
Io e il gobbo.
Stesi sul prato del Mount Hope di Bangor. Le spalle posate alla lapide di un signor nessuno.
Il gobbo accende una canna, fa due tiri e me la passa. Un rumore sommesso dalla cappella cimiteriale, qui accanto. La donna piange. Noi ridiamo. Poi una coppia di gatti ci sfreccia davanti. Ne intuiamo i colori, alla luce della luna: uno è tigrato, l’altro è rosso.
Il gobbo scuote la testa. «Per me i gatti che bazzicano nei cimiteri dovrebbero essere neri. Solo neri» sentenzia. E sputa a terra.
Annuisco e apro due lattine di birra. Brindiamo.
«A Tutankhamon» fa il gobbo, con un sorriso maligno.
«A Tutankhamon» rispondo io.
Fu con la mummia di Tutankhamon che il mondo conobbe la più grande invenzione di tutti i tempi. Una diretta planetaria, a reti unificate.
La magia nera del demonio, secondo una buona metà degli uomini.
La prova dell’esistenza di Dio, secondo l’altra metà.
Nanotecnologie e fisica quantistica, secondo il dottor Neri e il suo pool di ricercatori.
La più grande rivoluzione della storia, diceva. E aveva ragione.
Un aiuto a tutta l’umanità, diceva. Questa, invece, era una stronzata.
La donna esce dalla cappella di famiglia. Trema come una foglia. «Non ce la faccio» mormora.
Il gobbo si alza, con calma. Sputa a terra. «I patti erano che ti avremmo aperto la bara e messo a disposizione il Loquere ad Mortem. Il resto è affar tuo.»
«Non ce la faccio» ripete la donna.
«Allora c’è un supplemento» ride il gobbo.
«Diecimila era tutto ciò che avevo» piange la donna.
«L’orologio, la collana, i bracciali» ghigna il gobbo.
Cinque minuti e stiamo spolpando la ragazzina, con i nostri attrezzi. Dio, quanto puzza. Il corpo si sta decomponendo. La donna aspetta fuori. Singhiozza e ci ripete che aveva tredici anni. Solo tredici anni. Il gobbo le risponde che non ce ne frega un cazzo, di quanti anni avesse sua figlia.
Ci siamo. Raschiamo un po’ di ossa e mettiamo la polvere nell’apparecchio.
Parlare con i morti. Basta prendere anche solo una cellula dalle ossa di un cadavere e infilarla qui dentro. E il defunto risponde a tutte le domande che vuoi. Non si tratta dell’anima, non risponde a nessuna domanda relativa al dopo. Non può. Fisica, non spiritualità. Memoria quantistica. E alle domande relative al prima risponde eccome. E non può mentire.
Richiudiamo la bara e la rimettiamo a posto. Tanto valeva farlo adesso, inutile respirare questa merda anche dopo. Accendo la stampante e aspetto che si colleghi al LaM. Perfetto.
«È tutta sua, signora» dico.
Il gobbo mi fa il verso: «Tutta sua!» E si prodiga in un inchino sbilenco. Ci prova gusto a prendere in giro chi soffre, il gobbo.
Usciamo, mentre la donna piange. Perché ti sei suicidata, chiede. Cosa ti hanno fatto tuo padre e suo fratello, chiede. La stampante si mette in funzione. Io e il gobbo non facciamo caso ai lamenti e alle urla della madre. Sappiamo che la verità può far male. Molto male.
La verità fa male, sì. Lo sapevano bene papi e imam, con i loro moniti e le loro minacce.
Certo, alcune verità possono rendere ricchi e potenti. Lo sapevano bene governi e multinazionali, con le loro promesse e le loro lusinghe.
Dibattiti infinti… il giusto, lo sbagliato.
Tutti volevano i progetti del LaM. Di Neri e la sua squadra nessuno ne ha saputo più nulla. Pare fossero fuggiti chissà dove, braccati come animali, spaventati come conigli, nascosti come ratti. Pare li abbiano trovati e uccisi. Prima di morire, però, hanno reso i progetti pubblici.
Era incredibile che fosse così dannatamente semplice, costruirne uno. È sempre così, in fondo. Come la ruota. Facile, quando ti mostrano come è fatta. Il difficile è pensarci per primi.
Apro altre due birre. «Alla verità» dico.
«Alla verità» fa il gobbo. E brindiamo.
«E alla tua ricerca» continua. «Allora, lo hai trovato?» chiede. E si mette a pisciare su una tomba.
«Sì, l’ho trovato» rispondo. E lo imito: non la trattengo più.
La birra fa questo effetto, soprattutto quando vai per i settanta. E andiamo entrambi per i settanta, io e il gobbo.
«Sicuro?» fa.
