PAUL SANTAMONICA
mercoledì 04 dicembre
Torno nel mondo dei vivi con la testa che scoppia. Bicchiere e bottiglia non ci sono più. Sulle ginocchia ho un plaid soffice e caldo; Adelmo mi ha tolto le scarpe e messo accanto ai piedi un paio di pantofole.
In biblioteca trovo il tavolo già apparecchiato per la colazione. Ci sono anche le medicine prescritte da Herlinga e un tovagliolo con una pasticca bianca, accompagnato da un biglietto: Prenda questa, se ha mal di testa. È miracolosa.
L’efficienza dei maggiordomi robot. Mangio con calma, poi mi rigiro gli psicofarmaci tra le mani, più per curiosità che per altro: non ho nessuna intenzione di seguire i consigli dello psichiatra. Consulto l’orologio che ho al polso: le dieci. Mi dà troppo fastidio, non sono più abituato a portarne uno; così, lo sfilo e lo lascio sul tavolo. Una doccia e sono in camera di Sergio, a frugare nel suo armadio.
Jeans anonimi e camicia bianca. Una volta pronto chiamo Adelmo e gli faccio indossare la mia giacca e un cappello, mentre io metto addosso impermeabile e cappello del maggiordomo. Entriamo in garage dalla porta interna, quindi il robot mi consegna le chiavi dell’utilitaria.
«Il telecomando del cancello principale situato sul davanti del giardino si trova nel posacenere. I documenti dell’auto sono invece riposti in una cartellina, nel cruscotto» dice, poi si infila nella più grande delle automobili.
Sbircio dalla finestrella del garage con il cuore in gola. Adelmo supera il cancello e gira a sinistra. La Maserati dei pretoriani si avvia pigramente nella stessa direzione. Lascio passare qualche minuto, poi entro nell’utilitaria ed esco anche io. I carabinieri rimangono al loro posto. Il mio piano, per quanto banale, ha funzionato.
«Paul S, sto arrivando» mormoro, baldanzoso. Il mal di testa se ne è andato e mi sento bene. Carico.
Arrivo in una mezz’ora. Ha iniziato a piovigginare e il cielo si è fatto scuro e cupo. Esco dall’auto e do un’occhiata al panorama. L’ufficio di Paul S si trova in un complesso di palazzoni in periferia, su una collinetta da cui si gode una vista privilegiata sul parco giochi di Valmontone. Solo che non è il Rainbow Magic Land che conosco. Sui cartelli tutt’intorno leggo: Parco giochi Imperiale di Roma.
Ed è enorme, il più grande dell’Impero, c’è scritto.
Le statue di Topolino e Paperino competono in altezza con dei castelli fiabeschi costruiti utilizzando una sorprendente contaminazione tra stile romano antico e il puro stile Disney. Porticati con colonne e torri gugliate. Il nome Disney non compare da nessuna parte, però: la proprietà del complesso è della Sezione Culturale e Ricreativa dell’Impero Romano. Ci sono anche delle imponenti montagne russe e un enorme edificio rotondo che rappresenta la Luna.
Mi incammino verso il complesso di edifici. Nel parcheggio ci sono dei ragazzini che giocano a fare i gladiatori con dei bastoni di legno. Un altro gruppo di giovani è impegnato in un’improvvisata partitella di calcio; almeno questo non è cambiato.
Schivo un paio di pallonate e arrivo al portone della seconda palazzina. Cerco tra i citofoni. Paul S – Occhio privato c’è scritto su uno di quelli della scala A, con un tratto blu che ha perso molto del suo colore originale. È l’unica scritta fatta a mano, ed è sbiadita.
Rimango con il dito posato sul citofono, incerto se premere o meno. Va bene la discrezione, ma così mi sembra troppo. Possibile che sia una fregatura? Anche il posto mi lascia un po’ perplesso: sì, è tutto pulito e ordinato, ma si tratta pur sempre di palazzoni in periferia. Il peggio che ho visto da quando mi sono risvegliato in questo mondo, a conti fatti. Una parte di me urla di correre via a gambe levate e di rivolgermi a una grande agenzia. E tanti saluti alla discrezione. Ma oramai sono qui.
«Fanculo» mormoro. E premo sul citofono. Poi ritiro la mano, come se l’avessi posata inavvertitamente sul fuoco del fornello acceso. Se mi risponde entro cinque secondi, bene; altrimenti via di corsa.
