Capitolo 02

TRIBUNO SAMUELE CESARE CHELLI

domenica 01 dicembre

Torno al mondo in una stanza dalle pareti bianche e celesti. Ha tutta l’aria di essere una di quelle cliniche private ordinate e pulite, con le lenzuola che sanno di bucato e i pavimenti che odorano di fresco. Non è stato un brutto sogno, dunque. O forse sì: allucinazioni dovute alla stanchezza. Ho letto da qualche parte che, se si rimane troppo senza dormire, può accadere.

Al braccio sinistro ho una flebo. Con la mano destra mi tocco la testa, che scopro bendata, poi prendo gli occhiali dal comodino. Mi guardo attorno, perplesso. Nella stanza ci sono altri due letti, vuoti. Appesi alla parete un televisore, un crocifisso e un vessillo che raffigura la lupa capitolina, con la scritta spqr. Poco più in là, su una mensola a muro, una scultura di bronzo: un’aquila imperiale romana ad ali spiegate.

Sullo schermo scorrono immagini colorate e fumose che mi ricordano certi screen saver dei canali televisivi delle emittenti radio, mentre una melodia rilassante – musica classica che non conosco – riempie l’aria in modo discreto.

«Dove diavolo mi trovo?» mormoro.

Entra un’anziana infermiera, regalandomi un gran sorriso. «Signor Resti, si è svegliato finalmente. Come si sente?» dice. «Confuso, immagino» continua. «È normale, ha preso una bella botta. Un piccolo trauma cranico, ma niente di grave, stia tranquillo: qui è in ottime mani. È un piacere per me conoscerla, io sono Nunzia.»

«Il piacere è mio» rispondo. «Che giorno è oggi? Dove mi trovo?»

«Oh, è domenica mattina e si trova nell’ospedale di Anagni. Vado a dire al dottor Nardelli che è sveglio.»

Nunzia scompare nel corridoio, lasciandomi interdetto: ad Anagni l’ospedale ha chiuso da un pezzo. Inizio a spazientirmi, nulla sembra avere senso. La donna riappare dopo neanche due minuti. «Il dottore sta finendo il giro dei pazienti, dovrebbe liberarsi tra poco. Intanto, non so: ha bisogno di qualcosa? Ha appetito?» chiede, mentre mi sfila la cannula della flebo dal braccio.

«No, non ho appetito. Mi servirebbe…»

Cosa mi può servire? Faccio mente locale e mi dico che riuscire a dare un’occhiata in rete non sarebbe male.

«Ecco, a Palermo mi hanno rubato lo Smartphone. L’ideale sarebbe un pc portatile, o un tablet. Mi rendo conto che è una richiesta un po’ particolare, ma potrebbe procurarmene uno?»

«Mi scusi, cosa vorrebbe? È sicuro di sentirsi bene?» fa l’infermiera.

«Un computer» rispondo, cercando di rimanere calmo. «O un tablet. O un telefonino con connessione, giusto per dare un occhio in rete.»

«Un computer? Vuole dire un “elaboratore”, forse? E che se ne fa, scusi?» chiede lei, sorridendo.

«In che senso?»

La donna scoppia a ridere. «Ci mandano i razzi nello spazio, con quei cosi. Cosa se ne fa lei? Deve aver preso proprio una bella botta in testa» conclude. E continua a ridere. Una di quelle risate che di solito riempiono l’aria e mettono allegria. A me, invece, gela il sangue.

Ho un leggero mancamento e devo sbiancare in viso, perché l’infermiera se ne accorge e torna subito seria. Spegne il televisore e siede accanto al letto, posandomi la mano rugosa sulla fronte.

«Che ha, signor Resti? Si sente bene?»

No che non mi sento bene. Non sono mai stato così lontano dal sentirmi bene, dannazione. «Immagino di sì» mento. «Credo solo di essere ancora un po’ confuso. Ho preso una bella botta, proprio come ha detto lei. Posso farle una domanda?»

«Ma certo, ci mancherebbe. Può farmi tutte le domande che vuole.»

«Lei non ha uno Smartphone, vero?»

