domenica 08 dicembre
Il suono di una sveglia mi riporta nel mondo dei vivi. Che giorno è? Che ora è? Devo alzarmi? No, non è la sveglia. Un campanello. Poi dei tonfi sordi. Qualcuno che bussa. Una voce maschile: «Bea, ci sei?».
Apro gli occhi e il buongiorno mi viene dato dal viso della ragazza che ho ucciso. La testa mi esplode. Di nuovo il campanello, di nuovo la voce.
«Bea, ci sei?»
Mi alzo e mi avvicino alla porta in punta di piedi, trattenendo il fiato. Il ginocchio fa meno male di ieri, ma vedo ancora le stelle a ogni passo. Ho la pistola in pugno. Ma la mano che la stringe sta tremando. Guardo dallo spioncino. Un ragazzo dai capelli rossi e il viso pieno di piercing. Mi sposto di lato, spalle al muro.
Da sotto la porta compare un foglio; poi dei passi che si allontanano. Raccolgo il biglietto.
Stai ancora dormendo? Ho visto la tua auto parcheggiata qui sotto. Vado a pranzare giù al bar Mazinga, ci vediamo lì? ps: ti amo!!!
«Cazzo, cazzo, cazzo» mormoro.
Vado in bagno, e nello specchio vedo riflessa una maschera di Halloween. Mi lavo via il sangue dalla faccia e mi chiedo come fare con pantaloni e giacca.
Quella maledetta pazza mi perseguita anche da morta: il suo sangue mi ha imbrattato i vestiti. Non trovo una soluzione accettabile e me li tengo addosso così. Poi provo a eliminare le mie impronte dalle maniglie delle porte e da qualunque oggetto ricordi di aver toccato. Ammesso che qualcuno si prenda la briga di denunciare un omicidio avvenuto nella Cloaca, dubito che arriverà la scientifica. Ma non si può mai sapere: in fondo, di come funzionano le cose qui non ne ho un’idea precisa. Chi gestisce la legge nelle Cloache? Non lo so, e non ho voglia di scoprirlo. Guardo ancora fuori dallo spioncino. Non c’è nessuno, ed esco dall’appartamento cercando di fare meno rumore possibile. Nonostante la mia zoppia, preferisco evitare l’ascensore. A ogni passo maledico il rumore che fa la stampella.
Non incontro anima viva fino al primo piano, dove incrocio un anziano che sta entrando nel suo appartamento. Mi lancia un’occhiata distratta e indifferente, poi si richiude la porta alle spalle. Arrivo al portone e sbircio fuori. Mi precipito all’esterno e mi incammino verso destra, con lo sguardo basso. Vado più veloce che posso, aiutandomi poco o niente con la stampella, che anzi getto nel primo cassonetto lungo la strada: immagino che Chelli e Smiti sappiano anche che giro con una stampella di legno. Devo cambiarmi. Devo trovare un negozio che venda vestiti.
Ogni volta che poggio la gamba a terra sembra che una mambo malvagia infilzi con uno spillone il ginocchio di una bambola voodoo con le mie fattezze. Mi fermo appena girato l’angolo del palazzo e mi guardo attorno. Deve essere l’ora di pranzo; di gente in giro non ce n’è molta e nessuno sembra badare a me, nonostante abbia gli abiti sporchi di sangue. Per la strada, a onor del vero, ci sono dei tizi ridotti anche peggio di me. Vedo anche persone normalissime, alcune vestite di tutto punto, ma nessuno sembra fare troppo caso a chi gli cammina accanto, a chi chiede la carità seduto a terra o a chi è sdraiato in un angolo con la sua scimmia ben aggrappata alla schiena.
Entro in un negozietto di abbigliamento e dico al commesso di aver avuto un incidente d’auto.
Compro biancheria intima, jeans, una camicia scura e una giacca di velluto. Indosso tutto subito, cambiandomi in un camerino. Prima di andare via chiedo dove si trovi piazza Ugo Foscolo. Una cinquantina di metri da dove mi trovo. Ottimo.
Esco e mi accendo una sigaretta, poi getto in un cassonetto la busta con tutti i vecchi indumenti. Percorro i cinquanta metri più lunghi della mia vita con il cuore in gola, sforzandomi di non pensare a nulla. Arrivo in piazza con la mente vuota, ma quel vuoto scompare di fronte al palazzo con il numero 12. Fisso il citofono con su scritto Armellini. Citofonare o no?