«Uno, due, tre quattro, cinque» conto. Mi volto, e proprio mentre faccio il primo passo in direzione dell’auto il citofono ronza e una voce roca e impastata mi raggiunge: «Sì? Chi è che rompe?». Non dico nulla, ancora indeciso se rispondere o no. «Dannati ragazzini. Andate a farvi fottere» continua la voce.
«Mi scusi» faccio. «Sto cercando Paul S.»
Silenzio. Sembra che ci stia pensando sopra. «Sali. Ultimo piano. L’ascensore è rotto.»
Entro, e la mia attenzione è catturata da dei pannelli che occupano tutto lo spazio disponibile sui muri dell’androne. C’è scritto che i lavori di riqualificazione del quartiere inizieranno i primi di gennaio. Le immagini mostrano palazzi futuristici immersi nel verde, e si sottolinea come, entro due anni, qui arriverà anche la metropolitana. Le case incrementeranno il loro valore dalle tre alle cinque volte.
Raggiungo il pianerottolo del settimo e ultimo piano, dove a una vecchia porta di legno con i vetri scuri è fissata una targa d’ottone.
Paul Santamonica – Occhio Privato.
Busso. «È aperto» fa la voce roca. Entro in una minuscola stanza d’attesa piena di vecchi poster. Ci sono due porte. Sopra la prima, chiusa, qualcuno ha scritto Servizi con un pennarello nero. Dalla seconda invece, semi aperta, filtra una luce gialla. «Vieni avanti» continua la voce. Varco la porta, e la sensazione di essere in un film d’epoca mi avvolge ancora, più forte che mai. Se non fosse per due schermi ultrapiatti appesi alla parete, sarebbe perfetto come il set di un vecchio noir.
C’è freddo. Disordine e caos regnano sovrani, l’aria è impregnata di fumo. La scrivania è illuminata dalla luce della lampada che ho visto nell’unica foto presente sulla pagina pubblicitaria dell’investigatore, e sopra c’è una gran confusione. Tra fogli sparsi, cartelline polverose e cianfrusaglie varie vedo la Colt, il tesserino da investigatore privato, una bottiglia di quella che giudico una sottomarca di whisky – Distillato del Gladiatore, c’è scritto sull’etichetta – e diversi posaceneri con dentro decine di mozziconi. Il posto dà l’impressione di non vedere qualcuno che pulisca, o un cliente, da dio solo sa quando.
Seduto dietro la scrivania, con una sigaretta in una mano e un bicchiere mezzo pieno nell’altra, c’è un uomo sulla sessantina che indossa un vecchio impermeabile e un cappello. Ha una faccia dura come la pietra, la barba di qualche giorno e due occhi chiari e freddi che sembra ti possano aprire con la facilità di una lama affilata. E leggerti dentro con quella di una macchina radiogena.
«Paul Santamonica?» chiedo, cercando di ostentare una sicurezza che in realtà non ho.
«Così si dice. Siediti» risponde lui, con una voce che si porta dietro l’eco dei suoi vizi.
L’accento è strano, un incrocio indefinibile tra campano e qualcosa che non riesco a decifrare. Mi chiedo da dove venga, costui. L’uomo fa un ultimo tiro, spegne la sigaretta e dal cassetto della scrivania prende un bicchiere che riempie a metà con il contenuto della bottiglia. Me lo mette davanti, senza chiedermi nulla. La possibilità che non abbia voglia di bere non è contemplata, evidentemente. «Allora? Quale rogna ti porta qui?» chiede.
Provo a spiegargli la situazione, ma rimango sul vago. «Diciamo che devo trovare una persona e che la faccenda è delicata» rispondo. Una parte di me vuole capire se posso fidarmi o meno, un’altra sta cercando una qualunque scusa per correre via.
Il viso quasi inespressivo di Paul Santamonica si contorce in una smorfia che interpreto come un accenno di sorriso. Poi l’uomo butta giù il whisky e mi pianta in faccia i suoi occhi spaventosi.
