Capitolo 06

ADELMO

martedì 03 dicembre

Saluto Iris con un bacio davanti al bar del centro in cui abbiamo fatto colazione; ci diamo appuntamento a mercoledì sera, poi lei si dirige verso il teatro Argentina, io verso la stazione Termini.

Mi lascio avvolgere dalla poltrona del treno con mille pensieri diversi per la testa. Alcuni si rincorrono come cavalli di legno in una giostra per bambini, sfiorandosi appena. Altri, invece, ballano un valzer con le mie emozioni: stretti, abbracciati, avvinghiati tra loro, volteggiano sulle note confuse della mia vita. Non so se posso definirmi innamorato, certo è che mi sento bene. Da una parte sono pervaso da una serenità che non ricordavo di provare più da molto tempo, da un’altra sono consapevole che la situazione in cui mi trovo è assurda.

Guardo il paesaggio che scorre veloce oltre il finestrino, osservo le stazioni in cui si ferma il treno, così diverse da quelle che ricordo. E mi chiedo se davvero mi interessi poi così tanto scoprire la verità, capire da dove vengo e come tornare indietro. In fondo in questo mondo sono ricco e famoso. Posso anche essere felice? Certo che sì: la notte appena trascorsa ne è la prova tangibile. E se rimanessi qui, se decidessi di vivere questa nuova vita, cosa potrebbe mai succedere?

Potrei continuare a fare lo scrittore: mi basterebbe raccontare di cose che conosco a memoria. E se mi dovessi accorgere di non avere le capacità adeguate, poco male: ci sono i ghost writer. O magari sono così ricco da potermi permettere il lusso di passare il resto dei miei giorni a non fare nulla. Mi chiedo se certi pensieri non siano dettati che da cinico opportunismo. E per un istante mi domando anche come si senta il mio alter ego, lo scrittore ricco e famoso che si è ritrovato al mio posto, dall’altra parte. Rubargli la vita sarebbe giusto?

E ancora, se un bel giorno, dopo aver recitato la parte dello scrittore che ha perso la memoria ed essermi abituato a questa nuova vita, mi dovessi svegliare di nuovo nel mondo da cui provengo? Magari dopo due anni, o cinque, o dieci. Non riuscirei a vivere tranquillo, con un tale pensiero. No, dannazione. Sarebbe un’esistenza infernale, vissuta con addosso un’ansia costante. Che decida di tornarmene nel mio mondo o che decida di rimanere, devo capire cosa sia successo; devo mettere le mani su quel dannato romanzo.

Scendo dal treno e salgo sull’auto di Sergio. Mentre guido ho una sorta di illuminazione: la cosa migliore è affrontare Rojas di persona e costringerlo a darmi il romanzo, presentandomi armato. Mi appunto mentalmente che devo rintracciare l’indirizzo partendo dal numero e procurarmi un’arma. Non ho idea del come fare, ma almeno so cosa fare. È un inizio.

Davanti casa di Sergio è pieno di giornalisti, curiosi e carabinieri, ed è solo grazie alla solerzia di un paio di agenti che riesco a oltrepassare il cancello. Parcheggio nel vialetto, e la prima cosa che noto è la Ferrari: ha il vetro dello sportello lato passeggero in frantumi. Mi avvicino; l’interno dell’auto è stato letteralmente fatto a pezzi. Dal cruscotto, divelto, ai sedili di pelle, squarciati. Mi si fa incontro un uomo in divisa. Lo riconosco, è il capitano Negretti.

«Signor Resti» fa, allungando la mano.

«Capitano» rispondo, stringendola. «Che diavolo è successo qui?»

Negretti mi fa cenno di seguirlo dentro casa. «C’è stata un’intrusione, stanotte. Crediamo che il bersaglio fosse lei.»

«Io?»

«Hanno frugato solo tra la sua roba. Venga.»

Il capitano mi accompagna al primo piano, rimarcando quanto sia strana una cosa del genere: furti in casa, intrusioni notturne e vandalismo sono episodi oramai talmente sporadici e rari da essere quasi del tutto scomparsi.

