NADINA CASTELLETTI
lunedì 02 dicembre
Mi sveglio nella stanza degli ospiti di Sergio con la testa pesante di chi ha bevuto troppo. Dalla finestra filtra un po’ di luce, e mi chiedo che ore siano. Devo procurarmi un orologio. Mi alzo, scanso le tende e mi affaccio, con la segreta speranza di trovare la mia vecchia Ford parcheggiata fuori, pronto a cercare qualche giustificazione logica per lo strano sogno vissuto. E invece no, non è cambiato nulla. Nel vialetto c’è la Ferrari; deve averla fatta portare qui la mia ex moglie. O forse è stato Sergio; poco importa.
I ricordi della sera passata mi assalgono, e mi ritrovo in bagno a vomitare. Ho assistito a delle vere e proprie esecuzioni, ma la cosa peggiore è che mi sono inebriato di quel sangue, trascinato dalla foga di centomila persone. Cerco di farmi scivolare via tutto con una doccia, ripetendomi che nulla di quanto sto vivendo è davvero reale, poi scendo.
Sergio vive in una reggia; al posto del palazzo dove prima aveva un piccolo appartamento in affitto, ora sorge una villa enorme. Il salone è sfacciatamente lussuoso, arredato con gusto: tappeti e mobili pregiati, tavolini di vetro e metallo dal design particolare, un divano di pelle, di fronte al quale c’è un televisore da 80 pollici. Un imponente orologio da parete, che sembra essere stato ricavato dalla sezione del tronco di un albero secolare, segna le dieci del mattino.
«Desidera qualcosa, signore? Vuole fare colazione?» fa una voce alle mie spalle.
Mi volto. C’è un uomo, sulla cinquantina, vestito come un domestico dei vecchi film. Non mi aspettavo di trovarmelo dietro, e gli abbaio contro un: «E tu chi diavolo sei?».
«Sono Adelmo, il maggiordomo del signor Sergio. Non mi riconosce, vero? Non si deve preoccupare: il signore mi ha messo al corrente di tutto quanto. Mi scuso se l’ho spaventata, pensavo mi avesse sentito arrivare.»
Sergio ha anche un maggiordomo, dunque? In effetti ricordo che ieri sera, mentre mi mostrava la stanza, ha accennato qualcosa riguardo al fatto che se mi fossi alzato tardi ci avrebbe pensato Adelmo a fare gli onori di casa. Ma ero troppo stanco, mezzo ubriaco e scosso da ciò che avevo visto, e ho completamente rimosso la conversazione.
«Un caffè lo prenderei volentieri» ammetto. «Se ci sono anche un po’ di latte e un paio di biscotti sono a posto, sempre che non sia troppo disturbo. Sergio è in casa?»
«No, è uscito presto; questa mattina aveva un impegno. Mi consideri a sua completa disposizione» risponde Adelmo. Poi scompare dietro a una porta che, immagino, conduca in cucina.
Un maggiordomo gentile, impeccabile, discreto e silenzioso che sembra uscito da un film di altri tempi. Anzi, da una pellicola, come direbbero qui. Mi chiedo che altre sorprese riserverà la giornata. Mi accomodo sul divano e prendo il telecomando. È di metallo, come quello che ho visto in ospedale.
Mentre me lo rigiro tra le mani, mi viene un dubbio. Cerco con lo sguardo qualcosa di plastica. Tutto ciò che trovo dopo un’attenta ispezione del salone sono alcuni componenti del televisore e delle casse dello stereo. Per il resto, gli oggetti che osservo sono composti per la maggior parte di legno e metallo, lavorati con estrema perizia e maestria. Certo, potrebbe essere del tutto normale, visto e considerato che mi trovo in un ambiente lussuoso e arredato con cura. O forse no. Quando Adelmo riappare in salone gli indico gli inserti in plastica e la montatura dei miei occhiali: voglio sapere di che materiale sono.
«Plastica di mais, signore. La migliore sul mercato. La stessa con cui è fatta la sua borsa da viaggio con rotelle di colore viola.»
«Il petrolio viene estratto ancora?»
«Immagino di sì, signore. Per usi militari. Vuole che le apparecchi qui o in biblioteca?»
«In biblioteca, grazie.»