«Vuoi trovare Rojas prima che lo trovi la guardia pretoriana, giusto?» ghigna. «Roba di lavoro o roba di politica? No, non dirmelo. In fondo non me ne frega un cazzo. E stai tranquillo, non me ne frega un cazzo neanche dei romani o dei giap. Però ti chiederò un supplemento, per il rischio. Vedi: aiutarti senza passare informazioni ai pretoriani potrebbe costarmi caro. A te invece costerà bei soldi. Non la mia solita tariffa, ma un prezzo forfettario. Vediamo un po’: diciamo duecento milioni di lire. Prendere o lasciare. Ma se lasci, sappi che chiunque altro a cui ti dovessi rivolgere alzerà la cornetta per chiamare i tribuni militari un secondo dopo che sarai uscito dalla porta. Non possono rischiare la licenza e la rovina.»
Rimango a bocca aperta, mentre lui si accende un’altra sigaretta e si riempie ancora il bicchiere.
«Ma come hai fatto a capire» mormoro, mentre mi tolgo il cappello.
«Ti hanno seguito?» risponde lui.
«Seguito? No, sono stato attento.»
«Bah, se qualcuno ti ha seguito, peggio per lui. Ti ho riconosciuto subito, nonostante il tuo travestimento, o come lo vogliamo chiamare. Ho ancora gli occhi buoni, e non scordo mai un particolare. Giorni fa è uscita la storia che Rojas era implicato nel fallito attentato all’Imperatore, e che era scomparso. Poi ecco che i giornalisti smentiscono tutto, ma io ho le mie fonti, ho i miei uccellini che mi dicono le cose, capisci? Lo so che la guardia pretoriana lo sta cercando. E poi arrivi tu, ti presenti mezzo travestito e mi dici che devi trovare una persona. E così ho fatto uno più uno. Ero la migliore delle spie legionarie, prima di lasciare. E sono ancora il migliore, ragazzo mio.»
Parla con un tono strano. Con una punta di malinconia, forse. In ogni caso, questo sembra essere l’uomo che fa per me; magari mi sta fregando sul prezzo, ma poco importa: non sono soldi miei. Prendo il bicchiere e mando giù; altro che lo scotch pregiato di Sergio: questa roba sembra benzina, e brucia. Mi sforzo di non tossire e allungo la mano: «Vada per i duecento milioni» rispondo, e tiro fuori il fazzolettino con il numero di telefono. Gli dico che, oltre a trovare l’indirizzo, deve controllare se Rojas è lì. Gli spiego anche della mia amnesia, senza accennare ad altre dimensioni: ho sbattuto la testa, e non mi ricordo più determinate cose, come quell’appunto sul fazzolettino.
«Un’amnesia da duecento milioni» fa l’uomo. «Non vorrei sbagliarmi, ma questo è un numero della Cloaca» continua, tra sé e sé.
È la seconda volta che sento parlare di Cloache. Ripensando alle parole di Negretti, immagino ci si riferisca a dei quartieri malfamati di Roma. Poco me ne importa dove si è nascosto lo spagnolo, basta che costui riesca a trovarlo.
Paul si appunta il numero e mi rende il fazzolettino, intimandomi di bruciarlo davanti a lui. Mi ordina di trascrivere il numero sull’agenda, con una crittografia semplicissima. Uno 02 al posto dello 06, ad esempio, e poi aumentare tutte le cifre di uno o due, come preferisco. Il nome? Un Marzio Rossi qualunque va bene.
Quando ho finito, mi consiglia di passare i giorni successivi tappato in casa, ad aspettare che lui faccia il suo lavoro. Mi consiglia anche di non parlare più con i tribuni militari e di guardarmi le spalle tanto dai repubblicani che dai giapponesi, visto che per quanto ne sappiamo potrei come non potrei essere implicato nell’attentato. O in qualunque altra storia più o meno fantasiosa, più o meno pericolosa.
Dopo avermi illuminato sulle precauzioni basilari da prendere, mi passa un biglietto da visita con il codice di un conto bancario. Devo versargli lì cinquanta milioni, come anticipo. Mi dice di farlo in giornata, perché si attiverà solo a bonifico ricevuto.
«Il resto, s’intende, lo verserai a lavoro finito.»
«Quanto ci vorrà?» chiedo.
«Non meno di ventiquattr’ore, non più di settantadue» risponde. Ottimo: pensavo che avrei dovuto aspettare molto di più. «Se non c’è altro» conclude, allungando la mano.
In effetti, qualcos’altro c’è. «Tu sei di origine americana, giusto? L’accento, il tuo nome» chiedo.
