sabato 07 dicembre
Quando mi sveglio la febbre è scomparsa. Qualunque cosa mi abbiano dato la suora e quello strambo sciamano, ha funzionato alla grande.
Non c’è più traccia dei quattro anziani, così mi alzo e zoppico fino al bagno. Quando torno alla branda c’è la suora ad aspettarmi; mi dice che devo starmene buono ancora uno o due giorni, e che devo riguardarmi per evitare ricadute. E che ci penserà lei, a prendersi cura di me. Non so se le sto simpatico o se pensa di guadagnarsi un altro pezzettino di paradiso, magari una nuvola superaccessoriata a due passi da quella di San Pietro, con vista su un’orchestra di arcangeli intenti a suonare arpe e flauti nel quartiere più elegante di Paradise City.
Sorrido, ringrazio e dico che va bene, anche se voglio solo andarmene e arrivare in città il prima possibile. La religiosa mi fa mandare giù un altro cucchiaio dello sciroppo, oramai quasi agli sgoccioli. Poi tira fuori dello spago per sistemarmi gli occhiali, nel caso avessi ancora la stanga da qualche parte. La recupero dalla tasca della giacca e la ringrazio ancora una volta.
«Ora devo passare in un altro sanatorio» dice quando ha finito, «ci vediamo per la cena; e se riesco, magari ti porterò anche una sorpresa!»
Due minuti e sono pronto ad andarmene. Mi trascino fuori da questa sorta di ospedale per disperati, con buona pace della suora e della sua sorpresa. Mi sento addosso tutta l’energia di chi ha sfebbrato ed è pronto a spaccare il mondo. Anche il tempo è migliorato, e sebbene il sole stia per tramontare non fa neanche troppo freddo, per essere inizio dicembre. Avanzo piano; ogni tanto mi fermo per far riposare il ginocchio e riflettere su cosa fare. Posso aspettare le otto e prendere una navetta per il centro, oppure posso andare al locale ricreativo e cercare un passaggio. Pagandolo, magari. Nel portafoglio ho ancora circa trecentomila lire, e sono certo che potrei trovare qualcuno disposto ad accompagnarmi per molto, molto meno. Ho anche fame, e lì potrei mangiare qualcosa, immagino; possibilmente dei piatti che non siano infarciti di erba, funghetti allucinogeni o peyote. L’unico freno è la paura che qualcuno possa riconoscermi, anche se ne dubito.
Arrivo in una piazzetta e mi accomodo su una panchina un po’ defilata, sotto un albero. Mi accendo una sigaretta e mi guardo attorno. «Sai che ore sono?» chiedo a un ragazzino che mi passa davanti imprecando: si trascina dietro una bicicletta con entrambe le ruote bucate.
«Saranno le cinque e mezza, zio» risponde con fare distratto, senza neanche fermarsi.
«Per il locale ricreativo da che parte devo andare?» continuo. Il ragazzino si ferma e sputa a terra.
«Da quella parte» fa, indicando con la mano un sentiero che si apre tra tende e camper, «ma adesso ce stanno i militari e due tipi strani che stanno a fa domande a tutti.»
«Due tipi strani? In che senso due tipi strani? E che domande fanno?»
«Due con un completo nero, sembrano beccamorti, mortacci loro. Pezzi grossi, comunque. Tribuni della guardia pretoriana, il corpo scelto dell’Imperatore, mica cazzi. Stanno a cerca’ non so che tipo strano, che pare hanno ritrovato la macchina dentro a un fosso lungo la strada per la Cloaca.»
«Cosa? E quando sono arrivati?»
«Ma che cazzo ne so, io? Bella zì, te saluto.»
Il ragazzino sputa ancora a terra e torna a imprecare. E a trascinare la sua bicicletta. Chelli e Smiti sono nella comune, e mi stanno dando la caccia,
Cerco di pensare a un piano B sensato. Ma non me ne viene neanche mezzo. Potrei tornare al sanatorio e aspettare che si calmino le acque, ma se gli agenti speciali parlano con Rollo o con Secco ci metteranno poco a ricostruire tutta la storia; quindi, di tornare al sanatorio non se ne parla. No, non posso rimanere nella comune un secondo di più. Mi incammino nella direzione opposta a quella del locale ricreativo, deciso a farmela a piedi. Arriverò in città tagliando per i prati e i boschi, se necessario.
