AKANE
mercoledì 04 dicembre
La maestosità dell’Argentina è straordinaria. Ancora una volta sono stupefatto dallo sfarzo con cui Roma presenta le sue eccellenze e le sue bellezze a chi ha la fortuna, se non il vero e proprio privilegio, di potervi posare gli occhi sopra.
Di quello che è stato uno dei più antichi e prestigiosi teatri d’Italia e del mondo, ricordo un’anonima facciata sporcata dai fumi dello smog e dai gas di scarico delle auto, circondata da strade trafficate che, di fatto, facevano del complesso archeologico al centro di Largo Argentina una grande rotatoria. Qui, invece, i palazzi a sinistra e a destra del teatro sono stati abbattuti per consentire un ampiamento della struttura. La facciata, restaurata, è ricoperta di marmi dalle sfumature verde acqua. La scritta Alle arti di Melpomene, di Euterpe e di Tersicore risalta, così come risaltano i bassorilievi, vuoi per la sapiente illuminazione, vuoi perché gli elementi sono stati ricoperti d’argento.
Davanti all’edificio non ci sono strade, ma un giardino che ingloba il complesso archeologico dell’Area Sacra, da cui parte un colonnato di marmo bianco che conduce all’ingresso dell’Argentina. Ai lati del parco vedo caffè, ristorantini e persino una libreria, tutti a tema artistico.
L’interno non è da meno. Marmi dalle sfumature dorate, velluti rossi, legni pregiati e un’illuminazione sofisticata e scenografica si fondono in un mirabile equilibrio che dona al teatro un’eleganza che mai ho visto prima. Anche la platea e i palchi li trovo diversi: sempre settecentoventi sedute, ma le poltroncine sono più larghe e comode. «E la visuale è perfetta in ogni ordine di posti» aggiunge Sergio.
Sembra più tranquillo, ora. Quando è tornato a casa e ha visto davanti al cancello le auto di carabinieri e pretoriani, ha capito subito che non era stata un’intrusione occasionale, un tentativo di furto in casa perpetrato da una banda di ladruncoli. Appena gli ho detto che i tribuni sospettano dei giapponesi e che la casa è stata messa sotto sorveglianza si è preoccupato molto; non ricordo di averlo mai visto così turbato. Mi ha domandato cento volte se avessi iniziato a ricordarmi qualcosa, e da come mi guardava sospetto che in lui si sia insinuato il dubbio che io sia davvero coinvolto in quel dannato attentato. Alla fine, ci siamo sostanzialmente ignorati fino all’ora di prepararci per la serata.
Siamo entrambi elegantissimi; Sergio mi ha prestato un cappotto e uno dei suoi completi firmati, una camicia, una cravatta e un paio di scarpe. Si è sentito con Iris, nel pomeriggio: il programma è di cenare tutti assieme dopo lo spettacolo, il cui inizio è previsto per le otto di sera. Siamo arrivati con l’auto del mio amico, seguiti da quella dei pretoriani. Durante il viaggio abbiamo parlato poco e nulla.
Visto e considerato che con i soldi che ho posso permettermi tutti gli alberghi che voglio, gli ho comunicato la mia intenzione di andarmene, entro un paio di giorni al massimo. Lui ha risposto che non gli arreco il minimo fastidio e che anzi ospitarmi è un piacere. Ma per quanto si sia sforzato di apparire convincente, la fermezza dei miei propositi lo ha sollevato. Alla fine, mi ha addirittura consigliato di tornare nella magnifica villa che ho a Palermo.
Andarmene da casa sua è la scelta migliore. Inutile girarci attorno: questo Sergio non è l’uomo che conosco, e io non sono l’uomo che conosce lui. In più, ho bisogno di stare tranquillo, di capire: per tutto il giorno mi è tornata in mente l’immagine di Rojas seduto accanto a me sullo Zeppelin. E così questa serata a teatro ci è sembrata un toccasana, un rimedio miracoloso per lo stress che ci portiamo entrambi dietro. Da quando abbiamo messo piede nel magnifico giardino di Largo Argentina sembriamo rinati, e abbiamo ripreso a sorridere, come se tutti i problemi fossero rimasti fuori dal luogo magico in cui ci troviamo.