«Non è come nei miei romanzi, eh?» faccio, mentre entriamo nella stanza degli ospiti.

«Può dirlo forte, signor Resti. Qui siamo nel cuore dell’Impero, a due passi da Roma. La giustizia funziona, non c’è scampo. E con i moderni sistemi di sicurezza è quasi impossibile sfuggire al suo corso. Certe cose possono succedere giusto nelle Cloache.»

È la prima volta che sento parlare delle Cloache, e non ci faccio troppo caso: tutta la mia attenzione è rivolta allo spettacolo che ho di fronte. La stanza in cui dormo è stata rivoltata come un vecchio calzino. Il rivestimento interno del trolley fatto a strisce con un coltello, i cassetti dei mobili buttati all’aria e il loro contenuto sparso qua e là, vestiti compresi. Appare evidente che, chiunque sia stato a entrare in casa, stava cercando qualcosa. Ma cosa? L’occhio mi va sul pacchetto di fazzolettini. È finito a terra.

«Abbiamo appena finito di fare tutti i rilevamenti, comprese le impronte digitali e quant’altro. Francamente, però, dubito che troveremo niente di utile. Anche i tribuni della guardia pretoriana sono del nostro stesso parere. Manca niente?» chiede Negretti.

«Così, a occhio, direi di no» rispondo. «Perché pensa che non troverete nulla di utile? E il discorso di prima sulla quasi infallibilità della giustizia? Insomma, dovreste già sapere chi è stato, no?»

«No, maledizione» risponde Negretti.

Il capitano fa una smorfia di disappunto, poi stringe il pugno e lo mena in aria. A dispetto della sua aria seccata, sembra quasi buffo. «È proprio questo il punto, Resti. Stanotte qualcuno ha disattivato i sistemi di sicurezza della villa e manomesso quelli di sorveglianza dell’intero quartiere. Queste non sono competenze che hanno i criminali comuni. Ascolti: c’è qualcosa che deve dirmi? Se c’è una verità scomoda da far venire fuori, la prego, la scongiuro di farla venire fuori con me, piuttosto che con i tribuni. Io farei di tutto per aiutarla, per quel che mi è concesso.»

Il tono del capitano lascia intendere che meglio farei a confessare una fantomatica verità. L’unica cosa che potrei dirgli è del numero di Rojas, ma me ne guardo bene: farne parola potrebbe solo complicare le cose.

«No, non ho proprio niente da nascondere. Poi, come vi ho detto, non ricordo nulla.»

«Sì, lo so: non ricorda nulla» sbuffa l’uomo.

«Adelmo? Lui sta bene?» chiedo; ignoro se il maggiordomo abiti qui, e se era presente quando i ladri – o qualunque cosa fossero – sono entrati in casa.

Negretti sembra stupito dalla domanda. «Sì, nessun danno, direi» risponde.

Entra un maresciallo, e i due si mettono a confabulare nel corridoio mentre io, di fronte a un tale sfacelo, ripenso allo strano furto subito nel ristorante, con tutte le mie cose buttate all’aria, nel bagno. Possibile sia solo una coincidenza? Se l’intrusione in casa e il furto sono collegati, vuol dire che qualcuno mi sta spiando; qualcuno che vuole qualcosa da me. E ignoro tanto chi sia il qualcuno, quanto cosa sia il qualcosa. O forse no, forse questo lo so, mi dico, mentre raccolgo il pacchetto di fazzolettini.

Negretti rientra. «Noi andiamo, signor Resti» mi dice.

«Arrivederci, capitano. La ringrazio di tutto.»

«I tribuni Chelli e Smiti vorrebbero parlarle. La stanno aspettando dabbasso» aggiunge, prima di congedarsi.

Gli stringo la mano e mi dirigo giù, con calma. Mi chiedo come funzioni qui la giustizia: e se per un motivo o per un altro mi dovessero ritenere colpevole di qualcosa? I pensieri volano al referendum imminente, alle arene in cui i criminali verranno dati in pasto alle belve, e un brivido mi corre lungo la schiena. Poi, con sollievo, mi torna in mente un particolare: a quanto ho capito dai discorsi di Sergio le esecuzioni sono riservate solo a quei cittadini che non hanno lo status di “romani”, status che io ho di sicuro. Una volta sceso scaccio via certi pensieri assurdi: la vittima sono io, e da tale devo comportarmi. Sono io che devo chiedere cosa diavolo sia successo, non il contrario.