«Io ci sono nato, in America» risponde. «I miei erano emigranti. Mio padre ci fece fortuna, a Nuova York. Era un uomo di Don Vito Corleone.»
«Un attimo» lo interrompo, pronto a ribattere che il Padrino non è mai esistito, è solo un personaggio letterario di Mario Puzo, reso celebre dal film di Francis Ford Coppola. Poi mi ricordo dove mi trovo, e sto zitto.
«Cosa?»
«Niente. Continua pure.»
«C’è poco da dire. Era il 1961. A new York c’era una guerra tra clan. Nel mondo la guerra fredda. Avevo un anno quando mio padre mi mise su una nave per l’Italia, assieme a mia madre. Ci salvammo per questo. Quando piovvero le bombe noi eravamo in mezzo all’oceano. Questa Colt è l’unico ricordo che mi è rimasto di lui, oltre ai racconti di mia madre.»
«E come ci sei finito qui?» chiedo, indicando con la mano la stamberga in cui ci troviamo.
L’investigatore riempie di nuovo i bicchieri e mi invita a brindare con la sua dinamite velenosa. Bagno appena le labbra. «È curioso che sia proprio tu a farmi questa domanda» risponde, alla fine, indicando una vecchia foto incorniciata, appesa alla parete in un angolo della stanza.
Devo alzarmi e avvicinarmi, per capire di cosa si tratti. «In che senso?» chiedo, mentre cerco di decifrare quello che vedo. Un gabbiotto di legno marcito sepolto dalla vegetazione, in mezzo a quello che sembra un incrocio. L’asfalto è saltato in più punti, come se ci fosse stato un bombardamento. Sullo sfondo palazzi semidistrutti, dalle cui finestre vengono fuori alberi dai rami strani e contorti, roba mai vista in natura.
Ma la cosa più incredibile è quello che c’è davanti al gabbiotto. Un cane con tre teste. È girato verso l’obiettivo, e ognuna delle tre teste guarda verso la macchina fotografica con l’espressione feroce di chi non vede l’ora di azzannarti alla gola. Dalle bocche cola una bava giallognola, e tre paia di occhi di fuoco mi guardano come se volessero uscire dalla foto per farmi la festa. Ho gli incubi assicurati per una settimana, come minimo.
«Sono anni che ogni volta che vedo la foto penso a te. E ogni volta che un servizio in televisione o una pubblicità parla di te, guardo la foto. Non lo riconosci, quel posto? Eppure ha dato il nome al romanzo che ha fatto la tua fortuna» dice l’investigatore, alzandosi. Mi accorgo solo ora che è altissimo. Imponente. «Berlino. Questa è la Friedrichstraße, all’altezza dell’incrocio con la Zimmerstraße. Il Checkpoint Charlie, ragazzo mio. La foto l’ho scattata nel 2000, durante la mia ultima missione con i legionari.»
Paul Santamonica toglie la foto dal muro e torna a sedersi. La pulisce dalla polvere con un panno e la posa sulla scrivania, con delicatezza, proprio accanto alla Colt. La giostra dei ricordi si sta mettendo in moto, glielo leggo negli occhi. E io ho il posto in prima fila per questo particolarissimo giro. L’occhio mi va alle sagome degli ottovolanti che sfrecciano oltre la finestra dai vetri opachi.
«È strano il destino, a volte. Fu lì che iniziò tutto, eppure quell’incrocio fu uno dei punti di Berlino in cui i bombardamenti fecero meno danni. Sai, l’Impero ha iniziato a farci esperimenti strani, lì. Quella zona è incredibile, credimi. Nel 2000 era ancora fottutamente radioattiva. Più radioattiva del resto d’Europa, o di buona parte degli Stati Uniti. Nessuno sa perché. Nessuno sa cosa sia successo davvero, a Berlino. Dovevamo metterci le tute speciali e tutto quanto. E quello che abbiamo visto…
«Pensi che questo cane faccia paura? Sembra Cerbero che controlla i cancelli dell’inferno, non è vero? Be’, ti assicuro che non è niente. Ci sono delle comunità di uomini, in quella zona. Uomini, capisci? E donne. E bambini. Li hanno lasciati lì per sessant’anni, per studiarli, o salcazzo cosa. E anche i giap fanno lo stesso, dalla loro parte del mondo, sai? Cavie umane.
