Capitolo 10

APPUNTATO SCELTO CAIELLO

giovedì 05 dicembre

Mi alzo con una strana sensazione addosso. Non devo aver dormito poi molto, a giudicare dal sonno che ancora mi sento addosso. Scivolo fuori dal letto, vado in bagno e mi butto sotto la doccia. Così come è successo martedì mattina, mille emozioni diverse si rincorrono nella mia testa. Forse ho esagerato, ieri sera. Forse mi sono preoccupato troppo. In fondo, se i giapponesi ci avessero voluto fare del male lo avrebbero già fatto. Magari quella strana chiacchierata con Akane ha segnato la fine della persecuzione.

Esco dalla doccia e sbircio in camera da letto, Iris dorme ancora. Entro in cucina, deciso a farle una sorpresa: sveglia con un bacio e colazione a letto. Dalla finestra vedo il sole affacciarsi sul centro di Roma. Sta albeggiando, l’orologio a muro segna le sette e venti. Quattro ore scarse di sonno sono troppo poche, e mi chiedo se, dopo la colazione, non sia il caso di riposarmi un altro po’.

L’occhio mi cade sul mio borsello, che vedo appoggiato al muro, su una mensola. Perché è qui? Prima di coricarmi l’ho lasciato in stanza da letto, ne sono certo. Deve avercelo portato Iris. Deve essersi alzata per andare in bagno; o magari aveva sete, ed è venuta in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Tutto giusto, ma perché prendere il mio borsello?

Mi chiedo se abbia frugato tra le mie cose. Potrebbe averlo portato in cucina per guardarci dentro con calma, mentre dormivo. E poi si è dimenticata di rimetterlo a posto. Fisso il borsello, mentre mi pongo mille domande. Mi chiedo se tante volte Iris non sia stata incaricata di spiarmi dai pretoriani. Costretta, magari. Peggio ancora, mi chiedo se sia invischiata con i repubblicani o con i giapponesi. Paura e paranoia stanno affondando le zanne nella mia mente, come cani da caccia nella carne di una preda. E tutto questo solo perché il mio borsello non è dove ricordo di averlo lasciato. «Al diavolo» mormoro. «Al diavolo. Ora basta» mi ripeto.

Ci possono essere mille spiegazioni diverse. Magari lo ha spostato per chissà quale motivo. E anche fosse stato per guardarci dentro, può averlo fatto in assoluta buona fede. Forse Sergio le ha detto degli psicofarmaci prescritti da Herlinga, e Iris voleva solo vedere che genere di medicine fossero, e se le stessi prendendo. Sì, deve essere per questo. Si è preoccupata per me. Una volta sveglia, le spiegherò che non ha trovato medicine perché non sono pazzo e non mi servono psicofarmaci. Prendo il borsello. All’interno c’è una busta che non ricordo di avere mai visto.

Forse Iris mi ha scritto una lettera d’amore, altro che paranoie strane. Mi verso un bicchiere d’acqua e la apro; dentro c’è una foto, una polaroid, di quelle istantanee. Quando realizzo il soggetto ritratto mi sento mancare. Provo a regolarizzare il respiro, mentre il cuore mi batte all’impazzata: sulla foto ci siamo io e Iris che dormiamo. Nelle ultime tre ore qualcuno è entrato nell’appartamento e ci ha fotografato. Per capire chi è stato mi basta girare la polaroid e leggere le poche righe scritte sul retro. Rimango a fissare la foto per non so quanto, prima di infilarla nel borsello.

Signor Resti, sono certa che lei ha capito perfettamente quanto le ho detto ieri sera, ed è quindi solo per uno scrupolo puntiglioso che mi permetto di ribadire il concetto: per il Suo bene e quello delle persone a Lei care, si scordi di Rojas e di questa storia. Come vede, i nostri occhi la seguono ovunque e vegliano sul Suo riposo.

Un bacio appassionato dalla Sua più grande ammiratrice…

Akane

Vado in camera e prendo i vestiti, poi torno in cucina e strappo una pagina dall’agenda, su cui scrivo una lettera d’addio in cui spiego a Iris che è meglio per entrambi non vedersi e sentirsi mai più. Aggiungo che mi dispiace andarmene così, come un ladro, ma che ritengo sia la soluzione migliore, la più indolore. Lascio il foglio sul tavolo della cucina e mi dirigo alla porta, combattendo con l’impulso di tornare in camera da letto per darle un ultimo bacio.