I tribuni mi aspettano in biblioteca. Sul tavolo ci sono due tazzine da caffè vuote, accanto a un vassoio con una mezza dozzina di ciambelle. Chelli è in piedi, appoggiato al tavolo, intento a sfogliare il mio Virus Globale con una ciambella in mano. Sul tavolo c’è invece un altro mio libro, Social Diktat.

Smiti è seduto e sta studiando il foglio con le prescrizioni mediche del professor Herlinga. Ha disposto ordinatamente sul tavolo le scatole con gli psicofarmaci. A completare il bizzarro quadretto domestico c’è Adelmo, che se ne sta in piedi, in silenzio e composto, accanto alla finestra.

«Buongiorno a tutti» esordisco con una voce che, a dispetto dei miei propositi, tradisce un certo nervosismo. «Posso esservi utile?» aggiungo, allungando la mano verso Chelli.

«Buongiorno a lei» risponde il tribuno, stringendola con una forza tale da farmi digrignare i denti. Poi si rivolge ad Adelmo. «Complimenti per il caffè. Davvero eccellente. Per non parlare di questi biscotti.»

«Ciambelle al vino. Sono fatte in casa, produzione locale» fa il maggiordomo.

Smiti non si scompone più di tanto e ci degna solo di una fugace occhiata.

«Questo ancora devo leggerlo» continua Chelli, riferendosi al libro che ha in mano. «Sembra inquietante. Una pandemia globale, un virus che si propaga dalla Cina e decima il mondo, eliminando gli anziani. Che fantasia malata che ha, signor Resti!»

Annuisco, senza dire nulla. Il tribuno sorride, chiude il libro e lo posa sul tavolo, accanto all’altro, sulla cui copertina posa l’indice. Poi prende a picchiettarci su, ritmicamente, con insistenza.

«Quest’altro, invece, l’ho letto. Cos’è che hanno in mano i ragazzi in copertina? Smartphone, giusto?»

«Giusto» rispondo, quasi con un sussurro. Il tribuno sembra stranamente gentile. Come un gatto che stia giocando con il topo.

«Smartphone. Telefonia mobile e iperconnessione! I corpi speciali hanno giocattoli del genere. Certo, per i civili sono davvero stronzate inutili, ma non per i militari. I giap sono all’avanguardia, con questa roba. Ma questo lei lo sa benissimo, vero?»

«No» rispondo. «Non ho idea di quanto i giapponesi siano all’avanguardia con la tecnologia in generale e con i cellulari nello specifico. Non lo so, giuro.»

«Sa almeno chi è entrato in casa, stanotte?»

«Dei ladri, immagino» faccio, mentre mi siedo. Questo dannatissimo tribuno riesce a mettermi a disagio come nessuno al mondo.

Sembra avere un vero e proprio talento, in merito.

«Dei ladri? È fuori strada, Resti. Glielo dico io, chi è stato: spie. Spie giap.» Chelli prende a fissarmi dritto negli occhi senza aggiungere altro, in attesa di una mia risposta che, però, non arriva. «Solo i militari o i giap hanno gli strumenti necessari a disattivare certi sistemi di allarme senza danneggiarli» continua. «Servono attrezzature particolari, sofisticate e costose. Non è roba che usino i comuni ladri, per intenderci, e del resto qui non è stato rubato nulla a quello che ci risulta, giusto?»

Dice l’ultima frase cercando con lo sguardo prima Adelmo, che annuisce, poi me.

«Per quel che ne so, no» rispondo, «ma forse solo Sergio potrebbe confermarlo.»

«Lasci stare il suo amico» mi interrompe Chelli. «È chiaro che il bersaglio era lei.»

«Sì, me lo stava accennando Negretti.»

