Capitolo 14

 

sabato 07 dicembre

 

Imperial soldier, dreadlocked rasta.

Una musica. E una voce.

There was a Imperial Soldier in the heart of America.

Una musica e una voce che conosco.

Stolen from Africa, brought to America.

Bob Marley.

Fighting on arrival, fighting for survival.

Apro gli occhi.

Qualcuno sta ascoltando Bob Marley. O meglio: il Bob Marley di questo mondo. Sorrido al pensiero che non sia morto nel ‘61. La Giamaica è stata risparmiata dalle bombe, evidentemente.

Ci metto due minuti buoni a rendermi conto della situazione. Sono uscito di strada. Ho battuto la testa contro il parabrezza. Guardo nello specchietto, che mi restituisce una maschera di sangue raggrumato. La gola fa male e mi sento la febbre addosso, il gelo nelle ossa. Sono rimasto in macchina tutta la notte, al freddo.

Apro lo sportello, anche se a fatica: l’auto è scivolata in un fosso profondo un paio di metri, in un buco tra arbusti, alberelli e rovi. Quando provo a uscire mi accorgo che la gamba sinistra è andata: ogni volta che la muovo, il ginocchio mi fa quasi urlare dal dolore. Per sgattaiolare fuori passo le pene dell’inferno. Vedo poco o nulla, qui sotto; mi sembra di trovarmi dentro una nicchia di sterpaglie. Una giungla dei poveri che oscura il sole. Sopra di me sento la musica reggae di Marley, e mi chiedo come diavolo sia arrivata fino a Roma.

Mi faccio forza e striscio su per la scarpata. Guardo l’auto, sotto di me. A vederla così sembra una di quelle strane sculture d’arte contemporanea che spuntano ogni tanto nei parchi o nelle piazze delle città del nord Europa, che ti fermi a osservarle e pensi se sei tu a non capirci niente o se invece, magari, gli artisti siano costretti a infarcirsi di peyote e allucinogeni per contratto, prima di lavorare a certe commesse statali.

Esco dal fosso e mi ritrovo in una piazzola. Un pulmino parcheggiato. La musica viene da lì. Riprendo fiato con la schiena a terra, sporco e sfatto. Fisso quel che rimane di un sole nascosto dalle nuvole e da una leggera foschia; è una di quelle giornate grigie in cui il colore del cielo si fonde con quello dell’asfalto. Chiudo gli occhi e incrocio le braccia, poi mi massaggio come posso, per scaldarmi un po’.

«Ehi amico, stai bene?» Riapro gli occhi. Un tipo con i rasta, vestito come un punkabbestia; ha in mano due manici di legno uniti da un filo, al centro del quale riconosco la clessidra del Diabolo.

«Io… credo di sì. Sai che ore sono?»

«Boh, poco fa erano le otto de mattina.»

Le otto di mattina. Sono rimasto svenuto per ore.

Intanto arrivano altri ragazzi, tutti vestiti in modi a dir poco fantasiosi. Fanno girare un paio di canne e guardano il rasta con fare interrogativo. Poi gli chiedono chi sono, da dove sono spuntato. Il rasta, dal canto suo, allarga le braccia. «Non lo so mica.»

«Sono uscito di strada con l’auto, stanotte» rispondo, mentre mi guardano più che perplessi. «Sono… sono finito dentro a un fosso. Con l’auto. E sono svenuto» continuo.

Poi osservo meglio il pulmino nella piazzola, un furgoncino della Volkswagen di quelli degli hippie anni Sessanta.

No, non è della Volkswagen. E come potrebbe esserlo, visto che la Germania qui non esiste più dal ’61? La casa produttrice è la Fiat, ma a parte il simbolo del marchio, per il resto è identico. E i tizi che ho davanti devono esserne i passeggeri.

«Hai avuto un incidente, insomma. Però mica sembra che stai bene, sai?» continua il rasta.

«Infatti no, non sto bene manco per niente» rispondo, mentre inizio a tremare per il freddo e la febbre.

«Venivi dalla Cloaca o ci stavi andando?»

«Ci stavo andando.»

«Vuoi un passaggio? Siamo quasi arrivati. Però bada che noi ci fermiamo alla comune Serra.»