Certo, l’idea di farmi cinque chilometri su una stampella non mi entusiasma, ma non ho alternative.
«Ma tu sei David Resti? Incredibile.»
Sei parole che mi gelano il sangue e mi trafiggono come una coltellata. Mi fermo e mi volto nella direzione della voce. Una ragazza bionda, minuta e graziosa, dalla carnagione bianchissima; venti, venticinque anni al massimo. Ha un vistosissimo trucco nero attorno agli occhi, ma il suo abbigliamento è tutt’altro che dark: indossa dei jeans e una felpa con sopra scritto CCCP. Rimango a osservare la felpa chiedendomi da dove sia uscita, e se la ragazza abbia idea di cosa significa quella sigla.
«Sì, sei proprio David Resti! Non posso crederci, è pazzesco. Pazzesco!»
Mi guarda come se fossi un alieno appena atterratole nel giardino di casa; non riesco a capire se sia ammirazione, stupore o cos’altro. Come ha fatto a riconoscermi? Magari è una mia fan. Prego che lo sia, e che non si metta a urlare.
«Allora è vero che sei alla Cloaca» dice.
«È una storia lunga» rispondo.
«A me il tempo non manca» ribatte lei.
«Non pensavo che qualcuno potesse riconoscermi, qui.»
«Davvero? È da qualche giorno che i notiziari parlano di te, sai?» Non rispondo. «Ti sei nascosto nella comune, quindi? Ma cosa ti è successo?»
La osservo, cercando di intuirne le intenzioni. La ragazza se ne accorge e sorride, anche se il sorriso sembra un po’ forzato. «Stai tranquillo, non dirò niente a nessuno. Non mi interessa sapere se e quanto c’è di vero nelle storie che dicono. Tra l’altro, sai che la guardia pretoriana ti sta cercando? Ci sono un paio di tribuni che stanno mostrando una tua foto a tutti, nel locale ricreativo» mi dice. Io continuo a rimanere in silenzio. Sono rassegnato, esausto. «Hanno anche promesso una ricompensa per chi gli darà informazioni utili» continua lei.
«Ti assicuro che si tratta di una montatura, di un terribile equivoco» mi giustifico.
«Quindi vuoi che chiami i legionari, così gli spieghi l’equivoco?» risponde lei, con aria strafottente.
«No, dannazione» sibilo.
«Allora? Cosa ti è successo?» insiste la ragazza.
«Ho avuto un incidente mentre scappavo.»
«E ti sei rifugiato qui? Hai una tana, un covo?»
«No, dovrei arrivare in centro, o come si dice.»
«La città. Diciamo semplicemente “la città”. Io abito lì. Se vuoi ti do un passaggio.»
Mi chiedo se accettare sia una buona idea. Magari vuole vendermi a Chelli per la ricompensa. In questo caso potrei rilanciare, e offrirle del denaro in cambio del suo silenzio e del suo aiuto.
«Che c’è, non ti fidi?» continua lei. «Sono una tua lettrice, interrogami pure sui tuoi romanzi, so tutto.»
E inizia a farmi l’elenco dei titoli dei libri che ho scritto nel corso degli anni, con tanto di riassunto dettagliato di ognuno. Una botta di fortuna, finalmente. Ho davvero trovato una fan di David Resti nel bel mezzo di una comune.
«Mi hai convinto» la fermo. «Non so come ringraziarti, senza il tuo aiuto non ho idea di come me la sarei cavata. Prometto che saprò sdebitarmi, comunque.»
«Tranquillo, non voglio soldi, da te» risponde lei.
Ci incamminiamo verso il parcheggio. La ragazza è tesa, sembra emozionata, in un certo senso. Dubito che neanche nei suoi sogni proibiti abbia mai pensato di poter incontrare il suo scrittore preferito. O forse ha paura perché mi sta aiutando e rischia chissà quale incriminazione. Magari rischia l’arena, considerando che se vive qui non avrà di certo la cittadinanza romana.
