
La conobbi sei mesi fa, alla mostra che avevo allestito. Vestito nero, pelle bianca, labbra rosse. Tre colori che mi sono sempre piaciuti. E occhi verdi. Il mio colore preferito in assoluto. In quegli occhi mi persi in un istante. E mentre guardava assorta un catalogo ricordo di aver pensato: è lei. È la ragazza dei miei sogni.
Lei. La mia Liseuse di Renoir.
Guardava ammirata le opere di Kandinsky: la Collezione del Centre Pompidou che eravamo riusciti a portare a Roma. Mi avvicinai e mi presentai come il co-curatore della mostra.
Lei sorrise e mi disse che era affascinata da quei colori, che non aveva mai visto nulla del genere. Io sorrisi e le risposi con le parole di quell’artista geniale e straordinario: Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde…
Quella notte la passammo assieme e la mattina successiva mi svegliai nel suo letto, proprio mentre stava sorgendo il sole. Il vestito nero poggiato sull’anta socchiusa dell’armadio. La pelle bianca baciata dalla prima luce che filtrava dalle persiane. Le sue labbra rosse che sfioravano il mio petto nudo. E i suoi occhi verdi. Chiusi a sognare, forse di me.
Noi due. Un Bleu landscape di Chagall.
La baciai sulla fronte e scivolai via delicatamente, per non disturbarla. Fu allora che successe per la prima volta. Mi stavo asciugando i capelli, dopo essermi fatto una doccia. Notai uno scialle verde sul termosifone. Lo presi e me lo strinsi al viso, per rubargli un po’ dell’odore della donna che già sentivo di amare. E lo sentii parlare. Nella mia testa.
Ricordo di essermi spaventato. Rimasi chiuso in bagno per un tempo interminabile a far prove con altri oggetti, poi cercai di calmarmi. Se toccavo un oggetto potevo sentirlo. Solo un brusio di fondo, che acquisiva un senso quando ciò che toccavo era verde. Ripensai alle parole di Kandinsky: «Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima».
Il verde era il mio colore preferito. Il colore dei suoi occhi, in cui quella notte avevo dimenticato l’anima. Quelle che sentivo erano frasi confuse. Concetti abbozzati, parole che mi arrivavano distanti e indefinite come la luce di un faro lontano che si perde nella nebbia. E diventa l’eco di una campana che si confonde tra i colori vivi di un tramonto impressionista.
Come un Twilight di Monet.
A lei non dissi nulla. Solamente, tornai nel letto e la svegliai. Mentre facevamo l’amore continuavo a pensare a ciò che era successo. Me ne andai promettendole che ci saremmo rivisti quella sera. E la rividi. Come ogni sera, nelle settimane successive. Era la donna dei miei sogni, sì, e ne ero innamorato perdutamente. In quel periodo cercai di capire cosa stava accadendo, senza farne parola con nessuno, per paura di essere preso per pazzo. Potevo entrare in contatto con qualunque oggetto verde volessi, bastava che lo toccassi. Imparai a controllare questa strana capacità sempre meglio. Capii che gli oggetti non hanno un’anima. Non pensano, ma ti raccontano. Non ti giudicano, ma ti rispondono. Le loro parole non erano più l’eco lontano di una campana nella nebbia, ma i ben definiti contorni di un mare di ricordi, sospesi tra un forse e una certezza, a volte nuvola di sensazioni sbiadite, a volte roccia di risposte compiute.
Come un Clear Ideas di Magritte.
Con le piante e l’erba era diverso: loro un’anima la hanno. Smisi di andare in campagna, o nei parchi. Non potevo più camminare su un prato senza sentirmi aggredito dai pensieri e i ricordi di migliaia di steli. Mi entravano in testa e mi sussurravano piano i miei segreti, quasi a rinfacciarmeli, come se sapessero tutto di me. Perché loro, capii, sanno tutto di chiunque li calpesti. Spesso feroci e pungenti, le loro parole si accavallavano e si intrecciavano, lasciandomi stupito e impaurito. E confuso.
Gli steli. La Medusa di Caravaggio.
Intanto, lei si era trasferita a casa mia. Era un’attrice, tra le più affascinanti e talentuose che avessi mai visto. Io l’amavo, e lei diceva di amarmi. Non le feci cenno di questo mio strano potere: temevo che non avrebbe capito, e che l’avrei persa per sempre. Temevo che ne avrebbe avuto paura, come in fondo ne avevo io stesso. Mi imposi di far finta di nulla e giurai che avrei smesso di parlare con gli oggetti verdi, che iniziai semplicemente a evitare, come evitavo piante e prati.