In fondo, non è proprio per questo che l’uomo ha sempre avuto bisogno dell’arte? Nel corso dei secoli, gli esseri umani, in ogni parte del mondo, hanno sempre sviluppato forme d’arte capaci di far dimenticare, anche solo per un’ora o due, le brutture e i problemi della vita. A volte storie leggere, vere e proprie commedie; altre volte tragedie ancora più crude e terribili di quelle che le persone comuni siano solite vivere, o abbiano mai vissuto.
Fuori dal teatro ci sono diversi uomini – e anche un discreto numero di donne, a onor del vero – che indossano eleganti toghe e tuniche romane. Una maschera gentile ci accompagna fino al palco dove Iris ci ha riservato i posti: il numero 8 del quarto ordine, quello più in alto dei palchi centrali. Ci sono due file da tre poltroncine, e noi prendiamo posto in quella più alta, Sergio a sinistra, io al centro. Prima dell’inizio della rappresentazione facciamo la conoscenza degli spettatori con cui dividiamo il palco. Davanti a noi sono seduti un paio di senatori e la moglie del più giovane dei due. Non mancano di complimentarsi per i miei romanzi e il mio grande talento visionario. Ringrazio, un po’ intimidito da attenzioni a cui non sono abituato, e rispondo che non mi reputo certo un grande artista; semmai un fortunato intrattenitore, un imbonitore con una florida vena fantasiosa.
Una voce femminile calda e profonda ruba la scena alla musica classica che ha riempito l’aria fino a ora, e annuncia che lo spettacolo inizierà da qui a un minuto: è il momento che tutti si siedano e facciano silenzio.
Ed è in questo momento che entra l’ultima occupante del nostro palco: una giovane donna dalla carnagione olivastra e dai lineamenti orientali. Una bellezza magnetica ed esotica, esaltata da un elegante abito da sera dai colori accessi e da gioielli vistosi. Il suo profumo speziato sa d’oriente e ha in sé qualcosa di dannatamente erotico. La donna sorride e mi si siede accanto. Un istante dopo, ecco che si apre il sipario.
Buio. Tuoni, lampi, il fragore di una tempesta. E poi una pioggia violenta si riversa sul palco, al centro del quale, improvviso, si accende un fuoco che illumina un bosco spettrale, spazzato dal vento. Entrano le streghe.
Quando incontrarci potrem, sorelle
Noi tre, fra tuoni, lampi e procelle?
Le streghe si muovono attorno a fiamme che danzano come odalische, spinte da un vento di cui si sente il sibilo fin dal palco. La pioggia battente non spegne quel fuoco, anzi, sembra alimentarlo.
Quando sia spenta la furia avversa,
Quando la pugna sia vinta e persa.
Osservo la prima scena del primo atto con il cuore in gola, rapito da tanta bellezza e dal realismo di ciò che vedo. L’acqua della tempesta, il fuoco del bivacco, il vento che scuote ogni cosa, la terra che sostiene gli alberi del bosco… sembra che i quattro elementi siano comparsi sul palco per servire la mia anima, per bagnarla, bruciarla, sferzarla e sotterrarla sotto il peso di mille emozioni. Dura tutto solo pochi istanti, poi il sipario si chiude. Buio. Uno, due, tre secondi e si riapre sull’interno di un castello antico e maestoso. La sala reale, le trombe che squillano. Re Duncan, Malcom, Donalbain, Lennox, gli altri personaggi…
«Mio dio, ma come hanno fatto? Come hanno fatto in tre secondi a far scomparire la scena che stavo vedendo e a far apparire… tutto questo? Non è possibile» ripeto mentre, assieme ad altre settecento persone, mi ritrovo in piedi ad applaudire e a spellarmi le mani, estasiato dallo spettacolo a cui ho il privilegio di assistere.