Si apre il portone. Un ragazzo con il cane al guinzaglio. Mi infilo dentro senza pensarci e salgo le scale. Un palazzo decadente, con i muri scrostati. Fuori dalle porte sacchi di spazzatura e rifiuti ammucchiati. Ci metto cinque minuti per arrivare al pianerottolo del terzo piano: la gamba mi fa un male boia. Due porte. Sul campanello di quella a destra leggo Armellini. Busso. Silenzio. Busso ancora. Silenzio. Sto per bussare una terza volta, quando da oltre la porta sento dei passi. La mano scivola nel borsello quasi da sola, a cercare la Colt.
La porta si apre e riconosco Nataniel Rojas, anche se l’uomo che ho di fronte è l’ombra di quello che ho visto a Fiumicino. Barba lunga, capelli sporchi e spettinati, due occhiaie nere che incorniciano uno sguardo tormentato e triste, rassegnato. Il volto è scavato e magrissimo, come se in questi giorni si fosse nutrito a stento.
Ha una bottiglia di Distillato del Centurione in una mano, una pistola nell’altra, già puntata verso la mia faccia. Rimane a fissarmi con un’espressione ambigua, quasi sollevata. «Entra» dice alla fine.
Obbedisco, e lascio la presa dal calcio della Colt, consapevole che in uno scontro non avrei alcuna possibilità.
L’appartamento è talmente piccolo che faccio fatica a muovermi. Un letto a una piazza e mezzo, un televisore appeso alla parete, un piano per i fornelli, un lavandino, un frigorifero e un grosso baule rettangolare. Non c’è altro. A parte una bandiera con la lupa e due statuette di bronzo su una mensola.
«Siediti» mi ordina, indicandomi il baule, sul quale c’è una macchina da scrivere, una Olivetti Lettera 72, con accanto una risma di fogli bianchi. Lo scrittore spagnolo si accomoda sul letto, posa la bottiglia sul baule, mi prende il borsello e tira fuori la Colt. Poi afferra di nuovo la bottiglia e fa un sorso. Posso sentire l’odore di whisky del suo fiato.
«Come sei ridotto, David?» dice.
In effetti, se lui è l’ombra di sé stesso, io non devo essere da meno. «Mi hai trovato grazie al numero?» continua. La pistola mi balla davanti agli occhi, e l’idea che possa partirgli un colpo per sbaglio mi terrorizza.
«Mi sono ritrovato un numero di telefono con il suo nome accanto, su un fazzolettino, e ho pagato un investigatore per trovarla» rispondo.
«Il numero, lo sapevo» fa lui, compiaciuto. «Questo tipo, l’investigatore… è lo stesso tizio che hanno trovato morto ammazzato assieme alla spia giap? Non dirmi che li hai uccisi tu, non sei il tipo.»
«Certo che no. Senta signor Rojas, c’è una cosa che devo dirle, anche se mi prenderà per pazzo.»
«Dammi del tu. Non ricordi niente di me, lo so. E non riconosci questo mondo.»
Costui sa. E se sa, la spiegazione può essere una sola: avevo ragione, la chiave di tutto è il romanzo.
«Dov’è il nostro romanzo?» chiedo.
Rojas fa un altro sorso. «Il romanzo è qui, nel baule.»
Devo misurare attentamente le frasi, le parole, le sillabe. Tutto ciò che dico. Ho davanti un uomo alterato, ubriaco e armato; una parola sbagliata e rischio di finire all’altro mondo per direttissima. Lo spagnolo, dal canto suo, mi guarda con un’aria strana.
Sembra indeciso, combattuto, incerto su cosa fare e cosa dire. Giudico che la cosa migliore sia parlargli in modo chiaro. «Voglio tornare nel mio mondo. Voglio solo tornare da dove sono venuto, e mi serve quel romanzo. Il ponte è lui, lo sappiamo entrambi. Dammi il romanzo e leverò il disturbo, non mi vedrai più. Non questa versione di me.»
Rojas abbassa l’arma. «David, David» fa, sorridendo. «Cosa diavolo ho combinato?» aggiunge poi. Ora sospira e scuote la testa. Non sorride più, e sembra anzi dispiaciuto. Cambia umore con una rapidità impressionante, segno che lo squilibrio che gli si legge sul volto è lo specchio di quello che gli tormenta l’animo.
«Facciamo una cosa» dice. «Raccontami tutto. Tutto quello che ti ricordi da quando sei atterrato a Roma.»
Poi, per tranquillizzarmi, posa la pistola sul letto.
Mi accendo una sigaretta, con le mani che mi tremano. Gli racconto quello che mi è successo nel modo più neutro possibile, esponendo i fatti.
