Gandalf, la ganja e tutto quanto

Gandalf la ganja e tutto quanto - Racconto bizarro fiction di David Fivoli

Incontrai Gandalf per la prima volta diversi anni or sono alla “Green House”, il noto coffee shop di Amsterdam.

Il vecchio se ne stava seduto con lo sguardo sognante, intento a fumare erba con la sua pipa. Nessuno sembrava far troppo caso al modo in cui era vestito, del resto in quei giorni c’era la Cannabis Cup, e di gente strana in giro se ne vedeva parecchia. Lo dovevano aver scambiato per un vecchio e bizzarro cosplayer. L’ultimo film della trilogia di Peter Jackson era uscito al cinema da non più di due anni, e la moda de Il Signore degli anelli era al suo apice.

Io, che ci crediate o no, capii subito che non si trattava di un cosplayer, e che al tavolo accanto al mio c’era proprio lui: Gandalf. Mi andai a sedere al suo fianco, chiedendogli gentilmente se potessi offrirgli un tè.

«Purché sia alla ganja, figliolo» rispose lui, alzando un sopracciglio.

E iniziammo a chiacchierare amabilmente del più e del meno, come due vecchi amici che si ritrovano dopo anni. Venni così a sapere che, sconfitto Sauron e riportata la pace nelle Terra di Mezzo, il buon Gandalf si era dedicato alla ricerca. Venuto in possesso di certi libri in cui erano accennati rituali magici tanto potenti quanto dimenticati, aveva deciso di approfondire gli studi in tal senso. Un artefatto magico di qua, una pietra del potere di là, una vecchia pergamena di su, un uovo di drago di giù, Gandalf era riuscito a ricomporre un’antichissima formula per aprire varchi dimensionali. Poteva così andare in altri tempi e in altri luoghi; oppure poteva, da altri tempi e altri luoghi, “richiamare” persone e cose.

Mi disse che, amando oltre modo la ganja, di cui era un gran consumatore, si recava sovente nella capitale olandese. Soprattutto nel periodo della Cannabis Cup, durante la quale, come già accennato, passava praticamente inosservato. Mi disse anche che era proprio ad Amsterdam che, anni prima, aveva incontrato Tolkien, e gli aveva raccontato tutto ciò che poi il linguista britannico riportò ne Il Signore degli Anelli. Considerato il più grande libro fantasy della nostra cultura, non è altro che il fedele copia-incolla (come si dice oggi) che Tolkien fece delle parole di Gandalf. Detto tra noi, che oramai lo conosco assai bene, in quel libro per il novanta per cento ci sono scritte su enormi balle, soprattutto nei passaggi in cui si parla di lui. Ma non voglio aggiungere altro, perché in fondo è un amico e gli voglio bene.

Ma torniamo alla storia senza divagare su questioni letterarie; io e Gandalf passammo la serata a fumare erba e a discutere della vita nella Terra di Mezzo, di Sauron, del Gollum e tutto quanto. Poi gli chiesi se avesse visto i film, e devo riconoscere che la sua cultura cinematografica, soprattutto riguardo al genere fantasy, non era affatto disprezzabile. Il film che preferiva era Labyrinth, dell’’86, di Jim Henson; quello dove il Re dei Goblin lo interpreta David Bowie, per intenderci. Che ci crediate o no, Gandalf va matto per David Bowie.

Il vecchio mago mi disse che, dopo essersi trasferito nella Contea decenni prima, passava le giornate a prodigarsi in ricerche magiche, fumare ganja e fare passeggiate in mezzo a colline e boschetti.