Neanche un minuto e sono già certo che questo sarà uno dei migliori spettacoli teatrali visti in vita mia. Non vedo l’oro che entri in scena anche Lady Macbeth, per godermi Iris recitare: sommetto che sarà bravissima.
Torna il silenzio; mentre ci risediamo la donna orientale mi infila una mano nella tasca della giacca. Poi sorride, si porta un dito sulla bocca – come a suggerirmi di tenere segreto quel suo strano gesto – ed esce. Tiro fuori dalla tasca un bigliettino ripiegato. Penso a un’ammiratrice, e che quel foglietto contenga una dichiarazione d’amore, se non un vero e proprio appuntamento galante. L’idea di un incontro clandestino a sfondo sessuale, magari da consumarsi nei bagni, colpisce a tal punto la mia fantasia da eccitarmi. Lancio una fugace occhiata alla mia sinistra, e quando sono certo che l’attenzione di Sergio sia dedicata solo allo spettacolo, apro il foglio.
Scenda al pianterreno e mi raggiunga al caffè del salone. Non mostri questo biglietto a nessuno e faccia esattamente ciò che le dico: c’è un cecchino appostato.
Rileggo il biglietto due volte, mentre un piccolo puntino rosso mi balla sulla mano. Il cecchino c’è davvero, e il puntatore laser indica che mi sta tenendo sotto tiro. Mi sento mancare l’aria. L’eccitazione di poco fa ha lasciato il posto a sconforto e paura. Mormoro a Sergio che devo andare in bagno e mi dirigo agli ascensori.
Raggiungo il caffè e lo trovo quasi deserto: un cameriere intento a sistemare la sala, un barista che pulisce il bancone. E poi c’è lei, la donna misteriosa; è seduta al tavolino più defilato, da sola.
«Signor Resti, prego» dice. «Posso offrirle un caffè? Sono una sua grandissima ammiratrice, sa?» aggiunge, quando mi accomodo di fronte a lei. «Cameriere, due caffè» conclude, senza aspettare che le risponda.
«Chi è lei? Cosa vuol dire questo?» sibilo, mettendo sul tavolo il biglietto.
La donna lo prende e lo fa in tanti piccolissimi pezzettini che infila distrattamente nel cestino getta carta del tavolino. Quando ha finito, allunga una mano verso la mia. «La prima cosa che deve tenere a mente è che io e lei stiamo flirtando: io sono una sua ammiratrice e lei vuole sedurmi. Quindi mi prenda la mano e l’accarezzi, sorrida e mi parli sussurrando, come se ci stessimo scambiando effusioni amorose o promesse proibite. Chiaro?»
«Chiarissimo» rispondo.
«Chi sono io non ha nessuna importanza. Voglio sapere dove si trova Rojas e se lei sa quanto e come è implicato nell’attentato.»
«Ancora con questo attentato? Io non ne so nulla. L’ho già detto ai tribuni della guardia pretoriana.»
«Non giochi a fare l’ingenuo con me, Resti. Forse potrà buggerare i tribuni della guardia pretoriana, non noi. Sappiamo che lei e Rojas siete tornati assieme da Palermo. Sono due giorni che la seguiamo e che… ora sorrida al cameriere, ordini una bottiglia di spumante della Gallia e lasci una buona mancia.» La donna si lascia andare a un risolino. «Oh, ma non mi dica!» fa, con un’inaspettata voce civettuola. Sembra un’attrice consumata anche lei.
«Ecco qui, sono cinquemila lire» sorride il cameriere, posando i caffè sul tavolo.
Tiro fuori il portafoglio dal borsello. «Vorrei anche una bottiglia di spumante della Gallia.»
«Ma certo signore. Vuole che le porti la carta?»
«No. Faccia lei» taglio corto.
«In questo caso le consiglierei un Cristal Brut Gallicum di Louis Roederer, del 2009.»
«Va benissimo. Pago subito: quanto devo?»
«Trecentomila lire, signore.»