«Come ti chiami?» le chiedo.
«Beatrice. Mi chiamo Beatrice.»
«Sai per cosa sono ricercato?»
«Oh, non saprei. La tele dice che vogliono interrogarti riguardo all’omicidio di un investigatore privato e di una spia giap, e che nessuno sa dove ti sei nascosto, il che vale come un’ammissione di colpa, in un certo senso. Vuoi appoggiarti a me? Mi sembri in difficoltà.»
«No, non preoccuparti, faccio da solo.»
Cinque minuti e siamo in vista del parcheggio, dove ci sono un paio di auto dei carabinieri e una mezza dozzina di camionette di legionari. Beatrice mi fa tagliare per un boschetto e mi accompagna in una piccola radura sul ciglio della strada. «Aspettami qui» fa.
Attendo dieci minuti con il cuore in gola; mi aspetto di veder spuntare l’auto nera di Chelli e Smiti da un momento all’altro. Invece compare una Fiat 500, di quelle vecchie modello. È di un indefinibile colore rosso sbiadito, ma sembra tenuta bene. «Forza, sali.»
«Devo andare a piazza Ugo Foscolo» dico, una volta a bordo, «ma prima ho bisogno di mangiare qualcosa.»
«Vieni da me. Ti preparo un piatto di pasta. Piazza Ugo Foscolo è a due passi da casa mia.»
La ringrazio. Il karma si è deciso a rendermi indietro un anticipo di quanto mi deve, finalmente. Conto di riscuotere il saldo finale più tutti gli interessi una volta trovato Rojas e tornato a casa.
In auto non diciamo una parola. Beatrice è assorta nei suoi pensieri, mentre io guardo fuori dal finestrino e prego che abiti da sola; non voglio incontrare più nessuno, non voglio parlare più con nessuno. Mi concentro sul paesaggio. I palazzi si portano addosso i segni del tempo, ed è chiaro che nella Cloaca c’è meno attenzione alla manutenzione e alla cura delle costruzioni, rispetto all’esterno. Quella che ho davanti sembra la Roma che conosco io, sporca, trasandata, decadente. Ciò che invece non manca sono i pannelli solari e fotovoltaici, presenti ovunque.
Una volta arrivati parcheggiamo proprio di fronte a un ragazzo che porta sul volto il segno della tossicodipendenza. Se ne sta a terra sul marciapiede, con la testa appoggiata alla saracinesca chiusa di non so che negozio e con l’ago della siringa ancora infilato nella vena; ha la testa che gli penzola sulla spalla e gli occhi vitrei. Passa un cane randagio e gli piscia addosso; lui non muove un muscolo. La scena mi mette i brividi e distolgo lo sguardo. Qui non vedo l’approccio gioioso alla disubbidienza civile che ho percepito nella comune, qui si respira tutt’altra aria. Aria di disperazione.
Avanziamo verso il portone del palazzo un passo alla volta, visto che zoppico sempre di più, e costringo Beatrice ad adeguarsi al mio passo. La ragazza non dice una parola, e cammina con la testa bassa. Immagino che si vergogni di quel tossico che abbiamo visto, simbolo di un degrado in cui, forse, vive anche lei. Osservo i palazzi. Murales e graffiti riempiono le facciate. Molti sono freschi, a tema sbarco sulla Luna; l’evento sembra mettere tutti d’accordo e viene celebrato nello stesso modo. La tensione per la conquista del satellite si sente nell’aria, ovunque si vada, dagli ambienti più esclusivi ai bassifondi.
Arriviamo al portone. L’appartamento di Beatrice si trova al quinto piano, e saliamo in ascensore.
«Come mai eri in comune?» chiedo.
«Oh, per delle pasticche. In farmacia costano troppo, lì invece posso pagare con quello che ho.»