Mi ritrovo in strada, senza sapere dove andare. Dopo averci riflettuto un attimo mi decido per la stazione Termini: una volta lì deciderò cosa fare.

«Signor Resti, vi sentite bene?»

Mi volto. Un carabiniere corpulento, con un marcato accento napoletano. Ha degli enormi baffi arricciati che sembrano finti, usciti dritti da una stampa dell’Ottocento. I miei angeli custodi non mi hanno perso di vista, dunque.

“Tutto bene un cazzo. Una spia dei giapponesi mi ha fotografato mentre dormivo, e non ve ne siete resi conto?”

«Sì, sto bene. Ho solo rotto con la mia ragazza.»

«Oh, mi spiace moltissimo. Volete che vi portiamo noi ad Anagni? Voi comandate, che noi stiamo a vostra disposizione» dice, e indica il carabiniere seduto al posto di guida dell’auto parcheggiata dall’altra parte della strada. «Siamo vostri grandi ammiratori, sa?»

«La ringrazio, ma ho voglia di farmi quattro passi. Magari prendo un bus fino a Termini e poi il treno» rispondo. Detto questo, cerco con gli occhi una qualche traccia dei pretoriani che, per fortuna, non vedo.

L’agente si liscia i baffi con la mano. «Il fatto è che… insomma, abbiamo l’ordine di non perdervi di vista. Per il vostro bene e la vostra sicurezza. Magari io vi seguo a piedi, il mio collega va in auto, che dite?»

Sembra fin troppo gentile e conciliante, deve essere davvero un mio ammiratore. Immagino che i tribuni della guardia pretoriana abbiano deciso di farmi pedinare dai carabinieri, almeno fino a quando me ne andrò in giro a fare la bella vita tra teatri e letti di attrici.

Facile che i pretoriani siano qualcosa come dei corpi speciali, delle professionalità troppo importanti per passare ogni notte appostati in auto a farmi da babysitter. Sono però in contatto con i carabinieri, non ho dubbi; il primo passo falso che dovessi fare, il primo sospetto che dovessi destare, me li ritroverei tra i piedi.

Poi ci sono le spie dei giapponesi che, ne sono certo, mi stanno osservando, anche in questo preciso istante. Devo trovare il modo di liberarmi di tutti. Ma come?

«Facciamo così» dico. «Adesso mi accompagnate a Termini, che voglio fare il giro in un paio di negozi e in libreria. Poi, quando ho finito, mi portate ad Anagni. Sempre se non è troppo disturbo.»

«Ma che dite, ma quale disturbo? È un piacere. Io sono l’appuntato scelto Gennaro Aurelio Caiello.»

Saliamo in auto, dove faccio la conoscenza del vicebrigadiere Massimo Patrizio Furlan. Tempo mezz’ora e sono al bancone di in un bar della stazione Termini, a prendermi un cappuccino e un cornetto assieme al mio angelo custode.

«Posso confessarvi una cosa, dottore?» fa Caiello.

Annuisco, incuriosito. «Certo, ci mancherebbe.»

«Come vi ho detto io sono un grande ammiratore del vostro genio, però voi con Napoli avete esagerato.»

Lo guardo, un po’ interdetto. «Esagerato, dice?»

«Esagerato, dottò. Ora, io sarò anche di parte che ci sono nato e cresciuto, ma io considero Napoli la città più bella del mondo e superiore anche alla Caput Mundi, però se voi a Roma l’avete descritta come na munnezza di città, con Napoli ci avete messo il carico da novanta. E la camorra, i morti ammazzati, l’omertà, la corruzione, la droga, le piazze di spaccio, i piccirilli senza istruzione e senza speranza che diventano criminali al soldo delle cosche. Dottò, lo scorso anno Napoli ha vinto il premio come “Prima Città di Scienza e Cultura dell’Impero”, i notabili dell’Impero tutto ci fanno carte false per avere le ville con vista Golfo… ma nei vostri romanzi fa veramente schifo. Ma si può sapere il motivo di tanto odio?»

Mentre parla, il carabiniere si agita e gesticola. Si è infervorato. Si capisce che alla sua città ci tiene. Ci tiene eccome. E mi sta chiedendo conto di come l’ho trattata. Allargo le braccia. «Caiello, lei ha ragione da vendere, ma a qualcuno doveva pur toccare, no? Guardi che anche io considero Napoli la più bella città del mondo» dico. «La veda da una prospettiva diversa: consideri quello che succede nei miei romanzi come una sorta di attestato di stima: più un posto è bello nella realtà, più nelle storie che scrivo devo farlo sembrare il più brutto che posso.»