«E cosa ne pensi, di tutto questa storia?» mi chiede Rojas. «Che idea ti sei fatto? Che spiegazione più o meno fantasiosa ti sei dato, amico mio?»
«Sono finito in un universo parallelo. Un universo che si è discostato dal mio la notte tra il 27 e il 28 ottobre del 1961, al Checkpoint Charlie. Un’ucronia, la narrativa fantastica ne è piena. Credo che c’entrino i romanzi del mio alter ego, visto che il mondo da cui provengo è quello che vi è rappresentato. Comunque sia, voglio solo tornare da dove vengo.»
Lo scrittore spagnolo scuote la testa e sospira.
«Ti prego, ti chiedo solo di darmi il romanzo» continuo io, quasi supplicandolo. «Forse potrei trovare il modo di portarti con me, se riesco a capire come funziona» insisto.
Rojas posa la bottiglia sul baule e mi prende il viso tra le mani, quasi fossi un bambino da consolare. Ma quello da consolare sembra lui: sta piangendo, ora. Ha i nervi a pezzi. «Perdonami, David. Perdonami» biascica. Mi toglie le mani dalla faccia, si asciuga le lacrime e si riappropria della bottiglia. «Tu non hai idea di cosa sia successo» continua. «E come potresti? Tu credi davvero di venire dal mondo dei tuoi scritti.»
«Non capisco cosa stai dicendo» azzardo, parlando comunque con estrema calma e con un tono il più conciliante possibile.
«Non esiste nessun tuo mondo, David. Non è mai esistito» mi risponde lui, scuotendo la testa.
«Non credo di capire» faccio, e provo ad alzarmi.
Rojas me lo impedisce, posandomi la mano libera sulla spalla. Poi mi punta di nuovo la pistola davanti al viso. «Forse a questo punto è giusto che ti dica tutto dal principio, ma devi promettermi di rimanere calmo, non costringermi a usare questa.»
E così, Rojas inizia a raccontarmi la sua storia, partendo da quando si è trasferito in Italia, quindici anni fa. È diventato uno scrittore affermato, tanto da ottenere la cittadinanza romana per meriti artistici. Mi dice di essere sempre stato un repubblicano convinto. Un democratico. Ottenere la cittadinanza e vivere una vita agiata, apparentemente felice e ricca di soddisfazioni, gli ha permesso di intrattenere rapporti con quell’ala di senatori dissidenti che lavorava in segreto per rovesciare l’Impero. Le vicende dell’ultimo periodo, il referendum che vuole riportare in auge la schiavitù e i combattimenti nelle arene in tutte le province sono stati la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso colmo di idealismo dello scrittore spagnolo.
Ha provato a convincere i senatori repubblicani che l’ora di agire era giunta. C’era bisogno di un’azione eclatante per smuovere le coscienze e risvegliare il popolo. I senatori, però, si sono mostrati pavidi.
«Amico mio» dice, quasi in lacrime, «quanto è fragile la risolutezza degli uomini. Quanto è mutevole, se c’è da passare dalle parole ai fatti.»
Non la sua, però. Con una determinazione allucinata, sospinta da una mente tanto vivace quanto ossessionata, ha messo a punto un piano folle. L’idea, dice, gli è venuta leggendo uno dei miei romanzi, quello dove ho immaginato il presidente americano John Fitzgerald Kennedy che veniva ucciso mentre sfilava in corteo su di una limousine, a Dallas, colpito da un cecchino appostato su un tetto. Rojas ha pensato di far diventare reale quella mia fantasia narrativa, armando la mano di Ernesto Fazi, un uomo con problemi psichici, facilmente manipolabile. Secondo lui, un attentato riuscito avrebbe dovuto spingere i senatori repubblicani a venire allo scoperto. Sarebbero stati loro a parlare al popolo, a guidare la rivoluzione. Mi è evidente che quest’uomo debba essere impazzito da tempo.
«E io che c’entro con tutto questo?» chiedo.
«Tu avevi capito, amico mio» mormora lui.
Rojas sospira, raggiunge la finestra e vi si affaccia. Con un ultimo, lungo sorso, finisce la bottiglia. Si volta e la scaglia contro il muro, mandandola in mille pezzi. «Avevi capito. Se non tutto, comunque molto, troppo. Avevi capito e mi davi del pazzo. Del pazzo, sì… e dell’inguaribile idealista.»
«E cosa è successo dopo?»
«Cosa è successo dopo, chiedi? Alzati, forza.» Mi fa segno di raggiungerlo alla finestra.
Obbedisco, e lui apre il baule. Ne tira fuori due buste di cartone, le stesse buste che aveva a Fiumicino. Una la getta con noncuranza sul letto, dall’altra tira fuori quello che mi sembra un vecchio casco da aviatore. Al suo interno vi sono applicati degli elettrodi.