«Ora, la domanda è davvero semplice, Resti: perché diavolo delle spie giap dovrebbero disturbarsi per venire in questa ridente e meravigliosa cittadina medievale, Anagni, la città dei vescovi…»

«Dei papi» lo correggo. «Anagni è la città dei papi.»

«Va bene, Resti: dei papi. E perché delle spie giap dovrebbero venire qui, nella città dei papi, per cercare nelle sue cose? Sa darmi una risposta?»

«Non ne ho idea» rispondo.

Chelli si mette a picchiettare con le dita sul tavolo.

«Non ne ha idea, dice!» Sorride e prende un’altra ciambella. Fa un morso, manda giù e si rivolge ad Adelmo. «Sarebbe così gentile da portarci qualcosa da bere? Per me acqua naturale. Smiti, tu cosa vuoi? Acqua va bene?»

«Mm» mugola Smiti, facendo cenno di sì con la testa.

Sta leggendo i bugiardini degli psicofarmaci, e non sembra fare troppo caso alle domande che mi rivolge il suo collega, né a quello che gli succede attorno.

Chelli continua: «Bene, non ne ha idea. Però magari le è venuto in mente dove potrebbe nascondersi Rojas».

«No, davvero. Non lo so» mormoro.

«Quando è stata l’ultima volta che ha sentito Nataniel Rojas?» Chelli non mi concede tregua. La chiacchierata sembra essersi trasformata in un interrogatorio.

«Non me lo ricordo. Ve lo giuro. Perché tutte queste domande? Io qui sono la vittima, dannazione.»

Intanto, Adelmo è tornato con una bottiglia d’acqua e dei bicchieri. Chelli ringrazia e se ne riempie uno. «La vittima. Interessante prospettiva» fa. «E mi dica, ha già dato un’occhiata ai giornali di oggi?»

Scuoto la testa. Chelli tira fuori un quotidiano da una valigetta nera, lo apre sul tavolo e si mette a sfogliarlo. Le prime pagine de La Plebe sono tutte dedicate all’imminente sbarco sulla Luna. All’interno c’è anche un articolo sull’attentato fallito. Chelli me lo indica. «Ecco. Cosa ne pensa?»

Leggo l’articolo, dove si parla di me e di Rojas.

Le conclusioni del giornalista e le dichiarazioni della guardia pretoriana in merito all’attentato sono chiare.

«… l’attentato è stato quindi organizzato dai senatori repubblicani, che hanno armato la mano di Ernesto Fazi, un disgraziato mentalmente disturbato.»

«… la brillante operazione condotta dalla guardia pretoriana ha portato all’arresto dei senatori dissidenti coinvolti nel tradimento e alla decapitazione del movimento terroristico, a cui è senz’altro imputabile l’orchestrazione del vile attentato. Non ci sono prove alcune del coinvolgimento di Rojas.»

«… anche il coinvolgimento del noto scrittore David Resti non è stata altro che un’enorme montatura dovuta a una fuga di notizie false da parte di qualche collega dimostratosi poco professionale e poco accorto.»

Guardo Chelli. «Ma allora si è trattato solo di un enorme equivoco» dico, sollevato.

Il tribuno scuote la testa, irritato. «Ma davvero non ci arriva da solo, Resti? Che razza di scrittore è lei? Un po’ di fantasia, diamine. Dico bene, Smiti?»

«Mm» fa ancora il suo collega, distrattamente.

«La versione che riportano i giornali è quella che abbiamo dato loro» continua Chelli. «La verità non può essere divulgata, per non mettere sul chi vive Rojas. Ci sono arrivati i tabulati: Ernesto Fazi e Nataniel Rojas si sentivano costantemente al telefono, da due mesi a questa parte. Telefonate sempre più lunghe, con il passare del tempo. La sera prima dell’attentato hanno parlato per ore. Poi lo spagnolo è uscito di casa, e da allora nessuno lo ha visto più. Il coinvolgimento di Rojas non è più un sospetto, Resti: è una certezza. A maggior ragione che i senatori repubblicani negano di essere i responsabili dell’attentato, e negano anche di esserne mai stati a conoscenza. E le assicuro che i nostri metodi di interrogatorio possono essere davvero molto, molto persuasivi. Capisce cosa intendo, signor Resti?»