Seguo il maggiordomo in una stanza dove a farla da padroni sono ancora lusso sfrenato ed eleganza, ma di un gusto diverso da quello del salone. Nella biblioteca a predominare è il legno, di colore rosso scuro, per lo più. Oltre a un angolo bar che sembra parecchio fornito, tra gli scaffali pieni di volumi spicca un grande televisore, davanti al quale ci sono una scrivania e una poltroncina di pelle marrone. Su una parete noto un crocefisso di legno.
Mi chiedo che rapporti ci siano tra Impero e Chiesa, e giro la domanda ad Adelmo.
«In realtà è tutto molto semplice» fa lui, con un sorriso. «Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio!»
«Certo, capisco» rispondo. In realtà no, non ho capito nulla. La verità è che ci dovrei passare settimane, se non mesi, a studiare il mondo in cui mi trovo. Le sue leggi, i suoi rapporti di forza, la sua storia. L’estetica imperiale, ad esempio, così sfacciatamente marziale, con tutte quelle statue che esibiscono saluti romani… ma tutto questo con il fascismo che conosco io non ha molto a che fare: ieri al Colosseo nei posti riservati alla gente che conta del primo anello – e nei palchi adiacenti al nostro – ho visto tanto persone di colore con abiti esotici quanto islamici ed ebrei con la kippah. A volte seduti accanto, conversare amabilmente. Senza contare le decine di coppie di uomini e donne che ostentavano la propria omosessualità con una naturalezza decisamente superiore a quella cui sono abituato, una naturalezza che mai potrei trovare nel mio mondo.
Immagino che le dinamiche socioculturali che regolano la vita di questo moderno Impero Romano siano tanto intriganti quanto complesse, ma non ho né il tempo né la voglia di studiarle; devo capire come sono finito qui e soprattutto come andarmene: per quanto il mondo in cui mi trovo sia affascinante – e per quanto la versione di me stesso che lo abita sia, a quanto pare, ricca e famosa – sento che non è il mio. E una società che permette spettacoli gladiatori cruenti e feroci come quello a cui ho assistito ieri mi terrorizza.
O forse a terrorizzarmi è stata la mia reazione entusiasta al sangue versato sull’arena. Mi concentro su altro e lancio un’occhiata alla libreria, mentre Adelmo apparecchia il tavolo di legno pregiato che fa bella mostra di sé al centro della sala. Accolgo con un certo stupore uno scaffale con una mezza dozzina di titoli, tutti firmati da me. Davanti ai libri un’elegante cornice con una foto dove io e Sergio, più giovani di una decina d’anni almeno, posiamo facendo smorfie buffe di fronte a un tavolo da biliardo; sullo sfondo palme, una spiaggia e delle giovani dalla carnagione scura che mostrano il seno scoperto.
«Diavolo» mormoro, mentre prendo i volumi e li sistemo su una metà del tavolo; l’altra metà Adelmo l’ha coperta con una tovaglia e apparecchiata con piatti, posate, una bottiglia d’acqua e diverse caraffe con dentro succhi di vari gusti e spremuta d’arancia fresca.
C’è Checkpoint Charlie, naturalmente. L’ho scritto nel 2009, a quanto pare. Un altro, Social Diktat, ha sulla copertina, un’immagine per me assolutamente familiare e comune: dei ragazzi seduti a tavola, dentro un locale. Ognuno ha in mano uno Smartphone, e guarda lo schermo come ipnotizzato, senza fare caso a chi gli sta attorno. Fuori dal grande finestrone del locale si intuisce una Roma decadente, con monumenti anneriti dallo smog e cumuli di spazzatura ammucchiati nelle strade. Leggo la quarta di copertina.
«David Resti ci offre l’ennesimo, inquietante spaccato dell’universo parallelo che ha creato e plasmato con i suoi fortunati romanzi, prestando ancora una volta un’attenzione particolare agli aspetti sociologici, oltre che a quelli politici. Generazioni perdute dentro universi virtuali, incapaci di discernere tra realtà e finzione.
«Rapporti sociali e vite che si consumano e bruciano all’interno del mondo fittizio dei così detti social network. Un mondo terrorizzante, freddo e cupo, dove nulla ha senso se non viene condiviso nella rete tramite un seflie. E, sullo sfondo di tali follie, una società sul punto di disgregarsi e una Roma che sembra uscita da un infernale girone dantesco. Da Social Diktat è stata tratta anche la fortunata serie televisiva Tecnocrazia.»