La mia vita. Un Green wheat fields di Van Gogh. Al contrario.
Poi conobbi lui. Andai a vedere la prima dello spettacolo di cui l’attrice che amavo era la protagonista: una Lady Macbeth perfetta. Vestito nero, pelle bianca, labbra rosse, rosse come quel sangue immaginario che non riusciva a lavarsi via dalle mani.
Lui era Macbeth. Un nuovo talento, giovane e bello come il sole. Mi unii a cena con la compagnia, e non potei non notare come la guardava. Come la corteggiava senza ritegno, quasi incurante della mia presenza. E non potei non notare quanto lei apprezzasse, arrossendo leggermente e sorridendo ambigua alle sue inopportune battute.
Lei. La Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer.
Iniziai a essere tormentato da un sentimento nuovo, crudele e inatteso: una gelosia folle che mi impediva quasi di vivere. Per placare quella bestia che mi divorava l’animo decisi di usare il mio nuovo talento, e mi scordai del giuramento. Le comprai una collana con uno smeraldo e le feci promettere di non separarsene mai. Ogni notte, quando tornava a casa, aspettavo che si addormentasse e accarezzavo lo smeraldo, chiedendo se lei mi avesse tradito. E la risposta era sempre la stessa: no. Persi l’abitudine di compiere quel bizzarro rito; mi sentivo terribilmente in colpa per spiarla in quel modo. Continuava a dire di amarmi, e io continuavo a crederle.
Poi, una settimana fa, rientrando a casa vidi la collana sul comodino. Era la prima volta, a mia memoria, che non l’aveva portata con sé. Spinto da una paura irrazionale l’afferrai e le feci la domanda che evitavo ormai da tempo: «L’hai vista tradirmi?».
E questa volta la risposta fu un sì.
Morii dentro non una ma mille volte mentre chiedevo con chi, e dove. Lui, Macbeth. A teatro. Me la stava portando via. Impazzivo nell’immaginarli assieme.
Loro due. Un Bacio di Klimt.
Non toccai più quella collana: non volevo sapere altro. A lei non dissi nulla. Non riuscivo più a sostenere lo sguardo dei suoi occhi verdi. Mi sembrava sempre più distante, sentivo che non era più mia.
Tre giorni fa ho manomesso la sua auto: ho tagliato i tubicini dove passa il liquido frenante. Prima di uscire di casa l’ho salutata con un bacio silenzioso, poi dalla finestra l’ho vista partire. E in quel momento ho capito che l’amavo più della mia stessa vita. La gelosia mi aveva reso folle. Ho provato a chiamarla, ma aveva il telefono staccato, così sono corso giù e ho preso la mia auto, per inseguirla. Per salvarla. Ma era troppo tardi: un camion l’aveva travolta a un incrocio. L’auto distrutta, in fiamme. Lei sbalzata fuori, a terra. Morta. Vestito nero, pelle bianca, labbra rosse. Rosse, come il sangue che l’avvolgeva. Gli occhi aperti e sbarrati. Verdi. Verdi, come quello scialle che mi fece scoprire per la prima volta il mio dono. La mia maledizione. Tra le lacrime lo sfilai delicatamente dal suo collo e come allora me lo portai al viso, per sentirne l’ultima volta l’odore. Il profumo di lei. Lei. Distesa sull’asfalto, di fronte a me. Morta.
Lei. L’Ofelia di Millais.
E oggi sono qui. Distrutto, al suo funerale. Tutti mi abbracciano e provano a consolarmi in ogni modo, leggono forse nei miei occhi un dolore infinito, quel dolore che a volte preannuncia la follia. Nessuno sa. Nessuno immagina che sono stato io a ucciderla. Nessuno. A parte il prato di questo cimitero. Ogni stelo d’erba mi giudica e mi sussurra che è colpa mia. Mi ricorda che è colpa mia. Solo mia. E mi dice che lei in realtà non mi ha mai tradito. Che mi amava. Un bacio di scena durante la prova di un nuovo spettacolo.
Gli oggetti non hanno anima. Non pensano, ma ti raccontano. Non ti giudicano, ma ti rispondono. Lo smeraldo l’ha vista baciarlo. Ma era solo un bacio di scena.
Gli steli, invece, un’anima la hanno, e sanno tutto di chiunque li calpesti. C’è anche Macbeth al funerale. Lo sanno da lui. Un bacio di scena. Nient’altro che quello.
Mille steli d’erba che mi tormentano l’anima.
Io. Un Urlo di Munch.