Ne lascio trecentocinquanta, dicendo che può tenere il resto. Quando si allontana, afferro l’avambraccio della donna. «Lei è una spia dei giapponesi, vero? Mi avete seguito l’altra sera, quando sono uscito con Iris, e siete entrati in casa di Sergio.»
Lei mi sorride, enigmatica,
«Cosa diavolo volete da me?» continuo.
«Stia calmo. Faccia un bel respiro e si rilassi. Le ricordo che c’è un cecchino e che è pronto a sparare alla sua Iris. O al suo amico Sergio.»
Appena le lascio il braccio, la donna intreccia le dita della mano nelle mie. Poi avvicina la sedia per venirmi accanto. A guardarci, in effetti, dobbiamo sembrare proprio due sconosciuti che stanno flirtando.
«Vogliamo sapere dove si trova Rojas» sussurra la donna. «Vogliamo sapere dove si nasconde lo spagnolo.»
Non rispondo e lei, come se nulla fosse, mi bacia sul collo. «Vogliamo sapere cosa sa lei dell’attentato» continua, mordendomi l’orecchio, «e se quel pazzo del suo amico scrittore è implicato nel furto del Ceo.»
Rimango a fissarla, inebetito tanto dal suo comportamento che dalle sue domande, per le quali non ho risposte.
Intanto, il cameriere è tornato con un vassoio. Sistema al centro del tavolo un cestello pieno di ghiaccio, di fronte a noi due calici di cristallo. Poi apre lo champagne e, con fare cerimonioso, ne versa un po’ nei bicchieri. Quindi, adagia la bottiglia nel cestello e se ne va, mentre noi brindiamo al nulla e facciamo finta di sorridere.
Quanto è buffa, a volte, la vita. Appena qualche minuto fa mi sono eccitato al pensiero di poter vivere un’avventura con la donna che ho di fronte, e ora che stiamo brindando assieme vorrei esserle lontano anni luce.
«Rojas… tutti lo cercano. Lo chieda ai suoi amici repubblicani dove si trova, non a me» dico, a denti stretti.
Intanto, un paio di uomini di una certa età entrano nel salone. Sono molto eleganti, e si dirigono al bancone. Mi chiedono se siano spie anche loro.
La donna misteriosa fa un sorso dal calice, poi mi bacia ancora sul collo. «Resti, non mi prenda in giro» sussurra, «o le giuro che sarà l’ultimo errore della sua vita. I rapporti tra gli Imperi non sono mai stati così buoni, e al di là delle scaramucce sui confini nessuno vuole rischiare una guerra. Un attentato riuscito a Marzio Marcello sarebbe una catastrofe. Non ha figli: e questo vuol dire lotte per la successione. E se il nuovo Imperatore romano dovesse vedere male l’attuale situazione di pace con l’Impero giapponese? Noi non siamo legati ai repubblicani: loro sono nostri nemici. Noi vogliamo sapere se Rojas sta progettando altri attentati.»
«Non ne ho idea» mormoro. «Lo giuro.»
«Dove si trova adesso lo spagnolo?» fa lei, continuando a baciarmi. «È stato lui a rubare il Ceo?»
«Non so di cosa sta parlando.»
«Sappiamo che Rojas il giorno dell’attentato era a Palermo. Sappiamo anche che vi siete visti. È venuto a casa sua.»
«Le ripeto che non so nulla. Ascolti, c’è una cosa che le devo dire» cedo. Non posso continuare a sostenere una conversazione a senso unico. Devo dirle la verità, esattamente come ho fatto con i tribuni militari.