Io all’epoca ero un trentenne a cui tutto andava male. La mia ragazza mi aveva lasciato da poco, ero molto depresso, non trovavo un senso alla mia vita e mi consideravo un fallito. Laureato in lettere e filosofia alla Sapienza di Roma, ovviamente non riuscivo a trovare lavoro. Operatore in un call center, venditore di aspirapolvere, procacciatore di affari presso un’agenzia immobiliare, venditore di cibo per cani e gatti porta a porta… queste erano le uniche offerte lavorative che avevo ricevuto. Tutte a provvigione, con zero euro di fisso. Non riuscendo a vedere un futuro, avevo deciso di spendere i miei ultimi averi per farmi quel viaggio ad Amsterdam e sballarmi di fumo ed erba di primissima qualità, per poi gettarmi nel fiume e farla finita.

Non dovete quindi stupirvi se, oramai a notte fonda, fumato perso e con l’occhio tremulo, presi il coraggio a quattro mani e dissi: «Gandalf, ti prego, portami con te».

«Mm, mio giovane amico, se verrai con me non potrai più tornare indietro. Non per qualche anno, almeno» rispose il mago.

Non chiedevo di meglio. La lettera d’addio per la mia famiglia l’avevo già pronta, del resto. Passai in albergo a prendere lo zainetto e quella notte stessa, grazie a un varco dimensionale il cui funzionamento non sono in grado di spiegare, mi trovai nella Terra di Mezzo.

La mia vita nella Contea in quei primi anni fu meravigliosa. Venendo da un altro mondo (anzi, da un’altra dimensione), ero trattato con tutti gli onori. Insegnavo “Storia e Costumi della Civiltà Umana – Pianeta Terra”, ed ero ovviamente l’unico docente che vi fosse. Tenevo lezione un paio d’ore al giorno a Hobbit svogliati a cui ciò che dicevo non interessava neanche troppo. Spesso però venivano a sentirmi Uomini, Elfi e Nani. Mi invitavano nelle loro Capitali a tenere seminari, mi accoglievano con ogni onore e mi proponevano di rimanere a vivere e insegnare lì, tra fama e gloria, invece che tornare a sprecare il mio tempo nella Contea. Erano interessati al mio mondo, non tanto alla storia quanto alla “tecnologia”. Ai razzi spaziali, agli aerei, ai treni, alle automobili e a tutto ciò che a loro sembrava incredibile e strano.

Ringraziavo tutti e a tutti rispondevo nello stesso modo: come Gandalf, io nella Contea ci stavo benissimo. I miei studenti, Hobbit sfaccendati più interessati alla pausa della merenda che a sapere chi fossero Hitler, Stalin o il Papa, non mi facevano mille domande. Non mi tenevano ore e ore a cercare di spiegare come funzionasse un motore a scoppio (cosa che peraltro non sapevo affatto) o cosa fossero antibiotici ed economia virtuale!

La verità è che sono sempre stato pigro, e nella Contea avevo trovato l’America. Mi alzavo tardi, pranzavo da qualche amico (un invito lo ricevevo sempre) e nel pomeriggio, con molta calma, tenevo le mie lezioni. Poi una passeggiata e quattro chiacchiere con Gandalf. Magari andavamo a controllare il campo in cui coltivavamo le nostre piante di ganja, oppure a pesca sul lago, fumandoci enormi cannoni d’erba. La sera c’era sempre una festa dove ero l’ospite d’onore. Mangiavo a sazietà e mi sbronzavo forte. Ah, che meraviglia la vita nella Contea!

Mi fidanzai anche, in quel periodo, con una giovane e bellissima Elfa… Ulefier, si chiamava. La nostra storia finì, come sovente capita nei rapporti a distanza, perché lei di trasferirsi nella Contea non ne voleva sapere, e io non ne volevo sapere di andare a rintanarmi nel Bosco Atro a morire di noia.

A turbare quei tempi felici ci arrivò, circa due anni e mezzo or sono, la notizia di una probabile, imminente guerra. Sconfitto Sauron, ecco che vecchi odi e antichi rancori stavano inesorabilmente riaffiorando. Nani conto Elfi, Orchi contro Troll, Ent contro Goblin, Uomini contro altri Uomini e contro ogni altra razza… tutti cercavano alleanze, promettevano favori, minacciavano ritorsioni. Sembrava stesse per iniziare una sorta di enorme partita a Risiko. Gli Hobbit volevano rimanere neutrali, ma quando c’è una guerra, si sa, i problemi ci sono per tutti, e anche la Contea ne avrebbe senz’altro sofferto.

