di me. Con le pistole in pugno. Mi concedo l’ultimo, lungo sorso. La bottiglia è vuota, e la getto via lontano. La lancio dalla finestra e penso di essermi così unito ai festeggiamenti, anche se a modo io. Mi accendo un’altra sigaretta, l’ultima, e mi trascino verso il letto.

La porta della capsula si apre. Posso quasi sentire il mondo intero che trattiene il fiato. Uno degli astronauti riprende il tribuno Luigi Flavio Salis, di spalle, pronto a uscire. Ha in mano una bandiera con l’aquila imperiale romana.

Sento bussare alla porta. Per un istante mi chiedo come mi abbiano trovato. Cosa cambia, in fondo? Poi, la voce del tribuno Chelli, stentorea e cristallina, che tuona: «Sappiamo che siete lì dentro. Venite fuori con le mani in alto».

Il tribuno Luigi Flavio Salis esce dalla capsula e con un balzo è sulla Luna. L’ultima conquista dell’uomo. Il mondo attorno a me esplode, come scosso da un terremoto. I muri del palazzo quasi tremano, per le urla e i salti di gioia.

Sento ancora la voce di Chelli, adesso più decisa e feroce: «Questo è l’ultimo avvertimento. Rojas, Resti: venite fuori con le mani in alto, o butteremo giù questa dannata porta».

Sorrido. E ascolto la voce del tribuno Luigi Flavio Salis da dietro lo schermo, lontana e distorta, che dice: «Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità».

«Incredibile! Salis ha citato David Resti» urla un telecronista, eccitato. «Ha omaggiato il suo scrittore preferito, usando le stesse parole che Resti ha fatto pronunciare ad Armstrong, l’astronauta americano che, nei suoi romanzi, mette per la prima volta piede sulla Luna!» dice un altro. «Realtà e fantasia che si fondono in questo giorno memorabile!» continua il primo. «La narrativa che diventa…»

Spengo la televisione e sorrido. Sorrido e mi arriccio in posizione fetale, mentre la porta di ingresso si apre con uno schianto. Chiudo gli occhi.

L’ultima cosa che vedo è una bandiera rosso sbiadito con la lupa capitolina che allatta Romolo e Remo, sovrastata da una scritta in giallo sporco che recita: Res Publica.

Su una mensola lì accanto, due malmesse statue di bronzo: il busto di Caio Crasso e quello di Marco Bruto, in tutta la loro iconica fierezza.

Sembra quasi che mi fissino.

Che mi fissino e mi sorridano strano.

Come a ricordarmi il pazzo che sono diventato.

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