Poi c’è un romanzo intitolato Virus Globale, mentre l’ultimo libro che ho scritto è uscito da appena qualche mese e si intitola Da Kiev a Gaza, l’inferno in terra. Non ho bisogno di leggere le quarte per immaginarne le trame. Qualunque sia l’universo in cui mi trovo, ciò che a me sembra normale qui è trattato come se fosse un film horror. Come dargli torto?
«La colazione, signore.»
Adelmo entra con un carrello e mi serve una colazione pantagruelica. Caffè, latte, cappuccino, tè, confetture, dolci, cornetti e biscotti di ogni tipo da una parte; uova, bacon, salumi, funghi, verdure, pane tostato e sushi dall’altra. Ringrazio, quasi imbarazzato per una tale abbondanza.
È tutto ottimo, e mentre mangio ripenso alla cena della sera precedente, consumata durante le corse delle bighe. Anche quella era squisita. Sergio mi ha detto che il cibo qui è biologico. Nei miei romanzi, ha aggiunto, parlo di cibi chimici, industriali, lavorati con pesticidi e altri prodotti tossici e poco salutari.
«La colazione è di suo gradimento?» chiede Adelmo, strappandomi ai miei pensieri.
«Va benissimo, grazie mille. È tutto eccellente. Puoi darmi del tu, se vuoi. Non ti siedi a farmi compagnia?»
Il maggiordomo si irrigidisce un po’ e inarca il sopracciglio destro in segno di disappunto: «Sono a posto, grazie».
Alzo le mani e sorrido. Meglio comportarmi come se nulla fosse e continuare a recitare la parte che mi è stata assegnata in questa commedia surreale. Finisco la colazione e continuo a studiare i miei romanzi. Leggo prefazioni, postfazioni, quarte di copertina e bandelle. Eventi storici, innovazioni tecnologiche, mode, la pandemia, le guerre: tutto è esattamente come dovrebbe essere e come lo ricordo. Solo che qui sono romanzi, non la realtà. Sembra che io sia uscito da questi libri di cui, nel mondo in cui mi trovo, sono l’autore. Mi chiedo se sia possibile. Razionalmente, non dovrebbe. Eppure, non trovo una spiegazione migliore.
Torno nella mia stanza e svuoto il trolley, rovesciandone il contenuto sul letto: voglio controllare il bagaglio, in cerca di non so neanche io cosa. Ci sono solo vestiti, ma questo lo sapevo già, visto che l’ho aperto in aeroporto, alla ricerca del telefono e del portatile. Mi accorgo che slip, calzini, t-shirt, jeans e camice non sono i miei. Simili a quelli che avevo, degli stessi colori magari, ma di marche a me sconosciute, mai sentite prima. Passo al portafoglio. Oltre alla patente e alla carta d’identità ci sono diverse banconote; lire, non euro. Circa un milione e trecentomila. Negli inserti ci sono delle tessere con sopra i nomi di una palestra, una piscina e un circolo culturale palermitani, una tessera sanitaria, una carta di credito della Banca Nazionale dell’Impero. Non c’è nient’altro.
Apro il borsello. Il carica batterie del cellullare, il carica batterie del computer portatile e le cuffiette sono scomparsi. Ci sono ancora la custodia degli occhiali, un pacchetto di cartoncino rigido con dentro dei fazzolettini di carta, l’agenda e il passaporto, che però ha diversi timbri in più: i timbri delle province. Qui devo essere uno che gira parecchio, tra nord Africa e Caraibi. Completano il quadro un pacchetto di sigarette morbide con sopra scritto Le Imperiali e uno zippo d’argento con incisa sopra l’aquila imperiale.
La cosa più interessante è l’agenda. Sembra nuova, devo averla comprata a Palermo, dove a quanto mi ha spiegato Sergio mi sono trasferito definitivamente da qualche settimana. Gli appuntamenti segnati sopra partono dall’15 novembre e riguardano nomi e indirizzi palermitani che non mi dicono nulla. I fogli relativi ai due giorni precedenti al mio arrivo a Roma, invece, sono stati strappati via. Alla fine dell’agenda c’è una rubrica telefonica con decine di numeri e nomi che non conosco. Tra gli altri noto ben tre numeri di Sergio (segnati come Sergio Anagni, Sergio mare, Sergio montagna), quello della mia ex moglie e quello della casa milanese di Nataniel Rojas.