Mi appoggio al tavolo con le mani. Quest’ultima frase sapeva di minaccia; la testa inizia a girarmi. Chelli continua. «Ora, dai tabulati risulta che lei e Fazi non vi siete mai sentiti, il che ci porta a credere che forse neanche vi conoscevate. Dai tabulati risulta anche che lei si sentiva spesso con Rojas, e questo potrebbe essere comprensibile, visto che stavate scrivendo un libro assieme. Prima le ho chiesto quando è stata l’ultima volta che vi siete sentiti, ma in realtà lo so benissimo: giovedì nel tardo pomeriggio. Rojas l’ha chiamata presso la sua residenza palermitana, mentre lui era a Milano. Ora, anche ammettendo che lei con questo attentato non c’entri niente…»

«Un attimo, un attimo» lo interrompo. È vero che non ricordo nulla, ma questo non vuol dire che non possa rimarcare l’ovvio. «Mi sembra chiaro che io e questo Rojas ci sentivamo per lavoro. E se era davvero implicato nell’attentato è normale che non dovesse destare il minimo sospetto, giusto? Il fatto che non ci siano tabulati tra me e l’attentatore non è una prova sufficiente per scagionarmi?»

Chelli sorride. «Oh, ma infatti lei non è accusato di nulla. Rimangono però i fatti. Uno: ultimamente si sentiva spesso con un rivoltoso, un terrorista, un cane sciolto ancora a piede libero; due: a quanto pare, i giap stanno cercando qualcosa da lei. Cosa? Vorrei tanto saperlo. Lei non è coinvolto nell’attentato? Va benissimo, sono disposto a crederlo. Lei potrebbe sapere dove si trova Rojas? Mi creda se le dico che vorrei tanto sapere anche questo.»

Mi sento le gambe venire meno, mentre la testa mi gira sempre di più.

«Ci pensi bene, signor Resti: è proprio sicuro di non ricordare nulla? Questa potrebbe diventare la più grande crisi dal ’61. Immagini se l’attentato fosse andato a segno. Magari Rojas era d’accordo con i giap, non possiamo escludere nulla, al momento. Ci pensi bene, le ripeto. Se troviamo Rojas potremmo venirne a capo, e prevenire un conflitto tra i due Imperi. Il mondo non ha bisogno di un’altra guerra.»

«Mi dia cinque minuti» rispondo, e mi verso un bicchiere d’acqua. La mano mi scivola verso il pacchetto di fazzolettini. Lo prendo e lo poso sul tavolo. Forse il tribuno ha ragione, devo dire tutto ciò che so. Questa storia sta diventando più grande di me: si parla di guerra tra Imperi. Chissà se hanno anche un arsenale nucleare. Forse no, dopo quello che è successo nel ’61, ma non ne sono poi così sicuro: l’uomo non impara mai dai propri errori.

Intanto, Chelli si è avvicinato ad Adelmo. Il tribuno tira fuori dalla tasca uno strano tesserino d’argento e lo passa davanti agli occhi del maggiordomo. «Protocollo di disattivazione attivato. Confermi che stanotte eri in carica dalle 01.00 alle 05.00?» dice.

«Confermo» risponde Adelmo, con una voce irriconoscibile, meccanica.

«Smiti» continua Chelli, «il portadati.»

Smiti tira fuori qualcosa che sembra una penna usb e gliela passa senza neanche guardarlo: ora è lui ad avere in mano Virus Globale, ed è impegnato a leggere la quarta di copertina con un’espressione indecifrabile, a metà tra l’annoiato e l’assorto.

Chelli prende il portadati. «Scarichiamo tutto quello che dobbiamo scaricare» dice, poi si rivolge ancora al maggiordomo. «Protocollo di disattivazione concluso. Spegniti» fa, in modo deciso, perentorio. Un ronzio sordo, poi un rumore metallico. Il corpo di Adelmo si affloscia, la testa rovesciata di lato. Sembra che dorma in piedi, in una posa tutt’altro che naturale.