Così, con Gandalf decidemmo di risolvere la questione sfruttando le sue nuove competenze nel ramo dei “richiami dimensionali”. Avrebbe evocato un Paladino da un’altra dimensione, uno di quei tipi tosti e senza paura che ti risolvono le sorti di guerre, regni e pianeti interi. Da soli. Preparammo tutto per il rituale. Ad assisterlo c’eravamo solo io e un rappresentante per ognuna di queste famiglie: i Tuc, i Brandibuck, i Boffin, i Soffiatromba e, naturalmente, Frodo per i Baggins.

Gandalf, che quella sera aveva fumato veramente troppo, pronunciò le parole del rito, che concluse biascicando: «…e per questo evoco te, Paladino!».

Un lampo. Poi una nuvola di fumo. Gli Hobbit trattennero il respiro, mentre Gandalf sorrideva, felice e strafatto. Quando il fumo si diradò tutti applaudirono la figura massiccia che ci apparve di fronte esclamando: «Ma che minchia…».

Tutti applaudirono.

Tutti. Tranne me.

Eh sì, perché io quel tipo lo avevo già visto su un libro di Storia, in foto. 167 cm per 83 kg, vestito con un completo anni ’40, capelli impomatati da non so quanta brillantina. Gandalf non aveva richiamato un Paladino. No. Aveva richiamato Antonio Paladino. Un associato della famiglia mafiosa italo americana Clemente. Nato nel 1916 nel Kentucky, morto nel 1950. A occhio, era stato richiamato che doveva avere una trentina d’anni.

Quello che successe dopo fu bizzarro. Paladino, che stupido non era, capì la situazione praticamente al volo. Devo dire che molto del merito fu mio e delle spiegazioni che gli feci in disparte: ero un umano come lui, come lui provenivo dalla Terra e, cosa forse più importante di tutte, nelle nostre vene scorreva lo stesso sangue italico! Visto che dopo il rituale si è vincolati a dover rimanere nella dimensione in cui si è stati richiamati per un certo periodo, Paladino si accordò con Gandalf in questo modo: avrebbe risolto i problemi della Contea per due anni, trascorsi i quali Gandalf lo avrebbe rispedito a Little Italy.

Io mi guardai bene dal dire a Gandalf e agli Hobbit chi fosse davvero colui che tutti guardavano come la sicura soluzione ai loro problemi. Mi lanciai anzi in entusiastiche lodi sulla statura morale e sulle indubbie capacità strategico-risolutive di “Paladino il Paladino”. Da una parte non volevo ferire Gandalf e dare al mio vecchio amico un dispiacere, dall’altra avevo più paura di un leggendario associato della mafia italo americana che di un esercito di Troll inferociti.

Paladino, per prima cosa, convocò tutte le Famiglie. Gli piaceva moltissimo questa tradizione delle “famiglie” degli Hobbit. Lo faceva sentire a casa. Reclutò i giovani che riteneva più adatti, li fece vestire come lui e iniziò a chiamarli “Picciotti”. Finì che nella Terra di Mezzo furono universalmente conosciuti come “Picciobbit”. Iniziarono così i due anni che saranno ricordati come “L’era di Paladino”.

Gli Elfi non ne volevano sapere di sedersi al tavolo con i Nani per firmare una tregua? Gli Ent davano problemi? Ecco che i loro boschi iniziavano a prendere fuoco. Erano i Nani a non volersi accordare con gli Elfi? Ecco che dalle loro scorte d’oro e gioielli iniziavano a sparire ingenti quantitativi, e che le gallerie sotto alle loro montagne crollavano improvvisamente. Per far ragionare Orchi, Goblin e Troll non serviva schierare chissà quali eserciti: bastava far recapitare nei loro villaggi una testa di Drago mozzata e se ne stavano zitti e buoni nei loro territori. E poco importava se le teste di Drago non erano vere, ma fedeli riproduzioni di scena trafugate da me e Gandalf dal set di Game of Thrones: erano troppi stupidi per accorgersene.