Controllo tutto per altre due volte, rivoltando ogni indumento, ogni tasca. Niente. Poi mi viene in mente una cosa che facevo anni fa, da adolescente, quando ancora non possedevo un cellulare. Se volevo segnarmi qualcosa di importante e nasconderla agli occhi degli altri, utilizzavo un metodo ispirato alla Lettera Rubata di Edgar Allan Poe. Invece di scrivere sull’agenda o su un foglio da ripiegare e celare nella più nascosta delle tasche, buttavo giù l’appunto su un fazzolettino di carta che ripiegavo con cura e sistemavo poi al centro del pacchetto. I curiosi possono frugare qua e là o sfogliare un’agenda, ma nessuno apre dei fazzoletti.
Tiro fuori con estrema delicatezza tutti i fazzolettini dal pacchetto, poi li apro a uno a uno, stendendoli sul letto. Quando è la volta di quello centrale mi si stringe lo stomaco: c’è una scritta appena accennata, forse una matita, forse una penna dal tratto molto leggero.
Nataniel Rojas, rifugio: 06 5052564899
Il numero di telefono di quello che ha tutta l’aria di essere il luogo dove si nasconde Nataniel Rojas. Un numero con un prefisso di Roma. La calligrafia non sembra la mia. Mi chiedo se sia il caso di chiamare Chelli; in fondo, visto e considerato che non ricordo nulla, sarebbe opportuno collaborare con i tribuni, ma il fatto è che tutto voglio meno che ritrovarmi a subire un nuovo interrogatorio.
Mentre ragiono su cosa fare bussano alla porta. È Adelmo. «Signore? C’è una telefonata per lei.»
Una telefonata per me. Sergio, forse. O magari i tribuni della guardia pretoriana. Magari hanno trovato lo spagnolo. «Un minuto e arrivo» dico, poi ripiego con cura i fazzolettini di carta e li risistemo nel pacchetto, che ripongo nel cassetto del comodino.
Adelmo mi aspetta in salone. Gli chiedo chi è al telefono. «La signora Nadina Castelletti. Ha detto di essere la sua agente, e ha insistito molto.»
«La mia cosa?»
«La sua agente letteraria.»
Mi dirigo verso il telefono.
«È in videochiamata» mi ferma il maggiordomo, indicando la biblioteca. «Ho già acceso il video terminale, ma se non se la dovesse sentire posso sempre dire alla signora Castelletti che è indisposto.»
«No, non c’è problema.» Non voglio sottrarmi né a questo né a nessun altro incontro. Qualunque cosa sia successa prima del mio risveglio, la mia linea di condotta deve rimanere sempre la stessa: non ricordo nulla. E più persone si convincono che in effetti sono in buona fede, meglio è. Non che debba poi recitare chissà quale gran parte, visto che di questo mondo e del mio alter ego non so nulla davvero.
Una volta in biblioteca la mia attenzione va al televisore che ho notato prima. È acceso, e lo schermo mostra una distinta donna sulla cinquantina, seduta in quello che ha tutta l’aria di essere uno studio. La osservo per qualche secondo: armeggia con dei fogli, ogni tanto prende un appunto. Sempre sullo schermo, in alto a destra, un piccolo riquadro mostra la mia figura, ripresa evidentemente da una telecamera integrata.
Mi siedo di fronte al video terminale.
«David, finalmente» esordisce lei, appena si accorge che sono entrato nell’inquadratura.
«Buongiorno», rispondo io, cauto.
«Perché non mi hai chiamato? Avevamo appuntamento ieri, ma non ti sei presentato. Ho dovuto faticare, per rintracciarti. Si può sapere cos’è questa storia dell’attentato di cui parlano televisioni e giornali? Dimmi che è solo una trovata pubblicitaria che avete escogitato tu e Rojas» fa lei, con un’espressione preoccupata.
Scrollo le spalle. «Non saprei. Ho avuto un incidente, l’altra sera: ho sbattuto la testa e non ricordo nulla degli ultimi giorni. Il medico ha parlato di amnesia selettiva.»
«Cosa stai dicendo? Ma il dattiloscritto? Ce l’hai il dattiloscritto?» chiede lei, alzando il tono della voce.
«Non so di cosa tu stia parlando» rispondo.