Nunzia mi accarezza i capelli, come una nonna farebbe con il nipotino malato che vaneggia in preda alla febbre alta. «Intende il fon, l’asciugacapelli? Ma nessuno lo chiama più così da anni! Perché utilizza tutti questi antichi, orribili termini stranieri?»

«No, io intendevo… lasciamo perdere. Ascolti, per telefonare o per ricevere le telefonate, come fa?»

Nunzia sorride ancora. Adesso sorride come, immagino, si debba sorridere ai pazzi. Deve pensare che la botta in testa mi abbia rincretinito, almeno momentaneamente. «Uso l’apparecchio telefonico che ho in casa, o mi reco a una cabina telefonica.»

Mi passa per la testa un pensiero assurdo: sono tornato indietro nel tempo. Ecco che si spiegherebbero alcune cose, come l’ospedale ancora in funzione e l’assenza di computer e telefoni cellulari. Certo, non se ne spiegherebbero altre, come il televisore ultrapiatto che ho davanti. Ma sarebbe pur sempre un inizio.

«In che anno siamo?» chiedo, quasi vergognandomi di porre una domanda simile.

«È domenica primo dicembre del 2024.»

La data è quella giusta; nessun viaggio nel tempo, quindi. Intanto, è entrato un medico con il camice celeste. Appena lo vede, l’anziana infermiera si alza e gli va incontro.

«Dottor Nardelli, le posso parlare un attimo in privato?»

I due scompaiono oltre la porta, lasciandomi in uno stato di totale prostrazione. Di cose da pensare ne ho talmente tante che il mio cervello, forse per un automatico meccanismo di autoprotezione, decide di staccare la spina e rimanere spento, proprio come lo schermo del televisore che, quando riappare il medico, sto fissando senza alcun motivo.

Il dottor Nardelli borbotta qualcosa, non sembra essere a suo agio. Apre una cartella clinica. «Signor Resti, a quanto pare lei è ancora decisamente disorientato. Allora, vediamo: lei è svenuto ed è caduto a terra. Ha preso una brutta botta in testa, ma nulla di troppo preoccupante. Le abbiamo fatto tutte le analisi del caso e abbiamo deciso di tenerla in osservazione per un po’. Ascolti…»

Il medico s’interrompe e abbassa gli occhi, quasi fosse in imbarazzo.

«Che c’è?» chiedo, con apprensione.

«Mi spiace davvero, non so come dirglielo.»

«Dirmi cosa?» insisto, sempre più allarmato. Magari dalle analisi è venuto fuori che ho un tumore al cervello e mi rimangono tre mesi di vita. La spiegazione a ciò che sta accadendo potrebbe essere questa: un tumore al cervello. Allucinazioni, stati di coscienza alterati, percezione della realtà distorta. Una spiegazione che, per quanto terribile, è la più semplice e razionale di tutte.

«Dottore, ho un tumore al cervello, vero?»

Mentre parlo la voce mi si strozza in gola.

Il medico accenna una smorfia che, con un po’ di immaginazione, potrei interpretare come un sorriso. «Ma no, ma no. A parte il trauma dovuto all’aver sbattuto la testa lei sta benissimo. Nessun tumore, stia tranquillo. È che qui fuori ci sono delle persone che vorrebbero parlarle. Carabinieri e guardia pretoriana. Sia chiaro che io sono convinto che i giornalisti abbiano montato tutto questo casino solo per metterla in mezzo e vendere qualche copia in più. Sciacalli! In ogni caso, hanno insistito per poterle parlare appena si fosse svegliato. Ora, se vuole, posso dire che non se la sente, ma dubito che questo impedirebbe loro di entrare e interrogarla. Capisce?»

No che non capisco. Dopo «nessun tumore, stia tranquillo» non ho più capito nulla. Poco male. La notizia di non essere in fin di vita mi ha rinfrancato. «Non ho capito molto, in realtà. Ci sono i carabinieri, ha detto? Li lasci entrare. Nessun problema. Il tempo di andare in bagno.»