Ignoro cosa sia la comune Serra, ma rifiutare sarebbe come sputare in faccia alla fortuna. «Magari.»

«Daje. Secco, aiutami a portarlo sul pulmino. Io mi chiamo Stefano, ma mi dicono tutti Rollo. Te?»

«Sergio. Sergio Zattin» mento. Non so neanche io perché faccio il nome del mio amico. «Come mai vi siete fermati qui, se siete quasi arrivati?»

«Dovevo da piscià» risponde Secco. «E già che c’eravamo ce siamo fermati a fumacce un par de canne che c’erano avanzate, visto mai al posto de blocco cagassero il cazzo.»

Posto di blocco? C’è un posto di blocco?

«Io non ho i documenti» farfuglio, mentre mi aiutano a salire sul pulmino. «Li ho persi.»

«Tranquillo, qui nessuno c’ha i documenti» fa Secco.

«A parte Secco, che guida» aggiunge Rollo. «Di solito ci fanno passare senza problemi. Certo, a volte gli gira di perquisire tutti. E a volte no. Nel dubbio, ci siamo fermati a fumare l’erba che ci era rimasta. Fuori dalla Cloaca è vietato portarsela dietro.»

«L’anima de li mortacci loro» aggiunge Secco. Poi sputa per terra e alza il dito medio al cielo.

Sul pulmino c’è un odore d’erba che ti stende, e una dozzina di ragazzi e ragazze che sembrano venire dritti da Woodstock. Woodstock… immagino che quel festival non sia mai esistito. Come i tre quarti dei musicisti che ci hanno suonato. O forse è esistito, ma non negli Stati Uniti.

I passeggeri sembrano tutti strafatti, le teste ciondolano a tempo con il reggae di Bob Marley. Il reggae distorto di Marley, con quelle parole diverse che mettono i brividi.

And we’re jammin’ in the name of the Bomb…

Posti a sedere ce ne sono solo in fondo e mi faccio spazio verso le ultime file saltellando su un piede, appoggiandomi ai sedili con le mani. Mi chiedo da dove tornino, costoro. A quanto ho capito vivono in una comune nel parco, e chissà cosa vanno a fare fuori dalla Cloaca tutti assieme, con il pulmino. Perché poi fumano oltre i confini dei loro territori, se è vietato? A che pro portarsi la droga dietro?

Magari sono spacciatori e hanno piazzato qualche chilo d’erba sul mercato dell’intrattenimento ludico imperiale a base di tetraidrocannabinolo. O magari sono andati al mare a vedere l’alba sorgere, in puro stile hippie. Sulla spiaggia di Capocotta, ignorando che il sole non sorge dal mare.

«Ecce Bombo» biascico, mentre siedo accanto a una ragazza che dorme accucciata sotto a una coperta coloratissima. Il pulmino riparte. Sento la fronte bruciare. Ci fermiamo dopo neanche cinque minuti, e dai borbottii dei miei compagni di viaggio capisco che stanno facendo dei controlli al posto di blocco. Inizio a pensare che devo essere io a portare sfortuna. Magari quando si passa in un universo parallelo si acquistano dei poteri particolari, e a me è capitato quello dello iettatore.

La porta davanti si apre e ne sale un giovane militare vestito da moderno legionario. «Documenti di tutti, forza» dice, in modo brusco.

Secco gli passa la patente e gli risponde che, a parte lui, nessuno ha i documenti. Rollo aggiunge che vengono dalla comune Serra, e che vogliono solo tornarsene a casa. Il militare li insulta chiamandoli “fricchettoni di merda”, poi urla a un suo collega che c’è un pulmino di zecche anarchiche da perquisire. In cerca d’erba, aggiunge, considerato l’odore pungente che sente.

Rollo e Secco prima si mettono a ridere poi, quando si accorgono che il giovane legionario non sta scherzando, protestano come possono; giurano e spergiurano che non troverà neanche una briciola di erba, o di qualunque altra droga. Alla fine, Secco dice al ragazzo che se vuole perdere tempo sono cazzi suoi. Il tono e le parole non piacciono al legionario, che lo colpisce in faccia con il calcio del fucile, spaccandogli il naso. Poi fa scendere sia lui che Rollo.

«Voialtri rimanete seduti, ci vediamo tra due minuti, tossici di merda» abbaia, prima di seguirli in strada.