«Quello che ho visto in missione non lo scorderò mai. Siano maledetti tutti quanti. Quando sono tornato mi sono dato malato. E poi mi sono licenziato. Addio legione e tanti saluti. Sono stato un paio d’anni in Sud America, nelle terre contese tra i due Imperi, poi sono tornato in Italia. È comunque il paese più bello del mondo, senza dubbio. E io ho la fortuna di avere la cittadinanza romana, quindi ‘fanculo: mi son detto, perché non godermela?»
Rimaniamo in silenzio per un paio di minuti. Paul sembra perso nei suoi pensieri. Si versa un altro bicchiere e lo fa fuori come se fosse acqua fresca. Non so se beva per affogare i ricordi, ma se così è, quei ricordi devono saper nuotare meglio di un olimpionico di nuoto. Il tempo della malinconia dell’investigatore finisce con l’ultimo sorso di distillato. «Bene. Direi che non c’è altro. Aspetto i tuoi soldi, allora» dice, con un tono che non ammette repliche.
Io balbetto un saluto ed esco dall’ufficio fumoso. Prima di andarmene lancio un’ultima occhiata a quella dannata foto, mentre provo a immaginare come dovevano essere gli uomini che ha visto nelle terre radioattive di Berlino.
Fuori ha preso a piovere forte, e davanti al parcheggio dei palazzoni sono rimasti solo due ragazzini. Uno se ne sta tra due tubi di scolo dell’acqua piovana, i fantasiosi pali della porta improvvisata, e urla: «Tira, dai. Tanto non segni».
L’altro rincorre un pallone malconcio, cercando la posizione ideale per poter smentire il suo amico senza esser tacciato di codardia per averci provato da troppo vicino.
Guido perso tra le fantasie più allucinate. Bambini sbranati dai leoni, cani a tre teste, uomini di cui non oso immaginare le figure… sembra che questo mondo sia più o meno perfetto per chi vive a Roma, e forse in tutta Italia, ma quando ci si allontana dal centro dell’Impero?
Non voglio neanche pensarci. Nonostante Iris, oramai sono deciso a tornarmene da dove sono venuto, e tanti saluti alla vita da scrittore ricco e famoso. Una vita che non è la mia, in un mondo che non è il mio. Un mondo che mi fa una paura fottuta.
Arrivo a casa di Sergio quasi senza accorgermene. Le macchine dei carabinieri e dei pretoriani sono sul ciglio della strada, accanto al cancello. Adelmo mi accoglie con visibile sollievo e mette a scaldare il pranzo, pronto da un pezzo. Mangio in fretta, poi faccio il versamento concordato a Paul Santamonica.
Ora devo solo starmene tranquillo e aspettare. Mi alzo e ciondolo per la biblioteca, in cerca di qualche autore che mi dica qualcosa. C’è uno scaffale con decine di libri di Stefano Re. Non riesco a crederci. È lui, dunque, lo Stephen King di questo mondo? Un bergamasco. Sulla copertina di uno dei suoi romanzi, La cosa, c’è un mostro che porge un palloncino a un bambino. Il mostro è vestito da Arlecchino. Rimetto il libro a posto. Lascio che lo sguardo vaghi tra i testi, fino a quando gli occhi cadono sul dorso di un volume. Riconosco il nome dell’autore: Nataniel Rojas.
Il libro si intitola Ricordi andalusi. Lo sfilo dalla libreria, curioso di sapere di cosa scriva l’uomo che sto cercando. Controllo la quarta di copertina e quando vedo la foto dell’autore mi prende un colpo: l’ho già vista, questa faccia. Appartiene al passeggero che avevo accanto sul volo che da Palermo mi ha riportato a Roma. Quello a cui ho chiesto di poter fare una telefonata, a Fiumicino.
Certo, l’uomo nella foto non ha la barba e i baffi e non porta gli occhiali, ma sono sicuro che sia lui. Magari si era travestito, visto che in quel momento doveva essere ricercato in tutto l’Impero. Mi chiedo cosa ci facesse a Palermo. Non ha senso. E il fatto che fosse sul mio stesso volo, addirittura seduto accanto a me, non può essere un caso. Non riesco a raccapezzarmi. Più questa storia va avanti, più alle tante domande senza risposta se ne aggiungono altre. Intanto, sento la porta di casa aprirsi, e la voce di Sergio riempire l’aria: «Salve gente, sono tornato».