Il medico annuisce borbottando ancora una volta qualcosa di incomprensibile ed esce, indicando una porticina interna alla camera. Mi alzo e infilo i piedi in un paio di ciabatte bianche, troppo larghe per me. Realizzo di avere addosso un camice da ospedale. I miei vestiti li vedo in un armadietto di legno, mentre accanto al letto noto il trolley.

Mi sciacquo il viso con l’acqua fredda. Vuoi per la botta, vuoi per la situazione, mi sento la testa piena come un palloncino troppo gonfio, pronto a esplodere da un momento all’altro. Poi mi stendo di nuovo sul letto, e subito dopo entrano quattro uomini.

Una coppia indossa la divisa dei carabinieri, l’altra degli eleganti completi neri, camicia bianca e sottile cravatta nera.

Il carabiniere più anziano si presenta come il capitano Negretti. «Signor Resti, capisco che il momento non è dei più opportuni, ma le dobbiamo fare qualche domanda. Le presento il tenente colonnello Simoncelli e i due tribuni militari Samuele Cesare Chelli e Fabiano Augusto Smiti.»

Osservo i due uomini. Smiti ha la pelle bianco latte e i capelli rossi, tagliati a spazzola, cortissimi. Le sopracciglia sono due linee sottili, quasi impercettibili. Gli occhi azzurri, glaciali e freddi. Chelli ha la carnagione scura, capelli nerissimi e vivaci occhi scuri. Tutti e due sono alti; molto alti. E ben piazzati, statuari.

Noto anche che entrambi hanno un fermacravatta d’oro a forma di scorpione.

«Signori» rispondo, «non ho capito chi voi siate. Militari, giusto? In ogni caso, qualunque sia il motivo della vostra visita, temo di non potervi essere utile: purtroppo non ricordo nulla.»

Smiti si siede su uno dei letti liberi e apre la valigetta di pelle che si porta dietro, poi si mette ad armeggiare con quello che c’è dentro. Chelli, invece, prende una sedia e l’accosta al letto. La gira e ci si accomoda, appoggiando i gomiti alla spalliera.

«Come ha detto, scusi?» fa l’uomo.

«Non ricordo nulla» rispondo, spavaldo.

Lui rimane impassibile. «Faccia uno sforzo. Cosa sa dell’attentato? Che rapporti aveva con Ernesto Fazi? E con i repubblicani? Dove si trova Nataniel Rojas?»

«Non so di cosa sta parlando» sorrido.

«Mi sta dicendo che ignora cosa è successo?»

Il tono canzonatorio di Chelli non promette nulla di buono, così mi limito ad annuire. «Vediamo se riesco a farle tornare la memoria» continua. «Venerdì l’Imperatore è stato vittima di un attentato. Attentato che, fortunatamente, è fallito.» Detto questo si zittisce e rimane a scrutarmi come se si aspettasse chissà quale reazione. Io sono completamente spiazzato, visto che non so di cosa stia parlando.

«L’Imperatore giapponese?» chiedo, pensando al primo Imperatore che mi viene in mente. A queste parole, la sua espressione cambia in un istante.

«Signor Resti, non abusi della mia pazienza. Prendere in giro un tribuno della guardia pretoriana non è salutare, neanche per uno scrittore ricco e famoso» risponde lui, duro. «Le è chiaro, questo?» aggiunge, un istante dopo.

Faccio un cenno di assenso con la testa, senza azzardarmi a dire nulla. Imperatore, tribuno, guardia pretoriana, le statue con le aquile imperiali… l’antica Roma, dunque.

L’antica Roma fusa alla società moderna. Mi chiedo come sia possibile una cosa del genere. Mi chiedo anche dove diavolo sono capitato e, soprattutto, come ci sono capitato.

«L’attentatore» riprende Chelli, «è stato prontamente individuato e ucciso. Un certo Ernesto Fazi, un uomo con disturbi psichici che si era appostato su un tetto con un fucile. L’Imperatore viaggiava su un’auto scoperta lungo via dei Fori Imperiali, gremita di folla. Questa dinamica le ricorda qualcosa, signor Resti?»

Rimango a pensarci qualche istante. Un attentatore sul tetto con un fucile, il bersaglio che viaggia su un’auto scoperta tra la folla.