La donna prende una bottiglia d’acqua e ne versa un po’ in un bicchiere. «Il libro che stavi scrivendo con Nataniel Rojas. Sei tornato per questo, ricordi?»
«Puoi spiegarmi meglio, per cortesia?» le chiedo.
Un sorso d’acqua. Poi un altro. Il nervosismo della mia interlocutrice è più che evidente. Sta facendo un enorme sforzo per rimanere calma, e sembra divorata dall’ansia e dalla frustrazione.
«David, tu hai scritto un libro assieme a quello spagnolo. Io te lo avevo sconsigliato: non ce n’era alcun bisogno, ma tu hai voluto fare di testa tua, e va bene» dice. «Mi hai fatto leggere solo questa sottospecie di sinossi» aggiunge poi, sventolando un foglio che ha sulla scrivania. «E solo mostrando queste poche righe sono riuscita a piazzare i diritti agli editori di mezzo Impero, strappando anticipi astronomici. Questo te lo ricordi, David?» conclude, con un’enfasi tale da risultare quasi comica. Non rispondo. Solo, scuoto leggermente la testa. «Per contratto, dobbiamo consegnare il romanzo entro fine anno» continua. «Meno di un mese fa mi hai chiamato da Milano. Eri da Rojas e stavate lavorando al finale. L’ultima volta che ci siamo sentiti, martedì scorso, eri a Palermo. Mi hai detto che il finale era quasi pronto e che il dattiloscritto lo aveva Rojas a Milano.» La donna fa una pausa e si porta una mano sul viso. Sospira, poi riprende. «Oh, quanto mi sono arrabbiata nel sapere che lo avevi lasciato a lui! Dio solo sa perché hai fatto una sciocchezza simile.»
L’agente fa un altro sorso d’acqua. Ora è diventata tutta rossa. Rifletto sul fatto che, non essendoci computer e rete, i romanzi si devono partorire ancora con le macchine da scrivere. E non ci sono certo dei file salvati qua e là, nella memoria di un account di posta elettronica o nei dischi rigidi con scritto sopra backup dati. Ci sono plichi e plichi di fotocopie, semmai.
La donna riprende a parlare. «Mi hai detto anche che saresti tornato sabato sera, che ti saresti visto con lo spagnolo a Roma domenica mattina e che, una volta recuperato il dattiloscritto, me lo avresti consegnato in giornata. David… dove diamine si trova il romanzo?»
Pronuncia le ultime parole in un modo che mi fa venire i brividi. «Non ne ho idea» rispondo.
Lei sbianca. «Mi stai dicendo che tu non sai dove… hai sentito Rojas almeno?»
«Ascoltami» dico, «non so dove sia il libro e non so dove sia Rojas. Mi dispiace, ma come ti ho detto in questo momento la mia memoria non è efficace come dovrebbe. Però avrò pur fatto delle fotocopie, no? Magari le ho da qualche parte, a Palermo forse.»
«No, David» mi interrompe lei, sbattendo il palmo della mano sul tavolo. «Tu non fai mai fotocopie, è una tua mania. Hai paura che qualcuno possa leggere ciò che scrivi prima che sia terminato, e poi sei superstizioso, sei convinto che non fare fotocopie ti porti fortuna. Un’unica copia battuta a macchina, questa è la tua regola.»
Allargo le braccia, con una smorfia di rassegnazione quasi divertita. Se il mio alter ego è un coglione superstizioso, io che ci posso fare?
La donna chiude gli occhi, poi si passa una mano sul viso, come se inseguisse un pensiero. «Devi contattare Rojas» dice. «Lo devi trovare e farti dare il dattiloscritto con il romanzo, non ci sono altre soluzioni. Se non lo consegniamo entro un mese dovremo restituire l’anticipo. E dovrai anche pagare una penale enorme.»
Ora mi è chiaro il motivo del suo nervosismo. Il problema è che ho cose più urgenti delle penali, a cui pensare. Comunque, le chiedo di leggermi il foglio che ha davanti. Lei apre la bocca, come se fosse sul punto di dirmi qualcosa. La richiude dopo un istante, scuote la testa e si lascia andare a un sospiro rassegnato. Poi, prende il foglio e inizia a leggere quello che le avrei scritto.