«Va bene. Andiamo a fumarci una sigaretta in balcone, le va?» chiede la donna. Due minuti e siamo fuori, da soli. Un calice in una mano, una sigaretta accesa nell’altra. Le racconto tutto, aspirando con ferocia aspre boccate di fumo. Non le dico solo del numero di telefono e che ho ingaggiato un investigatore per trovare lo scrittore spagnolo. Sul resto sono sincero, e le confesso anche che ritengo di venire da un’altra dimensione, dal mondo dei miei romanzi. Aggiungo che sì, ho viaggiato assieme a Rojas, sabato, ma che non avevo idea di chi fosse: non lo avevo neanche riconosciuto. Poi mando giù lo champagne, poso il bicchiere e mi accendo un’altra sigaretta. Penso al cecchino e prego di essere stato convincente, perché in caso contrario, se costei avesse il dubbio che la sto prendendo in giro…
La sua reazione mi spiazza. Posa anche lei il bicchiere e appoggia le mani alla ringhiera del balcone, come a voler osservare il giardino dell’Area Sacra e lo spettacolo offerto dalle luci che lo incorniciano. Poi inclina leggermente il viso e scuote la testa. «Rojas! Che figlio di un demone» dice.
Rimane così per un po’, immobile. Alla fine, mi si avvicina. «Noi non ci incontreremo più. Lei non può più aiutarci, signor Resti. Mi dispiace davvero molto per quello che le è successo; qualunque sia stato il suo ruolo in questa storia, ora lei è una vittima. Solo una vittima. Se qualcuno le dovesse chiedere di me, sono una misteriosa ammiratrice che lei ha provato a sedurre. Un’unica raccomandazione, che vuole essere anche un prezioso consiglio: si scordi di Rojas e di questa storia. E, per quel che può, cerchi di godersi la sua vita. In fondo è un uomo ricco e famoso. Poteva andarle peggio. Molto peggio.»
«Cosa vuole dire che sono una vittima? Lei sa cosa mi è successo? Lei sa come posso tornare indietro?» chiedo, afferrandola per un braccio. Intanto, tre giovani ci raggiungono sul balcone. Dai vestiti capisco che si tratta di inservienti del teatro, usciti a prendersi una boccata d’aria.
La donna mi stringe e mi bacia, in modo sensuale, appassionato. «Addio, grande scrittore» sussurra, dopo aver staccato le labbra dalle mie. Poi si allontana con passi leggeri. «Grazie per lo spumante gallico, signor Resti. È stato un piacere conoscerla. Il mio nome, comunque, è Akane» conclude sulla soglia della porta, ad alta voce, per farsi sentire dai ragazzi, che guardano lei con infinita bramosia, me con tutta l’invidia del mondo.
Vedo Akane allontanarsi, mentre i complimenti e gli apprezzamenti dei ragazzi mi arrivano lontani, come da un altro mondo. La testa mi scoppia; no, non ce la faccio a tornare a sedere. Entro nei bagni del salone del caffè, che per fortuna trovo vuoti, e rimango non so quanto lì dentro, a sciacquarmi il viso e a riflettere.
Non so cosa sia successo e in che guaio sia finito il mio alter ego, ma una cosa è certa: l’unico modo che ho di uscirne è tornare da dove sono venuto. E al contempo devo fare in modo di allontanarmi da Sergio e Iris, per il loro bene: Akane ha minacciato anche loro. Mi chiedo se Akane sia il suo vero nome… figuriamoci. Mi chiedo anche cosa volesse dirmi, quando mi ha chiamato vittima. In ogni caso, anche se avesse le risposte che cerco, non saprei come rivederla.
Appena esco dal bagno vado al caffè a comprarmi un pacchetto di gomme e una bottiglietta d’acqua. Poi prendo l’ascensore e torno a sedere.
«Ma dove cazzo sei stato?» bisbiglia Sergio, appena entro. «Mi stavo preoccupando, sono anche venuto a cercarti, e sai che mi hanno detto, giù al caffè? Mi hanno detto che ti trovavi in compagnia di una donna. Una donna bellissima. Una strafiga, a voler utilizzare il termine del ragazzo al bancone. Cosa diavolo combini?»
Faccio segno al mio amico che gli spiegherò tutto dopo e mi concentro sulla rappresentazione. O quel che ne rimane. L’ultimo atto è appena iniziato: Lady Macbeth si sta strofinando le mani, come se con quel gesto ossessivo riuscisse a lavar via il sangue immaginario e a ripulirsi l’anima.