«L’assassinio di John Fitzgerald Kennedy?» azzardo.

Il tribuno si concede un mezzo ghigno. «Esatto» fa. «L’assassinio del suo personaggio, il Presidente degli Stati Uniti d’America John Fitzgerald Kennedy, come lei lo ha immaginato nel suo universo narrativo che, francamente, io trovo spazzatura. Me lo lasci dire, signor Resti, senza offesa. In ogni caso, dopo l’attentato siamo riusciti a ottenere il mandato per perquisire le abitazioni di alcuni senatori. Sospettavamo da tempo che fossero dei cospiratori repubblicani, e abbiamo trovato le prove per incriminarli. Li abbiamo arrestati con l’accusa di altro tradimento, e presumiamo siano loro i mandanti dell’attentato. Ma c’è un ma, signor Resti…»

Rimango a fissare l’uomo con lo sguardo di chi non ci sta capendo niente. Chelli deve accorgersene, perché fa una smorfia, indispettito dal mio stupore. Poi continua. «Di prove concrete non ne abbiamo trovate. I senatori giurano di non essere i mandanti. E nella tasca del giubbotto di Ernesto Fazi c’era un foglio con un numero di telefono, quello della residenza milanese di Nataniel Rojas. Un nome che lei conosce bene.»

«Dovrei?» faccio. Quel nome non mi dice nulla.

«Direi proprio di sì, visto che stavate scrivendo un libro assieme.»

La mia sorpresa deve sembrare ancora una volta genuina, e Chelli reagisce con l’ennesima smorfia di disappunto.

«Davvero non si ricorda di Rojas? Mi vorrebbe far credere che ha perso la memoria? Mi dica: se questo fosse un romanzo non sarebbe un po’ scontato? Come si dice in questi casi? Trama debole?»

Penso in fretta. Secondo lui sono uno scrittore.

Che mi abbia scambiato per qualcun altro? No, impossibile. L’unica certezza è che non posso dire la verità, altrimenti c’è la seria possibilità di vincere un viaggio premio per una clinica psichiatrica, uno di quei viaggi dove ti fanno il biglietto di sola andata.

«Ascolti, io non ricordo nulla. Potete parlare con il dottor Nardelli: ho sbattuto la testa, ho avuto un trauma cranico e devo aver perso la memoria; un’amnesia, forse. Ricordo il mio nome, e poco altro. Questo tizio di cui parlate chi sarebbe? Uno scrittore, ha detto?»

«Rojas è uno scrittore spagnolo trasferitosi da quindici anni in Italia, dove gli è stata conferita la cittadinanza romana per meriti artistici. Noi vogliamo capire se esiste un collegamento tra Fazi e Rojas. E vorremmo capirlo in fretta. Vede, dopo che è uscito fuori il nome dello spagnolo i giornalisti stanno montando un caso enorme, ed è nostra intenzione smorzare questi… questi entusiasmi da pennivendoli, diciamo. Meno la stampa parla di questa storia, meglio è. Capisce ora?»

No che non capisco. «Mi perdoni, sono un po’ confuso» mormoro, mentre mi sento sempre più a disagio.

Chelli non mi dà tregua. «Il problema è che dal giorno dell’attentato il signor Nataniel Rojas è irrintracciabile, così come lo è stato lei. I nostri pretoriani a Milano e a Palermo vi hanno cercato ovunque, per interrogarvi. Oltre alla casa milanese di Rojas abbiamo perquisito scrupolosamente anche quella di Fazi a Roma e quella di sua proprietà a Palermo, signor Resti. E, guarda un po’, le registrazioni delle segreterie telefoniche di chiamate e videochiamate in entrata e in uscita sono state cancellate in ogni abitazione, ci crederebbe? Ora siamo in attesa di avere quantomeno i tabulati. In ogni caso, ecco che questa notte lei rispunta a Roma, con lo Zeppelin in arrivo da Palermo. E una volta a Roma, incredibile a dirsi, sbatte la testa e non si ricorda più niente. Converrà con me che è un bell’enigma, no? O se preferisce, come le ho detto prima, converrà che la trama è un po’ debole, se non zoppicante.»