«Che cazzo state facendo?» chiedo, allarmato.

Chelli mi guarda, perplesso. «Scarichiamo i dati del robotico domestico. Durante l’intrusione era in carica e non ha registrato nulla, ma vogliamo vedere se negli ultimi giorni c’è stato qualcosa di strano, magari nelle registrazioni video si nota qualcuno che spia la casa. Non si preoccupi, abbiamo tutte le autorizzazioni necessarie» fa, mostrandomi un foglio pieno di timbri e firme.

«Robotico domestico? Cosa diavolo sta dicendo?»

I due tribuni mi guardano con stupore. Sembra che sia riuscito a prendermi anche l’attenzione di Smiti, ora. Mi avvicino al maggiordomo. Gli metto una mano sulla spalla. È dura, sembra che i muscoli si siano contratti. «Adelmo, stai bene?» chiedo.

«Sta scherzando o cosa?» fa Chelli. «Lo abbiamo disattivato. Il robotico non è operativo.»

«Un robot? Ma cosa sta dicendo? Adelmo? Mi senti?» dico, mentre gli tocco il volto e lo trovo rigido, innaturale.

Chelli mi afferra per le spalle e mi sposta di lato. Si è avvicinato anche Smiti, che mi si mette davanti, i suoi occhi inespressivi e duri nei miei. Il suo collega armeggia con la faccia di Adelmo. Un altro rumore metallico, più forte di quello precedente. Chelli gli tira via la parte esterna del viso, lasciando scoperti circuiti, fili, componenti meccaniche, agglomerati che sembrano fasci di muscoli. Poi inserisce il portadati lì in mezzo, proprio come quando si attacca una pennetta usb a un pc. Il portadati prende a lampeggiare.

Una voce metallica e innaturale parte dalla testa aperta di Adelmo: «Scaricamento dati in corso».

Non credo ai miei occhi. Mi sento svenire. Smiti allunga le braccia per sostenermi e mi aiuta a sedere sulla poltroncina di pelle.

«Come è possibile?» mormoro. «Il maggiordomo è un robot. Un cazzo di robot!»

I due agenti si scambiano un’occhiata perplessa. «Se finge, è da Leone d’oro» dice Chelli.

«Mm» fa Smiti, annuendo senza troppa convinzione. Ha di nuovo in mano il foglio con le prescrizioni mediche di Herlinga. «Magari è uscito fuori di testa per davvero. Ma questo non vuol dire che sia pulito» risponde.

Chelli allarga le braccia. Mi osservano come se fossi chissà quale strano fenomeno da baraccone. Io continuo a guardare Adelmo. «Sembra vero» dico.

«Mi faccia capire» fa Smiti. «Lei sostiene di avere avuto un’amnesia, giusto? Eppure, ora sembra cascare dalle nuvole alla vista di un robotico. Le medicine che le sono state prescritte sono psicofarmaci molto potenti. Ma vedo che ancora non le ha prese.»

Detto questo rimane a fissarmi come in attesa di una risposta che, però, non arriva. «Sarebbe opportuno avere il quadro della situazione chiaro, signor Resti» continua.

Mi decido a parlare. Meglio dire tutto. Se devono credermi pazzo, che lo credano fino in fondo. «Vedete, io ritengo di venire da un’altra dimensione. Da quella dei miei romanzi, a essere precisi. Lì non ci sono robot. Non come quello, almeno: sono diversi.»

I due tribuni non fanno una piega. Si allontanano di qualche metro e si mettono a parlare tra loro. «Io gli credo. Nessuno potrebbe recitare così bene, neanche il migliore degli agenti speciali. Ammesso che abbia notizie riguardo Rojas, per tirargliele fuori dobbiamo chiamare qualcuno dei nostri. Uno specialista in problemi di memoria, o magari psichiatrici» dice Chelli.

«Bene. Cancella dal robotico tutti i dati di memoria dell’ultima ora e andiamo via» risponde Smiti.