Via maledetta macchia! Via, dico! Uno… due… ecco, è il momento di farlo! Dite che l’inferno è buio?
Il simbolo femminile del senso colpa, il Raskolnikov in gonnella. Iris è davvero brava, ma non riesco a godermi la sua interpretazione. Così come non riesco a godermi il finale del Macbeth. Troppi pensieri per la testa, troppe paure. Ho solo una certezza: devo allontanarmi da Sergio e Iris.
Qualunque cosa abbia combinato il mio alter ego, adesso nei guai ci sono finito io. E se un cecchino è arrivato a tenermi sotto tiro, starmi vicino non è salutare.
Mi viene una mezza idea. Tra le poche cose che io e Sergio ci siamo detti in auto, questo pomeriggio, una su tutte ha catturato la mia attenzione: lui a Iris ci tiene davvero molto, e quando il mio alter ego ha deciso di rompere con lei, ci è rimasto male. Se c’è un aspetto di tutta questa storia che il mio amico considera positivo è che io e l’attrice abbiamo avuto una sorta di seconda possibilità. È giunto il momento di disilluderlo.
Quando il sipario si chiude per l’ultima volta Sergio mi prende per un braccio e mi trascina nel bagno.
«Allora?» fa lui.
«Allora cosa?» rispondo io.
«Cos’è questa storia?»
«Quale storia?»
«Siamo qui per Iris e tu non vedi lo spettacolo per via di una sconosciuta?»
È il momento di recitare la mia parte. In fondo siamo in un teatro, quale luogo più adatto? «Hai visto quanto era figa? Mi ha detto di raggiungerla al caffè che voleva conoscermi meglio. Le ho offerto una bottiglia, e poi…»
«E poi?» Sergio è diventato tutto rosso.
«E poi niente. Me la sono scopata nel bagno. Qualche problema? La cosa ti infastidisce?»
Il mio amico apre un rubinetto e si sciacqua il viso. «Fra mezz’ora dobbiamo vederci con Iris» fa, con una voce spettrale. «Come dovrei comportarmi? Cosa dovrei dirle, secondo te?»
«Niente. Non devi dirle niente» rispondo, con tutta la cattiveria di cui sono capace. Poi gli vado davanti, piantando la mia faccia a un centimetro dalla sua.
«Ascolta: primo, io e lei non stiamo assieme. Secondo, con chi scopo io non sono cazzi tuoi. Chiaro?»
Sergio accusa il colpo. Indietreggia di qualche passo e mi guarda come se fossi uno sconosciuto. Nei suoi occhi c’è un velo di tristezza, un accenno di paura. Mi dispiace per lui, ma date le circostanze, questa è la scelta migliore che ho.
«Non torno ad Anagni con te, stasera. Vado in albergo. E smettila di preoccuparti per me, che non sono un ragazzino. Che poi… di chi sei amico, tu? Mio o di Iris?»
«Il fatto è che siete entrambi cari amici» risponde. «E non me la sento di mentirle, mi dispiace. Non ti riconosco più. Forse è meglio che me ne torni a casa.»
«Ecco sì, forse è meglio» dico, senza guardarlo. «Iris te la saluto io» aggiungo. Sergio fa qualche passo verso l’uscita. Si ferma sulla porta, indeciso se dirmi ancora qualcosa. «Ci vediamo, statti bene» concludo, con il tono di chi vuole chiudere il discorso. Si volta, senza rispondermi nulla.
Esco dal bagno con una sola idea in testa: devo scaricare anche Iris; se le succedesse qualcosa per colpa mia non riuscirei mai a perdonarmelo. Siamo rimasti che ci saremmo incontrati nel caffè una mezz’ora dopo lo spettacolo. Certo, potrei andarmene via senza dire nulla, o potrei lasciare un biglietto da farle recapitare. Ma voglio salutarla, vederla ancora una volta. In fondo, anche se andassimo a cena assieme, cosa le potrebbe mai accadere?
Quattro ore dopo sono sdraiato nel suo letto. Iris si è addormentata con la testa appoggiata sulla mia spalla.