Rimango a osservare Caiello, che però non sembra troppo convinto.

«È un trucco narrativo, capisce?» aggiungo, allargando le braccia. «Solo un trucco narrativo.»

«Così la gente si mette paura e compra più libri» risponde lui, come parlando tra sé e sé.

«Una cosa del genere» concludo, poi insisto per offrirgli la colazione e andiamo a farci un giro al centro commerciale. Esulto quando, al secondo piano, vedo l’insegna di un grande negozio di articoli sportivi, il Gymnasium. È esattamente quello che cercavo. Scelgo con attenzione ciò che mi serve, mentre Caiello si guarda l’attrezzatura da pesca.

Pago con la carta e scendiamo al piano terra, diretti alla libreria; prima di entrarvi dico al carabiniere che devo andare in bagno.

«Volete che vi tengo io le buste, dottò?» fa Caiello.

«No, ci mancherebbe» rispondo.

Entro con tutta la calma del mondo, guardandomi alle spalle più volte: voglio essere certo che nessuno mi segua. Immagino che le spie dei giapponesi si stiano tenendo a una certa distanza, visto e considerato che c’è un carabiniere a farmi compagnia. Una volta all’interno mi precipito dentro l’ultimo bagno, quello più vicino alla parete di fondo. Su quella parete, a un metro e mezzo da terra, c’è una grande finestra che si affaccia direttamente sulla strada accanto alla stazione; una finestra senza grate.

Mi cambio più in fretta che posso. Getto a terra cappotto e completo di Sergio, e la stessa sorte riservo a camicia, cravatta e scarpe. Poi mi rivesto con scarponcini da trekking, pantaloni scuri da caccia, maglia termica, felpa nera con cappuccio e giacca impermeabile grigia, la più anonima possibile. Completa il quadro un orologio da polso anfibio.

Tiro giù il cappuccio della felpa a coprirmi la fronte e alzo la zip della giacca a vento fin quasi sul naso, che assieme agli occhi è rimasta l’unica parte del viso scoperta e visibile. Metto il borsello a tracolla, afferro il cestino della spazzatura e apro appena appena la porta del bagno, pregando che Caiello non sia entrato a cercarmi. Non c’è.

Aspetto che i due tizi intenti a lavarsi le mani finiscano, esco e mi precipito alla finestra. Uso il cestino come scala improvvista e mi isso sul davanzale. Mentre apro la finestra sento lo scarico di uno sciacquone. La porta del bagno si apre proprio mentre salto dall’altra parte. Atterro al fianco di una signora che si trascina dietro due buste della spesa. Si allontana senza prestarmi troppa attenzione, borbottando non so cosa.

«Mi scusi» le dico, rimettendomi in piedi. Sono anni che il ginocchio sinistro mi da problemi, e la fitta che sento dopo il salto non promette nulla di buono.

Mi guardo attorno, con la speranza che oltre alla signora nessun altro abbia fatto caso alla mia prodezza da ninja. Stringo i denti e cammino a passo spedito verso l’ingresso della metropolitana. Tiro fuori il biglietto che ho acquistato al bar, lo infilo nella macchinetta vidimatrice e mi lascio inghiottire dalla fiumana di persone che stanno scendendo per le scale. A quanto capisco dalle conversazioni che rubo, il lancio del modulo lunare è andato alla grande.

Cambio treno una dozzina di volte, guardandomi attorno di continuo e facendo bene attenzione a scendere e salire dai vagoni sempre all’ultimo istante, per seminare eventuali inseguitori. Quando riemergo dal sottosuolo, alla fermata dell’eur, provo una sensazione strana; da una parte mi sento libero, da un’altra spiazzato. Da quando mi sono risvegliato in questo mondo ho sempre avuto qualcuno accanto. C’è sempre stato un buon samaritano disposto a prendersi cura di me, che si trattasse di un’anziana infermiera, di un maggiordomo robot, del mio migliore amico o di una ragazza innamorata.

Ora non c’è più nessuno. Sono solo. Mi siedo su una panchina e rimango a riordinare i pensieri. Di fronte a me il laghetto, bello come non mai. Cascate alte trenta metri, giochi d’acqua, statue di Nettuno e delle Naiadi.