Chelli toglie il portadati, poi risistema la faccia al maggiordomo e gli passa di nuovo il tesserino argentato davanti agli occhi. «Protocollo di riattivazione attivato. Sarai operativo in trenta secondi» fa. «In quanto a lei signor Resti, inutile dire che tutto quello che ci siamo detti è assolutamente confidenziale. Farne parola con chicchessia basterebbe a farla arrestare e a incriminarla per terrorismo. Chiaro?»

«Chiarissimo» rispondo, con un filo di voce.

Intanto, Adelmo si riattiva con un ronzio che mi fa gelare il sangue nelle vene. Smiti, invece, ha tirato fuori una piccola macchina fotografica, con la quale immortala il foglio con le prescrizioni di Herlinga e le confezioni di psicofarmaci.

«Signor Resti, non credo ci sia altro» conclude Chelli, porgendomi la mano. «Lei è stato collaborativo, e lo apprezzo. Faccia una cosa, ora: se ne stia tranquillo. Le prometto che nessuno verrà più a disturbarla; tempo dieci minuti e di fronte casa non avrete più nessun giornalista, nessun curioso. La guardia pretoriana sa essere molto persuasiva, glielo assicuro. Penseremo io e Smiti a tutto. Le troveremo lo specialista migliore che c’è in materia di disturbi di memoria e vedremo di risolvere i suoi problemi e di aiutarla a ricordare. Siamo d’accordo? E naturalmente, neanche a dirlo, se le viene in mente qualcosa su Rojas ci chiami.»

«Sì, certo» rispondo.

Il numero di Rojas. Prima stavo per darglielo, ma ora non sono più così sicuro che sia la migliore delle idee. Sarebbe come ammettere che ho mentito, che ho qualcosa da nascondere.

Al limite, potrei farglielo avere con una soffiata anonima. «Una cosa» aggiungo, inseguendo un pensiero. «Se ho ben inteso, voi avete perquisito la casa milanese di Rojas.»

«Ha inteso benissimo, signor Resti» fa Chelli. «Si è ricordato qualcosa che può esserci utile?»

«No. Volevo sapere se per caso avete trovato la copia del nostro ultimo romanzo. A quanto ne so l’aveva lui, e per me sarebbe opportuno, anzi necessario, riaverla indietro. La mia agente mi ha spiegato che avevamo degli accordi con gli editori, e se non lo consegno entro fine anno dovremo pagare delle penali molto onerose.»

Chelli apre il palmo della mano e colpisce il tavolo, con violenza. «Senta Resti, parliamoci chiaro. Noi qui stiamo cercando di evitare una crisi diplomatica che potrebbe portare a una guerra catastrofica e lei pensa al suo romanzetto del cazzo? Alle penali onerose? Ma quanto è meschino?»

«Io sto solo dicendo che…»

«Comunque: no. Il suo libro non c’era. Rojas deve averlo portato con sé. O magari lo ha bruciato, chissà. E ora, se permette, dobbiamo andare. Arrivederci. State comodi, conosciamo la strada» conclude, rivolgendosi sia a me che ad Adelmo. Poi si avvia verso l’uscita assieme a Smiti, che non mi degna di un’occhiata, o di un saluto.

Una volta solo, osservo il maggiordomo robot con un misto di paura e di ammirazione. Accidenti se sembra vero.

«Desidera qualcosa, signore?» mi chiede. Non deve essergli sfuggito il modo in cui lo guardo.

«Tu sei un robot, quindi?»

«Affermativo. Un robotico domestico di ultima generazione. Desidera conoscere i dettagli delle mie specifiche tecniche, signore?»

«No, per carità.»

«È quasi ora di pranzo. Vuole qualcosa in particolare?»

«Non saprei.»

«Mi permetterò di scegliere per lei, allora. Servirò a tavola tra una mezz’ora» conclude.

La sensazione di serenità e felicità con cui mi sono svegliato accanto a Iris, i buoni propositi con cui ho programmato il mio possibile futuro in questo mondo durante il viaggio in treno, quella sensazione che sarebbe andato tutto bene e sarei stato felice come mai prima…

Sono passate solo una manciata di ore, eppure sembra tutto un ricordo lontano.


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