«Io non ricordo niente. Vuoto assoluto.»

«Vedremo» dice Chelli. Poi fa un gesto a Smiti che, intanto, ha tirato fuori dalla valigetta un macchinario che ha tutta l’aria di essere un sofisticato poligrafo portatile. Il tribuno mi intima di levare il camice, poi sistema tutti gli accessori utili a misurare ritmo cardiaco, ritmo respiratorio, pressione sanguigna e conduttività elettrica della pelle.

Mentre mi preparano, penso alla situazione in cui mi trovo. Questi due, chiunque essi siano, hanno ragione da vendere. Non è debole, la mia trama: è debolissima. Degna del più infame dei romanzi d’evasione. “Ho sbattuto la testa e non ricordo più nulla!” Ma chi sarebbe così ingenuo da credermi? Eppure, questa trama infame è mille volte più credibile della verità. “Scusate, ma non capisco di cosa stiate parlando. Credo di venire da una sorta di universo parallelo e, insomma, sapete come vanno certe cose, no? È peggio del peggiore dei jet leg, vi assicuro.” No. Questa trama, per quanto debole, è la carta migliore che ho.

Inizia il secondo giro di quesiti. Mi chiedono come mi chiamo, quanti anni ho e altre domande generiche, le cui risposte sono fin troppo banali. Poi, iniziano a parlare di cose che ignoro. La mia risposta è sempre la stessa: non ricordo nulla. Chelli però non molla, è un vero mastino.

«Quindi lei non ha proprio idea di dove potremmo trovare Nataniel Rojas?» fa per la decima volta, picchiettando le dita sulla spalliera della sedia.

«No, lo giuro. Senta, sono davvero stanco» sbuffo, esasperato. Non ne posso più.

Il tribuno si alza e si mette a confabulare sottovoce con il suo collega, mentre il capitano e il tenente colonnello – che per tutto l’interrogatorio hanno guardato i tribuni della guardia pretoriana con evidente sussiego – mi sorridono, imbarazzati. I due uomini in completo, intanto, hanno finito di confrontarsi. Smiti mi scollega dal poligrafo, Chelli mi porge un biglietto da visita color avana.

«Signor Resti, per ora abbiamo finito. Sembrerebbe che lei, in effetti, sia vittima di una singolare amnesia imputabile, evidentemente, al trauma dovuto alla caduta. Inutile dire che nei suoi confronti non c’è nessuna accusa, così come non ci sono accuse nei confronti del signor Rojas: in fondo, quel matto di Fazi poteva avere il suo numero per chissà quale ragione. Le sarei davvero grato se avesse l’accortezza di rimanere reperibile, nei giorni a venire.»

Le parole sono cortesi, ma il tono duro e secco non ammette repliche. È un ordine questo, non un consiglio.

«Immagino non ci sia bisogno di ricordarle che, semmai le dovesse tornare la memoria o riuscisse a contattare il signor Rojas, mi dovrà avvisare all’istante. Il numero del mio ufficio lo trova sul biglietto» conclude.

Detto questo si volta e, senza aspettare risposta, esce dalla stanza, seguito da Smiti. Negretti e Simoncelli, invece, mi stringono la mano e mi augurano una pronta guarigione. Prima di uscire Simoncelli tira fuori una penna e un block notes e mi chiede se posso fargli un autografo con dedica a sua moglie Elisa, mia grandissima ammiratrice.

«Ma certo, ci mancherebbe» rispondo, dissimulando meglio che posso la mia sorpresa.

«Ha letto tutti i suoi libri, sa?»

«La ringrazio. Ecco qua.»

I carabinieri si congedano, e un istante dopo entra Nunzia: «Come va?».

Scrollo le spalle. Sono stanco, e mi sento la testa, sempre più pesante. L’infermiera armeggia con la flebo e cambia il flacone; poi, con estrema delicatezza, mi prende il braccio e reinserisce il tubo nella cannula. «Ha bisogno di riposare. La soluzione che le ho messo nella flebo l’aiuterà, e vedrà che al risveglio si sentirà meglio.»