Sopra c’è il disegno sbiadito di una bandiera a stelle e strisce e, appena appena visibili, le scritte: cia – mk ultra project 027/1959. All’interno, qualcuno ha inciso la frase: Bango Skank Was Here.
Gli elettrodi sono collegati a due fili. Un filo porta a quello che sembra essere un vecchio registratore vocale a cassetta. L’altro filo termina con una normale spina elettrica; quest’ultima è nuova, come se fosse stata aggiunta di recente a quello strano macchinario che, per il resto, dimostra gli oltre sessant’anni che la data sul casco fa presumere abbia.
«Questo è il Ceo» mormora Rojas, rigirandoselo tra le mani. «Il nome in codice gli è stato dato in onore del Titano associato alla saggezza e all’intelligenza. Lo trovo ironico, a suo modo.»
«Temo di non capire» dico.
L’uomo mi invita a riprendere posto sul baule e mi spiega la storia dell’oggetto. È stato rinvenuto in un bunker sotterraneo nella ex base militare di Groom Lake, nello stato una volta conosciuto come Nevada. La base militare, che si trova in quella che io conosco come Area 51, è stata rasa al suolo durante i bombardamenti del ’61. Dagli anni Settanta in poi i proconsoli che gestiscono le provincie senatorie romane del Nord America, collocate sulla costa est, hanno sempre inviato squadre di ricognitori nelle “zone di interesse strategico” delle terre contese con l’Impero giapponese, che controlla invece la costa ovest.
Tra queste zone di interesse c’era la base di Groom Lake, indicata come tale dai militari americani presenti in Italia nel ’61. I più alti in grado di questi militari, mi spiega Rojas, furono integrati con alte cariche nell’apparato militare del neonato Impero Romano.
A detta dei militari americani, nei bunker di quella base erano custoditi segreti militari e progetti – anche illegali e non autorizzati – della cia. Anche i giapponesi sapevano dell’esistenza della base, e così i segreti nascosti di quel sito desolato e radioattivo sono da decenni motivo di interesse e di scontri tra le spie dei due Imperi. L’oggetto che ho davanti, aggiunge lo scrittore, è stato recuperato in un bunker circa nove mesi fa, al prezzo di molte vite umane. Trasferito dopo qualche settimana in una base imperiale sull’isola di Madeira, è giunto in Italia in gran segreto solo ai primi di novembre, per essere analizzato in un avanguardistico laboratorio palermitano.
Grazie alla sua rete di amicizie e conoscenze tra i senatori repubblicani, Rojas sapeva da mesi del Ceo e di quel trasferimento. E ha pianificato nei minimi dettagli il furto, che ha compiuto proprio nel giorno dell’attentato.
«Il Ceo faceva parte di un progetto della cia per il programma di controllo della mente umana» dice lo scrittore, con reverenza. «Credo lo chiamassero Eraser Mind, loro. Si tratta di un prototipo, certo, ma si dice che sia potenzialmente capace di cancellare e riprogrammare la mente degli esseri umani a piacimento. Io l’ho rubato e ho dato fuoco al laboratorio» conclude, con lo sguardo sognante, perso nel vuoto. Poi mi chiede una sigaretta. «Ci pensi, amico mio?» riprende, aspirando boccate a pieni polmoni. «Una rivoluzione, la distruzione dell’Impero… anzi, degli Imperi! E poi la costruzione di un nuovo ordine democratico, con il Ceo nelle mie mani. Sarei potuto diventare l’uomo più potente della terra, rimanendo nell’ombra. Avrei potuto governare un mondo risorto dalle ceneri della tirannia come un’Araba Fenice!»
Pazzo. Rojas è completamente pazzo.
«Se solo l’attentato non fosse fallito, se solo Fazi, quel dannato idiota, non si fosse fatto trovare con il mio numero di telefono in tasca» mormora, ora disperato. Poi, l’uomo torna a fissarmi. Per un istante mi sembra di cogliere nel suo sguardo un barlume di quella lucidità che deve avere avuto un tempo. «Perdonami. Ma era l’unica soluzione, capisci? L’alternativa era ucciderti» dice, sospirando.
«Di cosa stai parlando?» chiedo.
«Di questo» risponde lui, indicando il Ceo.
Mi avvicino al casco; lo prendo e me lo rigiro tra le mani. «Di questo coso?»