Cosa devo fare? Contattare Paul Santamonica, per prima cosa, e vedere a che punto è l’indagine. Poi devo trovare un posto dove stare, e un’automobile. So di non essere ricercato, ma so anche che i pretoriani non mi molleranno tanto facilmente, visto che dal loro punto di vista io sono forse l’unico che può condurli a Rojas. E lo stesso vale per i giapponesi. «Ragiona, David, ragiona» continuo a ripetermi.

Primo problema: l’auto. Se usassi la carta per comprarne una, riuscirebbero a saperlo? E in quanto tempo? Non ne ho idea, non so come funzioni questo dannato mondo. Sarebbe il colmo se, dopo aver fatto perdere le mie tracce, mi facessi rintracciare perché il modello e la targa della vettura appena comprata venissero segnalate a ogni pattuglia. No, niente auto, troppo pericoloso.

Secondo problema: dove alloggiare. Immagino che per prendere una stanza dovrò mostrare i documenti. Chelli e Smiti potrebbero risalire a me? E i giapponesi? Troppe domande, nessuna risposta buona. Forse sono solamente paranoico, o forse no.

Penso di nuovo ai film e ai romanzi: quando certe cose si vedono o si leggono sembra tutto semplice, scontato. Non conto neanche le volte in cui ho visto un tizio impacciato e un po’ timido trasformarsi in un avventuriero senza paura, capace di maneggiare attrezzature complesse o armi sofisticate con il piglio di un veterano dell’esercito. Nella realtà, però, non è così che funziona, e io mi trovo in seria difficoltà anche solo per decidere dove cazzo andare a dormire.

«No, non è così che funziona, dannazione. Manco per niente» sibilo.

Alla fine mi alzo, diretto al bar più vicino. Prendo una scheda telefonica da ventimila lire: devo chiamare Paul Santamonica e chiedere consiglio a lui. Mi infilo in una cabina e prego di trovarlo in ufficio. E invece niente, squilla a vuoto fino a che non parte la segreteria. Riaggancio; non ho nulla da lasciargli detto, non finché non avrò un posto dove stare e un numero a cui farmi richiamare.

Mi viene in mente il parco giochi che si vede dal palazzo dell’investigatore. Un parco giochi così grande deve attirare un sacco di visitatori, e quindi là attorno deve essere pieno di alberghi di più o meno ogni categoria. Magari posso trovare qualcuno disposto a prendere i miei soldi in cambio delle chiavi di una stanza, senza fare troppe domande e senza chiedere documenti. E mi troverei a due passi dall’ufficio di Santamonica.

L’unico problema è come arrivarci: non voglio prendere un treno a Termini. Torno al bar, ordino un caffè e faccio un paio di domande al ragazzo dietro al bancone, poi mi dirigo alla metro.

Nel mio mondo l’Anagnina è il capolinea della linea metro che arriva a Roma sud, e da lì partono e arrivano gli autobus per più o meno ogni destinazione. Le cose non sono cambiate. Una volta arrivato all’Anagnina, penso a mettere qualcosa nello stomaco, visto che ho un certo appetito.

Di scelta ne ho quanta ne voglio; la stazione è molto trafficata e piena di negozi e servizi di ogni tipo. Si va dalla pizzeria al taglio al bar che vende primi, secondi e contorni già pronti, passando per i paninari e le yogurterie. Non mancano locali che propongono cucina tipica giudaico romana e gli immancabili chioschi giapponesi. Ne ho visti un po’ ovunque, e mi chiedo se a Tokio sia la stessa cosa.

Per un istante, mi immagino a passeggiare per la capitale dell’altro Impero, osservandone la bellezza e lo stile di vita. Per poi fermarmi a mangiare una carbonara o una cacio e pepe, una pajata o una coda alla vaccinara in qualche locale di street food a tema Roma imperiale.

Passo accanto a un grande distributore automatico, di fronte al quale c’è una discreta fila. Mi fermo, incuriosito da ciò che vi vedo disegnato su. Un pagliaccio dai capelli rossi su cui campeggia la scritta: Mastro Donaldo, le svizzerine migliori dell’Impero.

I primi della fila sono un paio di ragazzi. Uno di loro inserisce una banconota e si accende un display sul quale appare un hamburger antropomorfo con addosso una buffa t-shirt con il logo dell’azienda. L’hamburger sorride, si presenta come Svizzerina Donaldina e gli chiede se può consigliare il listarello grande. «No» fa il giovane, ma Svizzerina Donaldina non molla, e inizia a proporre questo e quel listarello, sciorinando offerte speciali e relativi prezzi.