Pazzesco. Ci mancava solo la giovane recluta esaltata. Questo viaggio della speranza da imboscato con un gruppo di fattoni sta per trasformarsi nella mia personalissima Waterloo. Cerco di rimanere calmo. Mi ripeto che andrà tutto bene: conciato come sono e assieme a questa combriccola, le possibilità che qualcuno mi riconosca sono pari a zero.

Rollo ha detto che nessuno si è portato dietro un documento, che cosa possono farci? Mica ci fucileranno, no? Magari si prenderanno la briga di portarci tutti in caserma e gonfiarci di botte, però. E magari ci terranno imprigionati fino al referendum. Penso al Colosseo pieno di spettatori. Alle urla della folla, mentre i prigionieri vengono sbranati da leoni e tigri. E lupi. Mi sto innervosendo sempre di più. Il tipo davanti a me si accende una sigaretta e penso bene di imitarlo, ma quando apro il borsello per tirare fuori il pacchetto, il cuore mi si ferma. La Colt. Mi ero scordato di quella dannata pistola. Se ci perquisiscono non ho scampo. E oramai scendere non è più possibile. Con i piedi, spingo il borsello sotto al sedile davanti, quindi cerco di farmi piccolo piccolo. Il giovane legionario avanza tra le file di sedili con il fucile tra le mani e il ghigno di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico. Il problema è che quel ragazzino non ha solo un coltello, ha tutto il set da cucina di lame della Wusthof, serie Classic Ikon.

Il nervosismo si tramuta in terrore. Sbircio da dietro il sedile quello che succede, con il cuore a mille. Il militare avanza, accompagnato dai mugolii di disapprovazione degli hippie che hanno ancora la lucidità per capire ciò che sta succedendo attorno a loro.

Prendo un lembo della coperta della mia vicina e lo sollevo. Cerco di tirare a me la coperta con tutta la delicatezza di cui sono capace, per non svegliare la ragazza che, beata lei, dorme strafatta e con il sorriso stampato sul viso, incurante di tutto e tutti. Voglio un po’ di coperta anche io. Voglio nascondermi sotto questa dannata coperta e scomparire. Mentre scivolo sotto il mio nascondiglio improvvisato la tizia si muove e, nel dormiveglia, allunga le mani e mi abbraccia. Mi accoccolo sul suo petto, con la coperta sulla testa. Chiudo gli occhi. Sento i passi del militare sempre più vicini, mente la puzza di sudore e di quegli abiti lerci mi sembra il profumo più dolce del mondo.

Il ragazzo mi è accanto. «Svegliatevi, pezzi di merda» urla. «Adesso uscite tutti, a uno a uno, che ci divertiamo. Forza, che è l’ora della perquisizione.»

Mi stringo alla fricchettona. Poi, una voce: «Flavio Massimo, torna qui. Abbiamo altro da fare che cazzeggiare con questi fattoni».

«Ma, signor sergente, questi cannucciari non hanno i documenti, e qui c’è un odore d’erba che ti stende.»

«E sti grandissimi cazzi. Sono gli Ippi della comune Serra. Li conosco. Si sta formando la fila. E dobbiamo controllare anche le vetture in uscita. Forza, scendi. Fino a che non arrivano i rinforzi dobbiamo fare da soli, e non possiamo perdere tempo con i tossici. Abbiamo altri ordini.»

«Fanculo» impreca il legionario. Poi mi colpisce con il calcio del fucile. Tira forte sulla coperta e mi prende sulle costole. Urlo.

«Fottiti, cojone» fa lui, allontanandosi.

La voce di Rollo e di Secco. Stanno risalendo sul pulmino. I due ringraziano il sergente, poi ripartiamo. Tiro fuori la testa dalla coperta solo dopo un paio di minuti, e respiro a pieni polmoni.

Sono dentro, nella Cloaca. Ora devo solo arrivare a piazza Ugo Foscolo. Dieci minuti e Rollo mi aiuta a scendere dal pulmino. Zoppico, e mi rendo conto di avere la febbre alta. Mi ritrovo seduto su una panchina di ferro. Di fronte a me, tra alberi e prati, c’è un confusionario agglomerato di tende, camper, bungalow, casette di legno e costruzioni più o meno bizzarre. Il tutto si estende a perdita d’occhio, sembra non finire mai. Quello che mi lascia sconcertato è l’enorme numero di pannelli fotovoltaici e solari, presenti un po’ ovunque. comune serra, leggo su un cartello.