Mi devo sdebitare, prima di andarmene da questo mondo. Magari potrei versarle una decina di milioni. Entriamo in un appartamento piccolo e spartano, ma pulito. Ci sono un sacco di libri ovunque, un poster con un alieno che si fuma una canna con sotto la scritta Portame dallo spacciatore tuo, delle maschere etniche africane.
Nel mio mondo, sembrerebbe l’appartamento di una studentessa universitaria di lettere. Mi chiedo cosa faccia per vivere, questa ragazza. Come si arrangi.
Beatrice mi fa accomodare in cucina e mi domanda se un piatto di spaghetti aglio olio e peperoncino può andare bene. «Benissimo» rispondo.
Sul frigorifero c’è un calendario con la data del 9 dicembre cerchiata in rosso. Accanto, un teschio stilizzato.
«Si riferisce allo sbarco?» chiedo incuriosito, indicando il calendario.
«Certo. Devono schiantarsi. Devono morire male tutti, quegli imperiali del cazzo. Quei bastardi» risponde, con la voce alterata. È la prima persona che abbia incontrato in questo mondo a non essere emozionata per la conquista della Luna.
«Tu sei repubblicana?» faccio, pentendomi della domanda inopportuna un secondo dopo averla pronunciata: non sono affari miei.
Beatrice mi guarda con aria inespressiva. «Io sono oltre. Io sono comunista» risponde. «La cosa ti mette a disagio?» chiede. Ma non si aspetta che io ribatta nulla, la sua è una domanda retorica. Posa sul tavolo una bottiglia di vino rosso, poi inizia a cucinare.
«Sai» dice, «qui alla Cloaca giocano tutti a fare gli anarchici, ma in realtà sono figli del sistema imperiale, come gli altri. Vivere in Cloaca è solo un modo come un altro per vivere secondo le proprie regole, una sorta di elogio dell’egoismo sociale, se vogliamo. Non mi piace il sistema perché non mi fa sballare come voglio, non mi piace il sistema perché non mi fa fare questo o non mi fa fare quello… e allora me ne sto nella Cloaca. Ma il modello sociale alternativo, qual è? Non esiste. Esistono solo criminalità e anarchia fini a sé stessa. E poi si esaltano tutti all’idea dello sbarco sulla Luna. Si sentono coinvolti, partecipi. Che occasione sprecata! Se penso a come potevano essere investiti quei soldi, se penso che è dalle Cloache che potrebbe e dovrebbe partire la rivoluzione che ci guiderà al modello comunista mi sento male.»
Non so cosa rispondere e mi mantengo sul vago. In ogni caso, ora mi è chiaro perché indossi quella felpa. «Non è che prima della guerra se la passassero poi troppo bene, sotto il regime sovietico» azzardo.
Lei mi fissa con uno sguardo feroce. «E tu che cazzo ne sai? Tu c’eri?»
«Nulla. Hai ragione, non ne so nulla, e non c’ero» rispondo, alzando le mani. Poi mi verso un bicchiere di vino. «All’Unione Sovietica, allora» dico, prima di mandarlo giù. Ha un sapore non troppo gradevole, aspro: non è certo il vino a cui mi sono abituato a casa di Sergio, o nei ristoranti. «Vivi sola? Cosa fai nella vita?» continuo, nel tentativo di cambiare discorso.
«Oh sì, vivo sola» risponde lei.
Annuisco, senza aggiungere altro. Beatrice, dopo esserci rimasta a pensare un po’, aggiunge: «Cosa faccio? Un po’ di questo, un po’ di quello. Attivismo politico, per lo più. Anche se devo stare molto, molto attenta: è pieno di delatori.»
«Prepari la rivoluzione, insomma» concludo, con un mezzo sorriso. Non risponde. Gli spaghetti, intanto, sono pronti. Li mangio, bevendoci su un paio di bicchieri. Anche Beatrice si siede a tavola, ma non tocca cibo. Mi chiedo se, tante volte, gli spaghetti che ho nel piatto siano tutto ciò che le rimaneva da mangiare in casa, e mi sento in colpa.
«Allora? Ti è piaciuta la pasta?» chiede, alla fine.
«Ottima. Davvero ottima, grazie.»