«Sì. Tu avevi capito che stavo organizzando un attentato contro l’Imperatore. Te ne avevo accennato: mi fidavo di te. Pensavo che saresti stato d’accordo: anche tu detestavi la schiavitù e il sangue versato nelle arene. E invece… invece ti sei dimostrato un pavido, come tutti gli altri. Hai provato a parlarmi, a dissuadermi, hai addirittura minacciato di denunciarmi. Il giorno prima della sfilata imperiale ti ho detto che avevo cambiato programma: non ci saremmo visti a Roma, ma sarei venuto io a Palermo, per portarti il romanzo. Avevo calcolato tutto, saresti stato il mio alibi per il furto del Ceo e per l’attentato. Ti ho fatto credere di avermi dissuaso da organizzare l’attentato, dal commettere una tale sciocchezza. Tu ne eri felice, amico mio. Così, dopo aver rubato il Ceo, mi sono presentato a casa tua, per vedere la sfilata assieme.»
Lo scrittore esita un istante, come se fosse incerto se continuare o meno.
«E poi?» faccio io.
L’uomo sospira. «Ti ho tramortito. E a quel punto… cosa dovevo fare? Di lì a poco Fazi avrebbe ucciso l’Imperatore. E tu mi avresti denunciato» risponde. «Ho usato il Ceo su di te: volevo cancellarti un pezzettino di memoria, ma qualcosa non ha funzionato.»
Quello che sta blaterando Rojas non ha alcun senso. «Non è possibile» dico.
«Sai come funziona la riprogrammazione?»
«Non ne ho idea.»
«Una leggera scarica elettrica permette, grazie a degli elettrodi speciali, di cancellare la mente, di pulirla, parzialmente o totalmente, in base a quanto registrato sul modulo di riproduzione vocale. E poi, sempre grazie a quel modulo, si possono registrare nuovi ricordi da sovrascrivere nella mente di chi lo indossa. Devono essere istruzioni semplici e chiare, il resto lo fa la mente. Ecco, guarda.»
Rojas inserisce la spina in una presa di corrente. L’interno del casco si illumina di una debole luce rossastra, mentre dal modulo di registrazione viene un ronzio cupo, appena appena accennato.
L’uomo manda indietro la cassetta e spinge play. Gli elettrodi vibrano, mentre dal modulo si sente la voce di Rojas: «Cancellare ogni ricordo relativo al legame tra Nataniel Rojas e l’attentato». La frase viene ripetuta, in un loop perpetuo. «Cancellare ogni ricordo relativo al legame tra Nataniel Rojas e l’attentato. Cancellare ogni ricordo relativo al legame tra Nataniel Rojas e l’attentato.»
Lo spagnolo spegne e stacca la spina. Lo guardo con aria interrogativa. «Ciò che volevo per te si doveva limitare a questo, credimi» continua. «Evidentemente, il modulo di registrazione non funziona ancora bene. Forse si è rotto, o forse non ha mai funzionato. Mi dispiace, amico mio.»
Sembra sinceramente afflitto per me, il che è surreale, visto che continua a puntarmi una pistola addosso.
«Dispiace anche a me, ma ancora non capisco.»
«Ti ho steso sul divano, ti ho applicato il Ceo e l’ho acceso» mi spiega. «Ho premuto il tasto di avvio ed è partita la registrazione, mentre gli elettrodi ti cancellavano la mente. Ho preparato un tè, mi sono seduto in poltrona e ho acceso la televisione, aspettando che il Ceo finisse il suo lavoro. Immaginavo che ti saresti svegliato un po’ confuso, senza ricordare nulla delle ultime ore. Ti avrei detto che avevi avuto un mancamento e ci saremmo visti la sfilata imperiale. Al momento dell’attentato avrei fatto finta di stupirmi assieme a te, di cadere dalle nuvole. Capisci?»
«Credo di sì» rispondo.
«Invece, dopo un po’ hai iniziato a tremare» continua lui. «Il Ceo faceva un rumore strano, un ronzio cupo. Te l’ho tolto, e ho aspettato che ti svegliassi, ma tu continuavi a tremare. Intanto, l’attentato era fallito, e la guardia pretoriana aveva trovato il foglio con il mio numero di telefono nelle tasche di Fazi. Nulla è andato come doveva. Nulla.»
Rojas abbassa la pistola. Il suo viso è teso, sembra pronto a esplodere da un momento all’altro. Mi ripeto ancora una volta che devo rimanere il più calmo possibile; devo misurare le parole, essere conciliante.
«Mi dispiace, amico mio» mormora lo spagnolo.
«Quindi, vediamo se ho capito: io non verrei da un altro mondo, ma sarei il frutto di una riprogrammazione andata male, o qualcosa del genere?» dico.