Continuo a ripetermi che sono un idiota. Un idiota e un egoista. Ripercorro mentalmente i nostri discorsi, cercando di capire dove, quando, e con quali parole mi sarei dovuto congedare per andarmene. Mi ripeto quelle parole, immagino quelle scene, come se riuscire a modificarle nella mia testa potesse cambiare il corso degli eventi, a partire da quando ci siamo visti nel caffè.
«Allora? Ti è piaciuto?»
«Certo, sei stata fantastica.»
«Dov’è Sergio?»
«È dovuto rientrare ad Anagni, si sentiva poco bene.»
«Oddio, cos’ha?»
«Nulla di grave, solo un po’ di mal di testa. Sai, è rientrato oggi da Milano, per lui è un periodo pieno, questo.»
«Ma tu ceni con noi, vero?»
Ecco, a questo punto avrei dovuto dirle che non era possibile, inventarmi una scusa.
“No, mi dispiace. Ora devo andare anche io, ho avuto un piccolo imprevisto. Volevo solo salutarti e complimentarmi. Ti chiamo domani. Promesso.”
Avrei dovuto dire così. E invece… Dio, quant’era bella. E il suo sorriso, poi. Era felice che la fossi andata a vedere a teatro. Felice come una bambina.
«Sì, certo che ceno con voi.»
Mi ha confidato che prima dell’incidente, come chiama la mia perdita di memoria, non assistevo mai ai suoi spettacoli. Al massimo ci vedevamo dopo, da soli. E non avevo mai voluto conoscere i suoi colleghi.
Sì, era davvero felice. Quel mio cambiamento la faceva splendere come un raggio di sole. Le sembravo diverso, migliore, e così mi ha proposto di andare a cena con la compagnia, al ristorantino davanti al teatro. Cucina tipica romana. Gli attori, il regista, qualche tecnico.
Hanno parlato dello spettacolo e della serata, scambiandosi impressioni e consigli. Poi qualcuno mi ha chiesto da dove prendo ispirazione per i miei romanzi, e se il mondo terrorizzante e le storie terribili di cui narro siano frutto di visioni indotte dall’uso di qualche sostanza psicotropa. Nel caso, volevano sapere quale. Qualcun altro mi ha chiesto anticipazioni sul mio ultimo romanzo, quello scritto con Rojas. Volevano conoscerne la trama, e quando sarebbe uscito.
Ho risposto che non sono solito assumere droghe: ho solo una grande fantasia, nient’altro. E che preferisco mantenere il massimo riserbo sulla mia ultima fatica. Iris ha messo fine al discorso dicendo che non amo essere posto al centro dell’attenzione, e ha invitato tutti a non mettermi in imbarazzo con ulteriori domande su di me o i miei romanzi. Si è parlato d’altro, e le conversazioni si sono spostate inevitabilmente sull’argomento più in voga: lo sbarco sulla Luna.
Per questa notte è previsto il lancio del modulo lunare, dalla base campana di Capo Carnevale. Quasi tutti hanno pronosticato un grande successo, e uno degli attori ha proposto di tirare tardi a casa sua, per vedere la diretta del lancio. Iris ha declinato. Aveva altri programmi per noi due.
«Allora, ti sei divertito?»
«È stata una bellissima serata. Ottima cena, ottima compagnia. Sono simpatici i tuoi colleghi.»
«Rimani da me stanotte, ti va?»
“No, mi dispiace. Vorrei tanto, ma non credo che stasera sia il caso. Ti chiamo domani. Promesso.”
Avrei potuto ancora risponderle in quel modo.
E invece… invece le sue labbra hanno sfiorato le mie, e il suo profumo mi ha ricordato la notte trascorsa assieme. Un ricordo che era più di una promessa di felicità. Il miglior ricordo che ho da quando mi sono risvegliato in questo dannato mondo.
«Certo che mi va. Che domande sono?»
Mi addormento accarezzandole i capelli, maledicendomi per non avere avuto il coraggio di dirle no.