Con gli Umani fu ancora più semplice. Anni e anni di esperienza sul campo negli USA degli anni ’30 facevano di Paladino un vero esperto di tecniche di intimidazione, ricettazione, ricatti, corruzione e doppi giochi vari. Nella Terra di Mezzo nessuno aveva mai avuto a che fare con nulla del genere. Praticamente senza spargimento di sangue, dopo pochi mesi dall’entrata in scena dell’italo americano tutte le terre erano state pacificate, nessuno osava muovere un dito senza il permesso della Contea e anzi ogni popolo, regno o sperduto villaggio delle montagne ci pagava il pizzo. Una cosa giusta però, ognuno secondo le sue possibilità.

Uno degli aspetti più singolari di tutta questa storia fu la nascita di ristoranti pseudo italiani in tutta la Terra di Mezzo. I mafiosi italo americani, si sa, hanno sempre amato i ristoranti italiani e gli spaghetti al pomodoro con sopra le polpette. E Paladino non era da meno.

Gli Hobbit poi, una volta che gli spiegammo cos’erano gli spaghetti e come cucinarli, ne divennero golosissimi. In ogni città spuntarono come funghi ristoranti di questo tipo, gestiti per lo più da Picciobbit. Potevi imbatterti in un “Da Frank – cucina tipica italiana” nel centro di Minas Tirith, in un “Bella Sicilia – gli spaghetti migliori delle Terre di Mezzo” a Moria, in un “Pan di polpetta – le migliori del bosco” a Lorien. Noi, nella Contea, mettemmo su il famoso “Little Italy – dove mangiano le Famiglie”.

Ci trovavamo spesso la sera io, Gandalf, Paladino e Frodo; mangiavamo enormi piatti di spaghetti al sugo e a bevevamo intere botti di vino rosso. Poi fumavamo erba giocando a briscola e tressette. Chiudevamo spesso la serata guardando un film nella saletta privata: con Gandalf avevamo rimediato un proiettore, un generatore elettrico a gasolio e un sistema Home Theatre di ultima generazione.

Vedevamo soprattutto film di mafia. Ne andavamo matti tutti e quattro. Dai capolavori di Scorsese come Mean street, Quei bravi ragazzi e Casinò agli intramontabili classici come C’era una volta in America di Leone o la saga de Il Padrino di Coppola, passando ovviamente per Carlito’s way e Scarface di De Palma e Donnie Brasco di Newell.

Furono due anni splendidi, devo dire. Quando fu l’ora di rispedire Paladino a casa, con Gandalf decidemmo di non dire nulla a nessuno. Certo, prima o poi si sarebbe venuto a sapere, che si sa come son fatti gli Hobbit: non riescono a mantenere un segreto neanche a pagarli. Però avremmo guadagnato un po’ di tempo.

Fu allora che una notizia terribile ci sconvolse.

Sauron.

Proprio lui.

Era tornato. Non si era capito come, ma era tornato.

Aveva già radunato un enorme esercito, e i suoi Nazgul stavano portando terrore, morte e distruzione in ogni e dove, nella Terra di Mezzo. I Picciobbit fuggivano terrorizzati dai villaggi degli Orchi e dei Troll, gettando nei fossi i loro completi firmati anni ’40. I ristoranti italo americani venivano depredati. Nani, Elfi e Umani smisero di pagare il pizzo e per un attimo sembrò che tutto il Continente fosse piombato nell’anarchia.

