Bluff

Bluff - Racconto nero di David Fivoli

Mi chiamo David

L’occhio mi cade sulla rotella che regola la potenza della piastra elettrica. Poi, lo sguardo vola al grande orologio digitale che c’è sulla parete. Cinque secondi e giro gli hamburger. Conto ancora i secondi, come mi hanno detto. Per ottenere la cottura standard. Non devo pensare ad altro, perché una volta che li ho tirati fuori dalla piastra li prende la cinese. Non so come si chiami. È bassa, bruttina, ha una faccia inespressiva e potrebbe avere dodici o quarant’anni, per quanto ne so.

Io devo solo girare gli hamburger. Perché non comprano una macchina che faccia il lavoro al posto mio? Perché una macchina costa, il mio lavoro no: la prima settimana è di prova, non retribuita. Se superi la prova passi al gradino successivo. Dalla Medina di girare hamburger alla Mecca di farcire panini. La scalata piramidale verso un’ipotetica vita di successi e soddisfazioni nella catena della distribuzione alimentare street food style prevede che domani io prenda il posto della cinese, mentre il mio, di posto, sarà preso da qualche giovane disperato in cerca di un lavoro alienante e poco retribuito. Guardo il mio taccuino di appunti. Vuoto. Guardo ancora l’orologio. Sono le venti, il mio turno è finito.

Fra quattro ore morirò.

Sono sei mesi che penso alla mia morte. Si dice che ci si può abituare, che ci si può preparare. Tutte stronzate. Alla morte non ci si abitua, alla morte non ci si prepara. In questi mesi ho provato a combattere contro questa idea. Ho provato a tornare indietro da dove ero partito, a cercare un lavoro umile e ripetitivo, meccanico e disumanizzante. Pensavo di ritrovare la scintilla in questa cucina ammuffita e maleodorante, dove nessuno mi conosce o mi può riconoscere, dove i lavapiatti e i ragazzi che friggono patate parlano eccitati del film del momento. Non sanno che l’uomo che ha scritto il romanzo da cui quel film è tratto e che ne ha curato la sceneggiatura è lo stesso che ha passato la giornata a girare hamburger su una piastra elettrica a due metri da loro.

Mi chiamo David

Sono uno scrittore

Esco. L’aria fredda del vicolo buio mi ricorda che non voglio morire. Ogni cosa me lo ricorda. Le insegne al neon che vedo sulla strada; i sacchi della spazzatura ammucchiati in fondo al vicolo, con i gatti sopra a far festa; i vetri dei lampioni spaccati a sassate. Tutto questo mi fa venire i brividi. Non proviamo mai a vedere ciò che ci circonda come se fosse l’ultima volta. Se lo facessimo, tutto ci sembrerebbe meraviglioso. Ci fermeremmo ammirati e senza fiato di fronte a ogni particolare, dall’allestimento delle vetrine dei negozi alle piccole crepe delle nostre tazze da colazione preferite. Troveremmo tutto vivido, magico.

No che non voglio morire.

Mi frugo in tasca e tiro fuori il coltello che ho rubato dalla cucina. Forse c’è un’ultima cosa che posso fare, per salvarmi. Aspetto che la cinese esca nel vicolo e la sbatto contro il muro. Con una mano le chiudo la bocca, con l’altra le avvicino la lama al collo. Continuo a ripeterle che mi dispiace. Che non vorrei ucciderla, ma che devo. Lei prova a divincolarsi, prova a urlare, e la cosa incredibile è che i suoi occhi mi sembrano sempre uguali. Inespressivi e vuoti.

Ha iniziato a piovere e sto piangendo con le mani sul viso, accovacciato a terra tra i sacchi di rifiuti di questa tavola calda di periferia. Non sono riuscito a uccidere la cinese. Non ce l’ho fatta. Nonostante i romanzi che mi hanno reso famoso parlino di violenza e morte, di droga e stupri, di ogni sorta di cliché narrativo e cinematografico che ammicchi furbescamente ai lati più oscuri dell’animo umano, io sono un bluff.

Sono una coppia di jack al cospetto di un full d’assi.

Credevo che provare a uccidere mi avrebbe dato una scossa. Delle emozioni nuove, forti e definitive, con le quali riempire il mio taccuino. Stronzate. Un altro cliché narrativo di bassa lega, un altro luogo comune da operetta drammatica che diventa una farsa isterica e malinconica, come un pagliaccio che invece di far ridere suscita pena.