«Lei è un angelo, Nunzia.»

«Si figuri, signor Resti. Dovere.»

«Posso farle una domanda?»

«Prego.»

«L’Imperatore, i tribuni, l’aquila che c’è sulla mensola: stiamo parlando dell’Impero Romano, vero?»

Nunzia mi carezza il viso. «Dorma un po’, signor Resti. Liberi la mente e non si arrovelli: lei ha bisogno di stare tranquillo e di riposare, nient’altro» risponde.

Nunzia esce dalla stanza, lasciando la porta aperta. Sono di nuovo solo. Allungo la mano verso il telecomando. Qualunque cosa ci sia nella flebo, sta iniziando a fare effetto. È come se qualcuno stesse costruendo intorno alla mia testa un muro di ovatta. Sento le campane suonare a morto, anche se non riesco a capire se il suono sia reale o no. Anagni è piena di chiese, in fondo. E anche qui – ovunque sia finito – la gente dovrà pur morire. O forse lo spettro del campanaro storpio di Notre Dame ha deciso di improvvisare un macabro rave nella mia testa, scegliendo questa particolare colonna sonora come musica d’esordio.

Accendo la televisione. Uno studio. Un uomo che parla. Deve essere un giornalista, il conduttore di chissà che programma. Sta dicendo qualcosa riguardo l’imminente sbarco sulla Luna. L’Imperatore Marzio Marcello ha fatto un discorso su questa straordinaria conquista di fronte alle legioni della base militare Minerva. Segue una retrospettiva sulla storia della base, originariamente chiamata Camp Darby dagli americani, che la fondarono sul litorale tirreno nel 1951, quando gli Stati Uniti – dice il conduttore – esistevano ancora. Nunzia rientra, per accertarsi che la flebo stia sortendo i suoi effetti.

«Vuole che spenga la televisione?» chiede.

«No, mi concilia il sonno. Una cosa: io sono davvero uno scrittore famoso?»

«Oh sì. Eccome se lo è.»

«E mi dica, quanto sono famoso?»

La donna rimane a pensarci su un secondo. «Be’, è uno degli scrittori più famosi dell’Impero» risponde. «Io, però, non ho mai letto i suoi romanzi: non mi piace il mondo che descrive, lo trovo terrorizzante. Ma so che Checkpoint Charlie, il suo libro d’esordio, ha venduto decine di milioni di copie. Ora, però, deve proprio riposare. La lascio solo: cerchi di dormire un po’» conclude, questa volta chiudendosi la porta alle spalle.

La mente diventa leggera, sgombra. Il principio di emicrania è passato, e una strana, piacevole euforia mi accompagna verso il sonno.

Sullo schermo le immagini di una vecchia parata militare del 2021, ai Fori Imperiali. Carri armati e soldati. Migliaia e migliaia di soldati che eseguono il saluto romano. E poi bighe trainate da cavalli bianchi e neri, e vessilli con l’aquila imperiale romana. Tanti, tantissimi vessilli. Vessilli ovunque. Nelle tribune d’onore vedo notabili, senatori e tribuni, consoli e proconsoli; sono tutti vestiti con tuniche e toghe, abiti da cerimonia che ricordano quelli degli antichi romani. Poi, nel cielo, gli aerei delle frecce tricolori. No, gli alettoni della pattuglia acrobatica nazionale non sono più tricolori. I colori che vedo – gli stessi dei fumogeni che tingono il cielo a formare un’enorme aquila imperiale – sono solo due: il giallo e il rosso.

Le immagini e le parole scivolano via. Non ci faccio più caso e penso a ciò che ha detto Nunzia. Decine di milioni di copie con un solo romanzo. Il Checkpoint Charlie lo ricordo: è stato il più importante posto di blocco tra i settori di Berlino, ai tempi della guerra fredda. Durante la crisi dell’ottobre del ’61 lì si fronteggiarono i carri armati russi e quelli americani. Si rischiò la Terza guerra mondiale, per una notte, anche se in pochi ricordano quell’episodio.

Sprofondo con la testa nel cuscino. E i sogni si confondono alla realtà.

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