Tutto ciò succedeva due mesi fa. Si preparava una guerra spaventosa, una guerra che, questa volta, sarebbe stata molto difficile da vincere. Ammetto che in cuor mio ho anche pensato di chiedere a Gandalf di rispedirmi sulla Terra. Ma ho 50 anni, ora. E un’inutile laurea in lettere e filosofia, indirizzo cinema, conseguita con 110 e lode alla Sapienza di Roma nel 2000. Cosa cazzo ci torno a fare, sulla Terra? Non trovavo lavoro venti anni fa, figuriamoci oggi che, dicono, c’è anche una crisi nera.

No. Meglio fare l’Uomo, per almeno una volta nella vita, e rimanere accanto al mio amico Gandalf fino alla fine. Vada come vada. In fondo abbiamo ancora una carta da giocarci, contro Sauron. Lui avrà i Nazgul, ma noi abbiamo il richiamo dimensionale! Negli ultimi due mesi ci siamo messi a ragionare, a fare brainstorming, come si dice oggi per fare i fighi. Abbiamo passato in rassegna tutte le possibili soluzioni. Chi evocare, per sconfiggere Sauron?

Godzilla o King Kong? Han Solo o Yoda? Chuck Norris, magari? Alla fine, ne siamo venuti a capo. Abbiamo trovato la soluzione che ci permetterà di vincere la guerra senza muovere un dito e abbiamo convocato tutti per stasera, qui nella Contea, per assistere al richiamo. E sono venuti davvero tutti, niente da dire. I Re degli Uomini, degli Elfi, dei Nani… decine di delegazioni da ogni parte della Terra di Mezzo sono giunte qui, e a centinaia stanno aspettando che Gandalf spieghi loro cosa vuole fare. Che dia loro una speranza.

Ed eccolo, mentre finisco di scrivere queste memorie, avvicinarsi al grande palco che abbiamo allestito ai piedi di questa bella collinetta, al centro della Contea. Sale, un po’ incerto. Ha fumato davvero tanto, stasera. Gli avevo detto di non esagerare, ma non mi sta mai a sentire; dice che farsi quegli enormi cannoni di ganja gli fa bene, lo aiuta a rilassarsi.

Eccolo. Imponente e maestoso, nonostante tutto incute ancora un rispetto e un timore reverenziali niente male, il mio amico. Tira fuori dalla bisaccia un quaderno e lo mostra a tutti, nel silenzio più assoluto, un silenzio religioso. È un fumetto. Superman, per la precisione.

Oh, sì. Sauron, tu sarai anche l’incarnazione del male, ma voglio proprio vedere contro Superman come riesci a cavartela.

I tuoi Nazgul volano? Anche Superman. Ed è più forte di loro. Ti credi invincibile, Sauron? Vorrei proprio vedere la tua faccia quando Superman volerà su Mordor per annientarti. E io e Gandalf ci siamo documentati: nella Terra di Mezzo di kryptonite no, non ce n’è.

Gandalf spiega chi andrà a richiamare. Spiega chi è Superman. Quali sono i suoi poteri. Che questa guerra non potremo perderla, con lui al nostro fianco. Tutti applaudono entusiasti, tra lacrime di gioia. Vedo Nani ed Elfi abbracciarsi, Superman ha ridato loro la speranza. La gioia di vivere. Di credere. Di combattere.

Ecco che il rituale ha inizio. Gandalf pronuncia le sue parole. Solo, sono un po’ preoccupato. Non si regge in piedi. Temo abbia fumato oltre i suoi limiti, stasera. Riesce comunque a concludere il rito, almeno mi pare.

«E per questo evoco te, Superma…» biascica, alla fine.

Un lampo. Poi una nuvola di fumo. Tutti trattengono il respiro. Gandalf sorride, felice e strafatto. Tutti applaudono la figura che si fa strada sul palco, tra il fumo.

Tutti. Tranne me.

Eh sì, perché quello che si è materializzato non ha il mantello e una tuta da supereroe con una S disegnata sopra.

Oh, no.

Ha una salopette di jeans. E due enormi baffi neri. E una cassetta degli attrezzi da idraulico. E un cappello con una M disegnata sopra…

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