Una ragazza con un vestito a fiori ci si avvicina. «Ma che succede?» chiede a Rollo, passandogli una canna d’erba. «Dice che stanno a fermà tutti e che arrivano altre camionette di legionari.»

Rollo prende la canna e fa un tiro. «Ma niente… ho parlato col sergente Lasca della Settima Legione, all’ingresso, lo sai che quello ha un debole per me, no? Quando può cerca sempre di darmi una mano.»

La ragazza ride. «Sì, come no, buono quello. È amico tuo quanto un tossico de roba è amico della siringa sua. Fino a che gli allunghi l’erba gratis o fino a che non se lo bevono stai sciallo. Che te ha detto?»

«Pare che cercano non so che attore, o scrittore, o musicista; un artista, tipo. Roba di spie.»

«Bada» fa la ragazza. «Lo dico e lo ripeto: sta politica imperiale c’ha proprio scassato il cazzo.»

Rollo annuisce e le ripassa la canna. La ragazza si allontana, mentre io realizzo che stanno cercando me.

«Dove si trova piazza Ugo Foscolo?» chiedo a Rollo.

«Quella è in città, in centro.»

«E come ci si arriva? Quanto è lontano?»

«Saranno cinque chilometri. Puoi arrivarci con una bici della comune, oppure puoi aspettare che parte la navetta, alle tre di pomeriggio o alle otto di sera. O ancora puoi chiedere un passaggio a qualcuno. Fai te. Però boh, non mi pare mica che stai bene.»

«A chi posso chiedere un passaggio?»

«E che ne so io?» risponde, voltandosi.

Poi, però, Rollo deve ripensarci. Immagino che gli stia facendo davvero pena. «Guarda, se vai da quella parte c’è il locale ricreativo, magari qualcuno che va in città lo trovi» aggiunge. «Di là invece ci sta la zona medica, se vuoi farti dare un’occhiata. Daje, ti ci accompagno io che stai mezzo azzoppato e secondo me hai pure la febbre alta. Forza, passami un braccio attorno al collo» conclude, in un moto di compassione.

Accetto. L’idea è quella di farmi dare un’occhiata veloce per poi andare a cercare un passaggio nel locale ricreativo, qualunque cosa sia. Me l’immagino come una grande costruzione di legno con dentro un camino acceso, panche e sgabelli, un palco per la musica dal vivo e una fitta nebbia di fumo da fare invidia a quella artificiale delle discoteche. Con dentro dei tizi seduti in cerchio, fumati d’erba, intenti a suonare bonghi e djembe con lo sguardo perso nel vuoto.

Arriviamo di fronte a un capannone. Su un cartello leggo zona medica. Ringrazio Rollo e gli chiedo se posso lasciargli dei soldi, per sdebitarmi.

«Naa, non ci faccio niente coi soldi. Quello che mi serve lo baratto con l’erba. Tieniteli per la città i soldi, e stai attento, che lì ci vive gente strana. Buona vita.»

Mi domando cosa intenda per “gente strana” ed entro. Dei tizi che assomigliano a medici e infermieri quanto io a un aborigeno australiano visitano tanto uomini che cani, gatti e conigli. Ognuno ha un suo spazio più o meno ampio con banchi, banchetti, tavoli, armadietti pieni di ampolle e pozioni colorate, tende o teli che servono a dividere gli ambienti e a garantire un po’ di privacy per le visite.

Non so dove mettermi in fila, così mi siedo su una panca di legno al centro della sala, come un avvoltoio pronto a lanciarsi sulla carogna della prima preda disponibile. Mentre aspetto noto una mezza dozzina di ragazzini; devono essere una sorta di apprendisti. Corrono da una parte all’altra del capannone, portando oggetti e medicinali da una postazione all’altra. Se uno di questi bizzarri dottori finisce una siringa o una garza, o necessita di qualunque altra cosa, manda uno dei ragazzini a barattare il necessario con una pasticca, dei cerotti o quel che sia.

Dopo un quarto d’ora di attesa si libera una postazione.