Non ci sono riuscito. Ho allentato la presa, e la cinese è scappata urlando. Mentre un tuono anticipava di tre secondi netti la pioggia. Mentre io cadevo a terra, dove sono rimasto per dieci, infiniti minuti. Mi rialzo, sconfitto, e mi trascino all’auto. Torno a casa che sono le ventidue. Non ho fame. Stappo una bottiglia di vino e accendo il computer. Due ore ancora. La mia ispirazione è scappata. Come una puttana che ti si scopa a morte per una notte intera e quando ti svegli è scomparsa con tutto quello a cui tieni di più. La mia ispirazione è fuggita, e senza di lei io sono un uomo morto.

Mi chiamo David

Sono uno scrittore in crisi

Ogni anno, allo scadere della mezzanotte del giorno del mio compleanno, un mio racconto è per lei. Solo per lei. A lei devo presentare qualcosa capace di toccare l’anima di chi un’anima non ha mai avuto. Questa è la regola. Questo è il patto. Se una volta all’anno non presento a sua maestà la Morte qualcosa di speciale, lei mi porterà via.

È iniziato tutto la sera di un mio compleanno di tanti anni fa, mentre scrivevo un racconto. Ancora non ero famoso, o conosciuto da nessuno. Ricordo di aver sentito una fitta al cuore e di essere scivolato a terra. Lei mi si è avvicinata senza fretta. Ricordo di averle sussurrato di darmi ancora un po’ di tempo. Non tanto, una decina di minuti al massimo, per chiudere quel racconto che giudicavo tra i migliori che avessi mai scritto. E lei disse di sì, annuendo con la testa. Terminai il racconto e lo rilessi per eliminare i refusi, lentamente, con la sua mano sulla spalla, come fosse una vecchia amica venuta a tenermi compagnia.

Lei lo rilesse con me, e le piacque.

Le piacque così tanto da propormi un patto: un racconto, la sera del mio compleanno, allo scoccare della mezzanotte. Un racconto in cambio di un altro anno da vivere. Ma un racconto speciale, un racconto esclusivo, che non doveva essere letto da nessun altro, prima o dopo di lei.

Da quel giorno le cose sono andate sempre meglio, come se quell’incontro e quel patto mi avessero portato fortuna. Poi, circa un anno fa, è successo. Mi sono svegliato e lei non c’era più. La mia ispirazione se ne era andata.

All’inizio non ci ho fatto caso, a chi non capita un periodo in cui non ti viene in mente niente? Ogni scrittore sa cosa si prova, come ci si sente quando succede. È come morire dentro. Come se la tua anima si inaridisse lentamente e diventasse una pietra crepata e spaccata dal sole del deserto. Quando passano due mesi e non sei riuscito a scrivere nulla inizi a pensarci. Quando i mesi diventano quattro inizi ad avere paura. Quando sono sei, la paura diventa terrore.

E molli tutto. E parti alla ricerca della tua ispirazione, perché sai che senza di lei sei finito. E non conta quanto sei felice o infelice, quanto sei ricco o povero, quanto sei famoso o sconosciuto. Ti rendi conto di essere nulla, come il tuo pubblico acquistato al discount delle anime perse. Ti rendi conto di essere un bluff. Solo un bluff.

Una scala bucata che si inginocchia a un poker.

Le ventitré e trenta. Sono accovacciato davanti alla scrivania e guardo la sottile barra nera verticale sulla pagina di Microsoft Word. Che mi ipnotizza. Che appare e scompare, immobile. Sono tranquillo, ora. Non ci sono più particolari da osservare ammirato, non ci sono più dettagli che possano ricordarmi quanto sia bella la vita. Non c’è più nulla. Se non lei, che arriva puntuale e silenziosa, come sempre. E mi si mette accanto. Sento la sua mano sulla spalla, mentre rompo l’incantesimo che mi perseguita da un anno e scrivo sullo schermo una sola parola: Bluff.

Lei mi fa un cenno, e io mi alzo. La seguo. Anche questa mia storia, l’ultima mia storia, è finita.

Mi chiamo David

Sono uno scrittore in crisi

E sono un bluff

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