«Bene. Spero che te la sia goduta. Avrei preferito offrirti di più, come ultimo pasto. Ma questo avevo» dice. Poi si alza ed esce dalla cucina.
Non capisco il riferimento all’ultimo pasto e non gli do troppo peso. Ne approfitto per fare l’ultima sorsata di sciroppo rimasta, poi prendo una sigaretta. Non l’accendo, però: non so se qui si può fumare o meno e non voglio essere scortese. La ragazza rientra con dei libri. Li riconosco: Checkpoint Charlie e compagnia bella. Immagino voglia farseli autografare.
«Eccoci a noi, fascista di merda» dice, sbattendoli sul tavolo con rabbia feroce.
«Cosa?» faccio io, stupito.
«Tu sei un fascio del cazzo. Della peggior specie, sei la feccia della terra» continua lei, con disprezzo.
«Ma come ti è venuta in mente una cosa del genere? È una follia.»
«Come mi è venuto in mente, dici? Guarda qui.»
Prende ad aprire libri a caso. Su molte delle pagine ci sono sottolineature e interi passaggi evidenziati con colori diversi. «La Germania che non viene distrutta dalle bombe, ma che anzi si rialza e diventa una delle più grandi potenze economiche del mondo! Hai scritto addirittura che la Germania guida economicamente l’Europa… i nazisti alla guida d’Europa, ma ti pare? I tuoi libri sono una fogna.»
Provo a controbattere, anche se inizio a sentirmi davvero strano. «Cosa stai dicendo? Nel dopoguerra la Germania nel mio mondo, nei miei libri insomma, ha sempre avuto governi socialdemocratici o cristiano democratici. Cosa diamine c’entrano i nazisti?»
Mentre parlo mi accorgo di sentirmi sempre peggio. Forse non dovevo prendere lo sciroppo dopo aver bevuto il vino. Magari sta facendo reazione.
«C’entrano eccome» urla Beatrice. È diventata tutta rossa, sembra impazzita. «C’entrano sempre, i nazisti. Guarda qui. C’è un intero capitolo in cui spieghi come in tutta Europa stanno avanzando i partiti di estrema destra e neonazisti, che non vogliono i profughi e i migranti. Vuoi negare che i tuoi romanzi sono un’apologia del nazifascismo? Vuoi negare che stai descrivendo l’avvento di un nuovo ordine mondiale guidato da una società nazista? E in uno dei tuoi ultimi romanzi, questa storia del virus che uccide i vecchi? Questa è apologia dell’eugenetica nazista! Ma chi vuoi fregare? Tu con i tuoi libri e la tua apologia prepari il terreno all’Impero, il nuovo ordine mondiale guidato dell’Impero Nazista! È pazzesco.»
Sul fatto che ciò che sento sia pazzesco non ho dubbi. Questa deve avere diverse rotelle fuori posto. Altro che ammiratrice, mi odia. È ora di ringraziare con un sorriso e andarmene per la mia strada.
«Pensala un po’ come ti pare» dico, mentre metto il borsello a tracolla. «Per la cronaca, io non sono né nazista né comunista, se proprio lo vuoi sapere. E aggiungo che di questa lotta tra imperiali e repubblicani, onestamente non me ne frega un beato cazzo. Sono problemi vostri, non miei. In ogni caso, tolgo il disturbo» concludo. Ma non riesco ad alzarmi.
Beatrice sorride. Sembra una giovane cacciatrice di ritorno con l’agognata preda nel giorno di caccia della vita. «Ho drogato il tuo vino» fa, poi prende la sedia per la spalliera e mi trascina fuori dalla cucina, ansimando. Entriamo nella sua stanza da letto. Sulle pareti ci sono foto che mi ritraggono e ritagli di giornale che parlano di me. Sembra un dannatissimo incubo.
«Quando oggi ti ho visto alla comune ho pensato: non può essere vero, sto sognando. E invece eri tu. Il destino ha fatto incontrare le nostre strade, non è stato un caso.» La ragazza ferma la sedia davanti al letto, sul quale mette un telo trasparente.