Mi alzo a fatica, con la testa pesante e il corpo scosso da brividi di freddo. Più che un avvoltoio sembro un bradipo. Zoppico fino a un tavolino, al di là del quale c’è un tizio con la barba nera che indossa un poncho. Sulla testa ha uno strano copricapo etnico sudamericano, in bocca un’enorme canna accesa. Gli occhi sono rossi e spiritati, e appena mi vede mi sorride con aria ebete.

Non mi ispira troppa fiducia. Non me ne ispira nessuna, anzi. Dice di chiamarsi Josè e si definisce uno “sciamano del nuovo millennio”. Gli rispondo che ho avuto un incidente e che non mi sento bene, che forse ho la febbre e che temo di essermi preso un brutto raffreddore. Dopo una visita veloce sentenzia che non ho nulla di rotto ma che in effetti scotto parecchio.

«Hai la febbra amigo, e un brutto edema al ginocchio, forse anche legamenti andati» fa.

Il suo accento è strano: uno spagnolo sporco. Josè mi infila un termometro sotto l’ascella, poi mi pulisce le ferite alla testa e alle mani con un infuso di erbe e con l’acqua ossigenata. Infine, mi benda. Mi spalma anche una pomata fatta con non so quali erbe sul ginocchio sinistro, e benda anche quello. Quando si riappropria del termometro scuote la testa. «Hai trentanove, amigo. Non buono.»

Mi da un paio di pasticche e mi invita a buttarle giù con una cucchiaiata di sciroppo dal sapore orribile. Tutta roba naturale, fatta da lui in persona, come la pomata, ribadisce con un certo orgoglio. Mi sento il fuoco dentro. Lo sciroppo sembra napalm.

Finita la visita, questa sorta di bizzarro sciamano mi domanda se posso lasciargli qualcosa. Una sottoscrizione, di qualunque tipo. Non so cosa dargli, e chiedo se dei soldi possono andare bene. Risponde che sì, certo, possono andare bene. Guardo nel portafoglio, poi metto sul tavolo trecentomila lire. Circa la metà di quello che mi rimane. Lui strabuzza gli occhi e la faccia gli si allarga in un gran sorriso.

«Aspetta qua» dice, e scompare dentro la tenda che c’è alle sue spalle. Ne esce dopo un minuto con una stampella artigianale di legno, un flaconcino pieno di sciroppo e una manciata di pasticche, che avvolge dentro un foglio di carta ingiallita.

«Ecco, prendi. Un cucchiaio e una pasticca dopo cena, un cucchiaio e due pasticche prima di dormire e mañana sarai come nuovo, amigo mio. Come nuovo! Garantito. E suerte!»

«Suerte a te» rispondo, provando a sorridere. Poi mi alzo, barcollo e rovino a terra.

Lo sciamano mi soccorre prontamente; mi mette a sedere, poi mi chiede dove dormo.

«Io non sono di qui. Non ho un posto dove dormire. Voglio solo andare in città» mormoro.

«No hai una casa? Non buono, non buono!»

«Non preoccuparti. Ora vado a cercare un passaggio per la città.»

«Non esiste. Tu stai in delirio, devi dormire, riposare. Altro che città. Come tuo curandero io lo proibisco, capisci?» Poi fa un fischio verso un paio dei ragazzini più vicini. «Portatelo in sanatorio. Rapido.»

I giovani apprendisti mi sorreggono fino a un altro capannone, distante un centinaio di metri da quello adibito a zona medica. All’interno ci sono una ventina di brandine. Deve essere una sorta di pronto soccorso, se non un vero e proprio ospedale. «Sparta o morte» biascico, mentre i ragazzini mi lasciano nelle mani di un’anziana suora e del suo giovane assistente guercio e gobbo.

«Cosa hai detto?» fa la donna, con modi gentili.

«Niente, sorella. Cosa ci fa una suora qui?»

«Il Signore è ovunque, e in ogni ovunque lo si può trovare» risponde lei, sorridendo. Abbasso lo sguardo, forse perché appartengo a quella categoria di uomini che non hanno mai perso troppo tempo a cercare signori, sante vergini o dei. Lei e il gobbo mi fanno sdraiare su una brandina in fondo al capannone, una di quelle più vicine ai bagni e allo spazio comune, dove c’è un vecchio mobile su cui troneggia un televisore acceso, ma con l’audio silenziato.