Accendo una sigaretta e annuisco. È lui. Ne sono sicuro. Cristo se lo hanno nascosto bene… ci ho messo un anno a individuare la tomba. Sapevo che era sepolto qui, sapevo che i figli avevano cancellato il nome sulla lapide e spostato il corpo. Come dargli torto?
«E me lo dici chi è?»
Il gobbo è curioso: me ne sono partito dall’Italia, per cercare quella tomba. Gli ho promesso che una volta trovata gli avrei detto tutto. Avrei fatto quello che dovevo fare e poi me ne sarei andato, lasciandogli il LaM.
«Poi ti ci porto» dico. Ogni promessa è debito.
La donna ha finito. Si trascina fuori dalla cappella, come un fantasma. La sosteniamo fino all’ingresso. Il militare di guardia si gira dall’altra parte, mentre il gobbo gli lascia una mazzetta di banconote sul gabbiotto.
«Duemila?» chiede il ragazzino, quando la donna è uscita. Avrà neanche vent’anni, i capelli rossi e le lentiggini. E la voce che trema. Anche se ha un mitra in mano ha paura del gobbo. E ha paura di me. Pare che su di noi circolino storie strane. È da un anno che giriamo per questo cimitero, dal tramonto all’alba. Di questi tempi sono diventati superstiziosi in tanti.
«Duemila e duecento, che sei appena diventato papà. Un regalo del gobbo per la piccola» risponde il custode. E sputa a terra. Se le tiene buone, le guardie armate.
Così come si teneva buono me, la sua gallina dalle uova d’oro.
All’inizio le nostri notti erano mosse solo da un rapporto utilitaristico: il gobbo mi faceva cercare la tomba, io gli consentivo di usare il LaM per i suoi nuovi commerci. Gente con qualcosa da chiedere ai propri cari. O ai propri nemici. Domande irrisolte. Amore, odio.
Verità.
Poi, piano piano, siamo diventati fratelli, io e il gobbo. Due vecchi che aspettano la morte tra i morti.
Torniamo alla cappella, e ripongo il LaM nella custodia. Ci sto attento: non ne rimangono poi molti. In effetti, vale una fortuna. Ripenso a quando lo assemblai. Bei tempi, quelli.
Due chili di attrezzatura reperibile in rete, una stampante bluetooth a batteria e le palle di scoperchiare una cazzo di bara. Non serviva altro.
I cimiteri erano stati presi d’assalto da fanatici di ogni tipo. Poi, quando le folle misero le mani sui resti di Kennedy e Kruscev… oh se ne avevano avute di cose da dire, quei resti.
Certi segreti stanno bene solo addosso ai morti. Verità, chiedeva la gente. Verità in diretta web. Ma la verità fa male. Cazzo, se fa male.
I cadaveri delle persone importanti si iniziarono a custodire come l’oro di Fort Knox. Si diceva che il Vaticano avesse cremato i resti di Papa Luciani e ne avesse disperso le ceneri in mezzo al Pacifico. Si diceva che i russi avessero spostato il corpo di Stalin e i denti di Hitler in un bunker inaccessibile.
Poi le guerre civili, le leggi speciali, il proibizionismo. I LaM furono vietati in tutto il mondo. Ne sono rimasti così pochi che oramai attorno ai cimiteri hanno allentato i cordoni. Non ci sono più eserciti a presidiarli. Qualche soldato qua e là. Come il ragazzino dai capelli rossi, all’ingresso.
Ci mettiamo in cammino, io e il gobbo.
Avanziamo tra lapidi e croci, torcia in mano. Fino a una tomba anonima, su una collinetta spettrale.
«Ecco» indico. «È questa.»
Il gobbo mi guarda. Poi guarda la lapide. E legge. «Portland, ventuno settembre del mille novecento e quarantasette. Bangor, venticinque gennaio del…» Si ferma e sputa a terra, il gobbo. E accende un’altra canna.
«C’è scritto che è morto da vent’anni. È vero?» continua.
«Sì, le date sono giuste» rispondo.
«Chi era?»
«Uno scrittore» faccio. «Proprio come ero io, prima che il mondo andasse avanti.»
«Uno scrittore?» ghigna il gobbo. «Ma che senso ha?» E mi passa la canna.
Faccio un tiro e scrollo le spalle. «Nessuno. O tutto il senso del mondo, chissà» dico. E dalla tasca tiro fuori un coltellino. «Non avevo più nulla, se non un LaM nascosto in cantina e delle domande per costui.»
Il gobbo sorride. Ha capito. «E cos’è che gli vuoi chiedere?»
«Di Roland e della Torre» mormoro. «E di tante altre cose…»
E incido la lapide. Fino a che su non vi si legge un graffito, dalla grafia ruvida e sgraziata.
Bango Skank Was Here