Rojas annuisce. «Esatto. Il Ceo non ti ha cancellato solo quella piccola, insignificante informazione che avrei voluto ti cancellasse: ha azzerato tutto. E la tua mente ha rielaborato il tuo passato in funzione di… di non so neanche io cosa. Ora tu credi di essere nato e vissuto dal mondo che tu stesso hai creato nei tuoi libri, forse perché eri così concentrato sul nostro ultimo romanzo, la cui trama era proprio questa» dice, indicando l’altra busta che ha tirato fuori dal baule.
La apro ed esulto: il voluminoso fascio di fotocopie che vedo è il romanzo che sto cercando da giorni. Il ponte tra i mondi. Quelle di Rojas devono essere le farneticazioni di un uomo che ha perduto il lume della ragione.
«E i miei ricordi?» faccio, mentre sfoglio il romanzo. «Ricordo la mia infanzia in un altro mondo, ricordo canzoni, ricordo cose che non posso aver inserito nei miei romanzi. Come te lo spieghi?»
«Ricordi indotti. La cancellazione della tua mente è stata il primo passo; poi, in mancanza di una sovrascrittura, il resto lo ha fatto il tuo cervello, rielaborando le informazioni. Ogni cosa, ogni singola cosa che hai nella testa esiste già. Hai rielaborato tutto. Senti, io lo so cosa stai pensando. Io lo so che non mi credi.»
«Non ho detto che non ti credo» lo interrompo. Immagino che per uscire da questa situazione nel modo più indolore possibile sia meglio assecondarlo. In fondo voglio solo andarmene con il romanzo, non certo convincerlo di nulla; e per ottenere quel dannato romanzo, la cosa migliore da fare è dargli corda, fingermi interessato. «Poi cosa mi è successo? Come ci sono finito sullo Zeppelin?» continuo.
«Ti sei svegliato, ma sembravi confuso, una specie di zombo; ti parlavo, ma non capivi. Avevi in tasca il biglietto di uno Zeppelin per Roma, imbarco per la sera successiva: lo avevi fatto tempo prima, perché quella domenica ci saremmo dovuti vedere a Roma, dove avrei dovuto consegnarti il romanzo, che poi tu avresti portato alla tua agente.
«A quel punto ho pensato che dovevo muovermi al più presto, visto che l’attentato era fallito e iniziavano a circolare voci sul mio coinvolgimento. Ho pensato anche che fosse opportuno scomparire per un po’, e questo appartamento di cui nessuno sa l’esistenza era l’ideale. Immaginavo che i pretoriani e i giap non ci avrebbero messo molto a collegare la mia scomparsa, l’attentato e il furto del Ceo.
«Eppure non sono andato subito a prendere uno Zeppelin, ma ho acquistato un posto sul tuo stesso volo. Poi ho cancellato le registrazioni del tuo video terminale, ti ho messo qualche vestito in valigia, ho chiamato un tassì e ti ho portato via, in una pensione vicino all’aeroporto.
«E sai perché ho fatto tutto questo? Sai perché non sono scappato subito, lasciandoti semi cosciente? Per te. Volevo vedere come stavi. Mi sono anche portato dietro il nostro romanzo, nella speranza che ti riprendessi.»
«E mi sono ripreso?»
«Sì, poco prima dell’imbarco. Eri confuso, strano, ma riuscivi a stare in piedi. Ti ho accompagnato fin dentro lo Zeppelin, facendo finta di non conoscerti, visto che tu non mi avevi riconosciuto. Avevo acquistato il posto accanto al tuo, per poterti controllare e, nel caso, aiutare. Una volta seduti ci siamo scambiati qualche parola, e lì ho capito.»
«Cosa hai capito?»
«Ho capito che credevi di vivere nel mondo dei tuoi romanzi. Poi lo Zeppelin è partito. Il resto lo sai.»
«E mi sono addormentato» concludo. Rojas annuisce, mentre io scuoto la testa. «Non dico che non ci credo. Il fatto è che non ricordo nulla di tutto questo. O meglio, ricordo di essermi addormentato appena salito sull’aereo, ma ho ricordi nitidissimi del prima, dell’attesa del volo e tutto quanto.»
«Altri ricordi indotti» fa lui. «Quando siamo atterrati ti ho aspettato, volevo vedere se ti fossi ripreso. E in effetti mi sembravi più… più vivo, ecco. Mi hai anche rivolto la parola, facendomi spaventare; pensavo mi avessi riconosciuto. Non mi crederai, ma se da una parte avevo una paura folle, dall’altra ne sarei stato lieto» conclude.