Di fronte al televisore un tavolino di legno, intorno al quale quattro tizi di una certa età giocano a carte. Devono essere dei pazienti, perché indossano pigiama, vestaglia e ciabatte. Quando mi vedono si fermano e rimangono a fissarmi con sgradevole insistenza, quasi vogliano mettermi a disagio. Come se non fossi già a disagio abbastanza.

«E questo chi è?» fa uno di loro. La sua vestaglia è coloratissima. Troppo colorata, per lui.

«Non lo so» risponde la suora. «Lo hanno mandato qui dalla zona medica. Deve essere un forestiero, in ogni caso ha la febbre alta.»

«Bah, mi hanno stufato questi forestieri» dice il vecchio. «Vengono qui non si sa a fare cosa e ci guardano come si guardano gli animali allo zoo. Ci manca solo che si presentino con dei fuoristrada con le sbarre e i vetri antiproiettile. E ora dobbiamo anche curarli? Si fottano!»

«Parla pulito, Gabriele» sbraita la suora. «E comportatevi bene con lui.» Poi lei e il gobbo mi tolgono le scarpe e mi avvolgono con una coperta pesante. Poggiano il borsello su un comodino basso e la stampella ai piedi del letto.

«Ora vado a prepararti una minestra, e ti prendo anche un asciugamano. Suderai parecchio» dice la suora. Appena si allontana, seguita dal suo assistente silenzioso, allungo la mano e afferro il borsello. Me lo stringo al petto, sotto la coperta. Accanto al letto, sul muro, c’è un piccolo specchio; mi allungo per vedere in che condizioni sono. Faccio paura.

I giocatori intanto hanno iniziato a borbottare. Mi sento ancora i loro sguardi addosso. «Come ti chiami? Che ci fai qui?» abbaia il vecchio con la vestaglia colorata. Mi chiedo se non sia un lontano parente del tribuno Chelli.

«Mi chiamo Sergio. Ho avuto un incidente d’auto, a qualche chilometro da qui» biascico.

«Vivi nella comune o sei un forestiero?» continua quello, piantandomi in faccia il suo sguardo arcigno.

«No, che forestiero. Io vivo in Cloaca, in centro, in città. Mi ha raccolto Rollo e… insomma: non ce la facevo a tornare a casa, ho la febbre e una gamba messa male.» Parlo con grande, grandissima fatica.

Gli altri giocatori annuiscono, ma il vecchio non molla. «E dove vivi in città? In che zona? Ho un sacco di amici lì, magari ne conosci qualcuno.»

«E basta, Gabriele» fa uno degli altri anziani. «E lascialo stare, non lo vedi che trema per la febbre e parla a stento? Sta male, cristo santo, lo capirebbe anche un cojone. E poi è un amico di Rollo, te l’ha detto. Dai ste cazzo di carte piuttosto, che voglio la rivincita.»

Il vecchio grugnisce qualcosa e mischia il mazzo. Tempo trenta secondi e nessuno mi presta più attenzione, impegnati come sono a giocare a briscola. Sprofondo nel materasso della branda. È comodo, tutto sommato, e inizio anche a sentire caldo. Non posso lamentarmi, poteva andare peggio.

Torna la suora. Mando giù un piatto di minestra bollente e un sorso dello sciroppo dello sciamano, poi la donna mi fa una puntura sulla spalla.

«Questa è per dormire. Vedrai che tra qualche ora sarai come nuovo» dice, accarezzandomi. Borbotto un grazie. Lei sorride, prende piatto e cucchiaio e se ne va. I giocatori, intanto, hanno finito la partita.

«Alzate il volume, che c’è il notiziario» fa qualcuno, mentre il mezzobusto di un giornalista spiega come avverrà l’allunaggio della Mercurio 15.

I quattro si mettono a commentare in modo entusiasta. Il servizio successivo riguarda il referendum, e qui i giocatori si dividono equamente: chi è favorevole alla schiavitù, chi contrario. Chi vuole le esecuzioni pubbliche in ogni arena, chi no. Per tutto il servizio non fanno altro che discutere con foga, arrivando quasi a insultarsi per difendere le proprie opinioni in merito.