Provo a urlare. Niente. Ho i muscoli delle braccia intorpiditi. Le gambe, proprio non le sento più.
«E ora avrai quello che ti meriti» fa lei, mentre mi stende sul letto; poi si siede e riprende fiato. È affaticata, sarà un metro e cinquantacinque a dire tanto.
«Ti ucciderò con il coltello» dice, come se stesse parlando con una sua amica di shopping, o dell’ultima serie che ha visto alla tele. «Ti sgozzerò mentre sei ancora vivo e ti taglierò la testa, proprio come fanno i fondamentalisti nei tuoi romanzi. Riprenderò tutto con la videocamera: voglio far girare il video. Voglio dimostrare agli abitanti della Cloaca che la rivoluzione è possibile. Basta volerla.»
Detto questo si alza ed esce. Sto per essere fatto a pezzi da una psicopatica che vuole far diventare la mia esecuzione il bestseller degli snuff movie ideologizzati. Una che vuole portare la rivoluzione comunista nel cuore del moderno Impero Romano.
Riesco ancora a muovere un po’ il braccio destro. Mi concentro, e con la forza della disperazione infilo la mano nel borsello. Impugno la Colt. Lei rientra con un coltello da cucina e una videocamera. Mentre sistema il cavalletto, tiro fuori la pistola, punto e faccio fuoco.
Beatrice rotola per terra. Un tonfo sordo.
Sento i suoi rantoli, un lamento sommesso. Io respiro a fatica, e a ogni respiro ho delle fitte allo stomaco. Qualunque cosa mi ha dato questa pazza, l’effetto sta aumentando. Non riesco quasi più a muovere le braccia.
Sposto la testa di lato con estrema fatica e la vedo strisciare verso il cassetto del comodino. Perde sangue. Si lascia dietro una scia di sangue, come una lumaca si lascia dietro la sua bava.
Beatrice allunga la mano e dal cassetto tira fuori una pistola. Il braccio le cade a terra. Parte un colpo. Il proiettile passa sotto al letto, mandando in pezzi qualcosa, dall’altra parte della stanza.
Poi la vedo, come al rallentatore. Si aggrappa al telo trasparente e riesce non so come ad arrampicarsi sul letto con la parte superiore del busto e un braccio. La sua testa è a cinquanta centimetri dalla mia. Vomita sangue, i suoi occhi parlano di morte. Sento il rumore dei suoi rantoli spaventosi, sento il suo alito sul mio viso.
Beatrice alza anche l’altra mano, quella con la pistola. Parte un altro colpo, che mi sfiora e manda in pezzi la testiera. Lo sforzo le fa vomitare altro sangue. Ansima. Il sangue rosso e scuro scivola sul telo trasparente e mi viene addosso, mi impregna i vestiti, me lo sento sulla guancia. Lei riesce a muovere la mano di un paio di centimetri. La bocca della pistola è praticamente appoggiata sulla mia fronte. Non deve fare altro che premere il grilletto. Anche io riesco a muovere la pistola verso il suo viso.
Siamo pari, entrambi con la pistola puntata sulla fronte dell’altro. Ci guardiamo negli occhi con il dito sul grilletto, tutti e due pronti a fare fuoco, senza che nessuno riesca più a muovere un muscolo. Non so per quanto tempo rimaniamo così. Immagino che, in un modo o in un altro, tra poco finirà tutto. Una manciata di pagine alla fine di questo brutto romanzo che è la mia vita. Un ultimo capitolo… un epilogo, a voler essere generosi.
Si dice che quando stai per morire vedi la tua esistenza passarti davanti, ma non è vero. Sono tutte stronzate. Io ho solo una paura dannata. Guardo la ragazza spegnersi a poco a poco e prego che non trovi lo slancio di fare quell’ultimo sforzo che me la farebbe accompagnare al creatore.
Non dura molto. Beatrice muore sputando sangue. Penso a lei. A Santamonica. Alla giovane spia persiana. È come se tutti quelli che hanno a che fare con me finiscano male.
Scivolo nel sonno così. Pensando di essere maledetto.