«L’idea è questa, Nadina, reggiti forte: il protagonista del romanzo sono io. Mi addormento su uno Zeppelin e quando mi sveglio… zac: mi ritrovo nel mondo ucronico e distopico dei miei romanzi, dove sono uno scrittore fallito. Terrorizzante. E non saprò come tornare indietro fino a quando non capirò che il ponte tra i mondi è proprio il mio ultimo romanzo, che però è rimasto dall’altra parte. E per tornare indietro potrò solo sperare che l’altro “me stesso” rinunci alla mia vita e scriva un finale che ci rimetta al nostro posto. Forte, eh?»
Mentre ascolto questa sottospecie di trama mi sporgo in avanti, quasi volessi entrare nello schermo. Non riesco a credere a ciò che sto sentendo. Io e il mio alter ego di questo mondo ci siamo scambiati di posto tramite un romanzo, neanche fossimo i protagonisti di un film sugli universi paralleli. Un grande classico, tutto sommato. E per quanto la soluzione sia assurda, mi sembra l’unica possibile. E se la soluzione è questa, per sistemare le cose devo semplicemente mettere le mani su quel dannato romanzo e scrivere un finale dove rimetto le cose al loro posto.
«Ti senti bene, David? Hai una faccia» dice la donna. Balbetto non so cosa, la saluto in tutta fretta e premo il tasto Termina chiamata del telecomando.
Chiamo Adelmo e mi faccio spiegare come funziona il video terminale. Ci sono diversi sottomenù: la Rubrica, un Servizio Ricerca, e un generico Servizi. Non hanno internet e i cellulari, ma questi affari sembrano all’avanguardia. A me, comunque, interessa solo fare una telefonata. Mi dirigo in camera a prendere il numero di Rojas. Mentre salgo le scale, però, la mia determinazione inizia a vacillare. Mi chiedo cosa dovrei dire allo scrittore spagnolo. Che rivoglio il libro, tanto per iniziare. Ma se quell’uomo fosse davvero coinvolto nell’attentato, cosa potrebbe succedere? E se mi riattacca il telefono in faccia e tanti saluti? D’altro canto, ho con me un numero con scritto rifugio…
Il punto è che ignoro quali siano i rapporti tra me e quel tizio. Buoni, presnumo, ma la certezza non la ho. E non posso permettermi il rischio di commettere un errore. Mi chiedo se non sia il caso di avvertire Chelli, come avevo intenzione di fare fino a qualche minuto fa. Immagino che dal numero sia in grado di rintracciare Rojas facilmente. Già, ma poi? Nessuno mi assicura che quel tribuno mi farebbe la gentilezza di restituirmi il plico con il dattiloscritto, ammesso che lo ritrovi. Ha detto che considera i romanzi del mio alter ego spazzatura, tra l’altro. Forse la cosa migliore è indagare per conto mio, anche se al momento non ho la più pallida idea di come fare, e da dove iniziare.
Intanto si è fatta l’ora di mangiare, e decido di rimandare la decisione al primo pomeriggio. Non faccio in tempo a finire il pranzo servitomi da Adelmo che ricevo un’altra telefonata. Questa volta è Sergio: «David, tra una mezz’ora sono a casa con il dottor Herlinga» esordisce, eccitato.
Questo dottore, a quanto mi dice, è uno dei più noti e stimati psichiatri italiani: ci vogliono mesi per farsi ricevere da lui. Sergio però lo conosce bene: proprio in questi giorni una delle sue aziende sta terminando i lavori di ristrutturazione di una villa del dottore, dalle parti di Frosinone. Sergio sta appunto tornando dalla villa, dove si è recato per controllare i lavori e definire con lo psichiatra, che è solito passarvi i fine settimana, gli ultimi dettagli su come sistemare giardino, fontane e piscina. Il discorso è continuato in non so che rinomato ristorante della zona dove, tra una cosa e un’altra, ha colto l’occasione per parlargli di me e del mio problema. Herlinga, che mi conosce di fama e a quanto pare è un mio accanito lettore, si è offerto di fare tappa ad Anagni, prima di rientrare a Roma. E così Sergio mi ha chiamato dal ristorante, che stanno per lasciare.
Non provo neanche a protestare; incontrare uno strizzacervelli non è poi il peggiore dei mali. Così lo assecondo, dicendogli che ha fatto benissimo. Poi mi concedo una lunga doccia bollente, di quelle che ti levano via la pelle.