Intanto, il giornalista è passato alla cronaca nera. Sta parlando di un efferato doppio omicidio avvenuto a Valmontone. Ascolto con il cuore in gola e i brividi che mi scuotono il corpo.

«L’investigatore è stato ritrovato, morto, nell’ufficio della sua agenzia. Accanto a lui un altro cadavere che apparterrebbe, secondo le nostre fonti, a un giovane persiano legato all’Impero giapponese, interprete presso l’ambasciata. Ci sono anche due testimoni oculari che affermano di aver visto un uomo armato allontanarsi dal luogo del delitto e sembrerebbe che quest’uomo altri non sia che il notissimo scrittore David Resti. Vediamo il servizio.»

La mia faccia. Un istante dopo su quel cazzo di televisore compare la mia faccia. La foto mostra un me sorridente, pulito e abbronzato. Penso al volto che ho visto riflesso nello specchio. Uno straccio, pallido come un morto, barba sfatta, bende ovunque, con il viso mezzo tumefatto e gli occhi arrossati coperti da degli occhiali rotti e senza stanga tenuti su da una fascia improvvisata. Nessuno può riconoscermi. Il servizio termina. Cerco di concentrarmi sulla voce del giornalista. «Al momento lo scrittore sembra essere introvabile, ma le autorità competenti stanno lavorando al caso. Si ricorda a tutti i cittadini di segnalare immediatamente la presenza dello scrittore, nel caso…»

Silenzio. Qualcuno ha tolto l’audio al televisore. I giocatori iniziano una nuova partita, e si mettono a parlare di me. Scivolo sotto le coperte e mi volto verso la parete. Le voci mi arrivano come attraverso un muro di gomma, sovrapposte e intrecciate.

«Secondo voi quel Resti è una spia giap? O addirittura un repubblicano?» dice il primo.

«Potrebbe essere. Hai visto le serie tratte dai suoi romanzi? Quale cazzo di mente malata può immaginare un mondo del genere? Solo un pazzo, te lo dico io! E i pazzi sono tutti repubblicani o giap. Cristo, hai visto la merda che mangiano, i giap? Il sushi, si mangiano quelli. Sono tutti fuori di testa, te lo dico io» risponde il secondo.

«Vabbè, ma che c’entra il sushi con lo scrittore? Secondo me non è né un giap nè un rep, quello è ricco sfondato e ho sentito che aveva anche un’amante attrice» fa il terzo.

«E allora? Ai repubblicani e ai giap non gli piace la figa, secondo te? Anzi, i giap sono i più pervertiti del mondo, non lo sai?» Conclude il quarto, il vecchio dalla vestaglia colorata.

«Sì ma…»

Inizia a girarmi la testa e perdo il filo dei discorsi.

«Secondo me invece…»

Ma è una sensazione piacevole.

«Passa la briscola…»

Liberatoria, in un certo senso.

«Rimetti l’audio che…»

Mi sembra di sprofondare nella branda.

«Certo che quel tribuno Luigi Flavio Salis è un eroe…»

Le coperte sono la mia personalissima capsula spaziale, lanciata verso l’abisso siderale dei miei pensieri. Pensieri confusi, di quelli che si affacciano alla mente di chi ha la febbre alta. Di quelli che non fai in tempo a elaborarli che te li sei già scordati.

Mi sembra che a un certo punto gli uomini smettano di giocare per guardare un programma a tema sbarco sulla Luna. Poi un altro ancora. E ancora. Le reti televisive ne sono piene. Documentari, approfondimenti, programmi che immaginano future colonizzazioni e la terra-formazione di pianeti lontani. Sembra di ascoltare una sinfonia composta da un’epica e monocorde musica trionfalistica volta ad esaltare il traguardo che l’Impero Romano sta per raggiungere: la conquista della Luna.

Io, intanto, mi sento sempre più lontano e distante. Mi sento un po’ come quegli astronauti di cui sto imparando a riconoscere nomi e storie, lanciati nello spazio cosmico. Mi assopisco, poi mi sveglio e dopo un po’ mi riassopisco. E così via. Poi si fa tutto confuso.

Forse torna la suora con dell’altra minestra.

Forse mi imbocca.

Forse mi asciuga.

Forse mi bacia sulla fronte.

Forse le dico che le voglio bene.

Link al Cap 15

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