«Sì, ti ho chiesto se potevi prestarmi il telefono.»
«Esatto. Mi sembravi a posto. Ho pensato che, in un modo o in un altro, dovevi essere fuori pericolo, che te la saresti cavata. E me ne sono andato. Anche se ti avevo lasciato il modo di contattarmi.»
«Il numero sul fazzolettino lo hai scritto tu?»
«Sì, l’ho scritto io.»
Adesso sorride, sembra quasi divertito. Il suo umore mi ricorda le montagne russe del parco giochi.
«L’espediente l’hai usato per la prima volta nel romanzo che stavamo scrivendo assieme, e ho pensato che fosse la cosa giusta da fare» continua.
«Perché? Perché prenderti un simile rischio? Potevo denunciarti, potevo dare quel numero ai pretoriani, a maggior ragione che non ricordavo di averti mai conosciuto. Non avevi alcuna garanzia.»
«Eppure, non lo hai fatto, amico mio. Eppure, non mi hai tradito, nonostante tutto. Eppure, sei qui! Ti ricordi di Delitto e Castigo?» Annuisco. Rojas continua. «Raskolnikov. Mi sentivo come Raskolnikov. Volevo rimediare ai miei errori. Volevo che mi trovassi. Forse posso provare a collegarti ancora al Ceo. Forse possiamo provare a programmare assieme il modulo in modo che tu possa…»
«No» lo interrompo. «Non ci penso proprio.»
«Sicuro?» mi chiede Rojas.
«Lo hai detto tu stesso che quel coso è difettoso, e non ho nessuna intenzione di tentare la sorte» rispondo. «Davvero. Ti ringrazio per il pensiero ma, se ci tieni a me, devi promettermi che non proverai a…» Non termino la frase. Solo, indico il dannato macchinario. Rimaniamo in silenzio per un po’. Lo scrittore spagnolo ha il viso segnato da tormento e senso di colpa.
«E ora che succede? Posso andarmene? Posso avere il nostro romanzo?» chiedo, alla fine.
Lui ci pensa sopra un istante. «Certo. Certo che puoi. Prima, però, c’è una cosa che vorrei.»
«Cosa?» dico, con tutta l’apprensione del mondo. Rojas posa la pistola sul letto e mi prende ancora una volta la testa tra le mani, appoggiando la fronte alla mia.
«Devi perdonarmi, amico mio. Concedimi questo perdono, te ne prego» fa, singhiozzando come un bambino. Sembra davvero che ci tenga moltissimo.
«Ma certo» faccio. «Ma certo che ti perdono. Hai tutto il mio perdono» aggiungo.
Rojas mi abbraccia e mi riconsegna la Colt. «Vai, ora. Prendi il romanzo e cerca di essere felice.»
Ha cambiato di nuovo espressione. Sembra sereno, adesso. Mi alzo, prima che l’umore gli peggiori ancora. Magari può tornargli la voglia di mettersi a giocare con la pistola.
«Ti ringrazio» dico, mentre mi trascino alla porta. «E voglio rassicurarti sul fatto che non dirò mai a nessuno dove ti sei nascosto, te lo giuro. Stai tranquillo.»
«Addio, David» fa lui.
Scendo le scale adagio, appoggiandomi al corrimano. Mi rendo conto di avere fame: sono quasi le tre del pomeriggio. Attraverso la strada, diretto a un distributore simile a quello che ho visto alla stazione Anagnina. Ordino una svizzerina al formaggio e una Roma cola, poi mi trascino verso il piccolo parco il cui ingresso si affaccia proprio sulla piazza. Mi trovo un posto tranquillo e mi siedo con le spalle appoggiate a un albero. Mangio, poi tiro fuori dalla busta una prima manciata di pagine. Il romanzo non ha ancora un titolo. Inizio a leggerlo, cercando di fare poco caso ai cani che giocano con i proprietari e agli spacciatori che gestiscono i propri commerci con aria oziosa.
Al di là dello stile e della struttura narrativa, di cui non me frega un accidente, la storia è degna della mia massima attenzione. Il protagonista sono io: David Resti. Lo scrittore si imbarca all’aeroporto di Palermo su uno Zeppelin diretto a Roma e si addormenta subito. Una volta svegliatosi a Fiumicino, si rende conto che tutto è cambiato. Il mondo si è trasformato e il protagonista si trova inspiegabilmente catapultato nel terribile universo dei suoi romanzi. Lì non è uno scrittore ricco e famoso, ma uno scrittore fallito che per tirare avanti scrive recensioni per elettrodomestici.