«Non mi interessa nessuna delle tue proposte del cazzo, macchina parlante di merda. Voglio due svizzerine al formaggio e due Roma cola. Ebbasta» urla il ragazzo, mentre il suo amico gli tira una serie di gomitate leggere sul fianco, ghignando e incitandolo a insultare la macchina con una sfilza di: «Daje, daje».

Il distributore automatico ronza per un attimo e dopo, proprio all’altezza della mano dell’hamburger animato, si apre uno sportello da cui esce un vassoio con sopra il resto, le coche e due sacchetti con dentro i cheeseburger.

«Grazie per aver acquistato da noi e arrivederci!»

«Ma vattenaffanculo» rispondono in coro i due ragazzi.

Appena si allontanano, la signora che ho davanti si volta. «Canaglie e ribaldi! Marmaglia da Cloaca che bene starebbe nel Colosseo a cibare le belve» fa, con aria solenne.

Annuisco, esco dalla fila e mi dirigo a un chioschetto; mi sono deciso per un tradizionale panino prosciutto e mozzarella, che accompagno con una birra chiara. Mangio con calma, mentre mi chiedo se sia il caso di fare una telefonata a Sergio, giusto per dirgli che sto bene.

Potrei approfittare per chiedergli se in mattinata ha sentito Iris, cosa che è quasi sicuramente accaduta; avranno passato un po’ di tempo al telefono per parlare di me e di come e quanto sia uscito fuori di testa. Prendo un caffè e ci fumo su una sigaretta. No, non mi va di sentire Sergio. Non mi va di sentire proprio nessuno. Non ancora, almeno.

Ripenso alle parole della signora: «Marmaglia da Cloaca». Devo trovare il modo di capire cosa sia questa Cloaca di cui ho già sentito parlare da Negretti e Santamonica. Il detective ha detto che il numero di Rojas gli sembra di quella zona e se, come immagino, si tratta di un quartiere malfamato, meglio farmi un’idea.

Vago tra i vari negozi e negozietti della stazione, fino a che non trovo una libreria. Sono accolto dalla mia faccia sorridente: c’è un espositore pieno dei miei romanzi, alcuni sistemati in modo da mostrare la parte posteriore della copertina, quella con il mio viso.

Guardo istintivamente il mio riflesso nella vetrina: riconoscermi è quasi impossibile. Chiedo se c’è qualcosa che parli della Cloaca a un commesso gentile e disponibile. Dopo qualche istante di ricerche trova un saggio di psicologia sociale e un testo di diritto sui Decreti Imperiali riguardo le province e le regioni a statuto speciale che, tra le altre cose, parla anche delle Cloache. Li prendo entrambi ed esco da lì.

Il piazzale degli autobus sembra uno strano incrocio tra uno spazioporto e un giardino di una villa rinascimentale, il tutto condito da archi e colonne tipiche dell’architettura romanica, statue e mezzibusti di marmo e bronzo raffiguranti imperatori, aquile imperiali e personaggi che mi sono più o meno noti.

Gli autobus sono parcheggiati nei viali che tagliano un parchetto pieno di alberi, piante, fiori e giochi d’acqua. Ogni viale è numerato progressivamente e per arrivare ai bus si può passeggiare per il giardino, oppure ci si può far trasportare da dei nastri mobili simili a quelli presenti negli aeroporti, se non che questi hanno su delle vere e proprie panchine. Tra gli alberi, dei display che sembrano sospesi nell’aria, con sopra segnati orari di partenza, destinazioni, i numeri dei viali da dove partono i mezzi, le fermate effettuate e l’orario di arrivo previsto.

Mi dirigo al viale 15, da dove partono gli autobus per il parco giochi Imperiale. A quanto leggo su alcuni cartelloni pubblicitari, accanto al parco sorge anche uno dei centri commerciali più grandi dell’Impero. Salgo e mi sistemo in una delle ultime file, su di un sedile fin troppo comodo: non appena partiamo scivolo in un dormiveglia leggero, cullato dal rumore del motore. Ogni tanto apro gli occhi e osservo oltre il finestrino, dove un paesaggio da cartolina sembra ricordarmi con insistenza che questo non è il mio mondo. Mi costringo a rimanere sveglio e cerco di concentrarmi su Rojas. Mi chiedo quanto ci metterà Santamonica a trovarlo, e provo a immaginare il nostro incontro.

«Una pistola» mormoro. «Mi serve una pistola.»

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