C’è la mia vita, nel romanzo. Al posto della Ferrari, la Ford; al posto della villa abitata da una ex moglie e una figlia, la mia casa. E così via. Il protagonista pensa di essere impazzito, e vaga disperato per quel mondo orribile. Ci metto quattro ore per arrivare alle ultime pagine: David Resti, resosi conto di essere stato trasportato lì dal suo ultimo romanzo, non può fare niente per tornare indietro, perché il ponte è rimasto dall’altra parte. Può solo sperare che il suo alter ego, il David Resti fallito che si è trovato improvvisamente famoso e ricco sfondato al posto suo, completi il romanzo scrivendo di tornare indietro, per riprendersi la sua triste, inutile e patetica vita.
Il testo è incompiuto, manca l’ultimo capitolo. Se non fosse per il ginocchio mi metterei a ballare per la felicità.
«Altro che Ceo: lo sapevo che in queste pagine c’era la soluzione di questo maledetto enigma» esulto.
Devono esserci due universi paralleli. L’altro David Resti, vai a capire come, è riuscito a farli comunicare e a scambiare le nostre vite grazie al romanzo. Chissà, forse è una sorta di medium. Forse riesce a “vedere” quello che succede nel mio mondo, magari in sogno, o vai a capire come. Ecco come mai i suoi romanzi ne parlano con tale precisione. Solo che ora il mio alter ego è intrappolato al mio posto, e non può sistemare tutto perché il romanzo, il ponte tra i mondi, è in mano mia. Bene. Non devo fare altro che scrivere il finale e riportare le cose al punto di partenza. I due David Resti che si addormentano per risvegliarsi ognuno al proprio posto.
«Stai tranquillo» dico, rivolgendomi alle pagine che ho davanti, «che tu ci creda o no, voglio tornare alla mia inutile e patetica vita. Domani saremo entrambi a casa.»
Certo, immagino che il mio alter ego avrà molte cose da spiegare alla guardia pretoriana, a Sergio, a Iris e a non so chi altro. Ma in tutta franchezza non me ne frega proprio nulla: voglio solo tornarmene di là. E per farlo, mi ripeto per la centesima volta, devo solo scrivere questo benedetto finale.
Pesco una penna dal borsello, ma vengo subito assalito da un dubbio. Forse con la penna non vale. E poi, dove scrivere? Sul retro delle ultime pagine? E se così non funziona? E se rovino tutto? No, devo giocarmela per bene.
Mi alzo che il sole sta ormai tramontando.
Mi serve una macchina da scrivere, e sul baule di Nataniel Rojas ne ho vista una. Lo implorerò di farmela usare; strisciando, se necessario. Non mi ci vorrà molto, non devo certo scrivere un’opera d’arte. Passo di nuovo al distributore e prendo un paio di panini, due svizzerine Imperiali: magari allo spagnolo farà piacere mettere qualcosa nello stomaco. Mi fermo anche in un bar: meglio presentarmi con una bottiglia di Distillato.
Un paio di avventori stanno parlando dell’omicidio di una ragazza del quartiere. Da quello che rubo dai loro discorsi, stanno dicendo che la tipa era una sovversiva comunista e che nella storia è implicato quello scrittore che tutti stanno cercando. E che nessuno può più entrare o uscire dalla Cloaca, dove mi pare di capire che siano iniziate delle perquisizioni a tappeto.
Citofono a Rojas per cinque minuti, ma non risponde nessuno. Entra una vecchia signora con in mano un cartoncino di latte, e ne approfitto per accodarmi. Salgo le scale fino al terzo piano, più veloce che posso. Sono talmente euforico ed eccitato che quasi non sento più le fitte al ginocchio. La porta è socchiusa. Busso. Nessuna risposta. La apro. E mi trovo davanti al corpo di Nataniel Rojas che penzola dal soffitto. Si è ammazzato, impiccandosi con la sua cintura.
Entro e mi richiudo la porta alle spalle. Tutto sommato, forse è meglio così: non avrò distrazioni, e non perderò tempo prezioso a pregarlo. Mi sistemo di fronte al baule e prendo un foglio dalla risma. Lo inserisco nella macchina da scrivere. Non ne uso più una da quando ero piccolo. Sono impacciato, lento. Faccio alcune prove per prendere confidenza, e quando mi sento pronto inizio a scrivere, con calma. Sbaglio decine di volte, accartoccio e getto a terra decine di fogli, ma alla fine riesco a buttare giù una paginetta dove il protagonista, svegliandosi, si ritrova nel suo mondo, proprio la mattina del 9 dicembre. David Resti apre gli occhi e guardando fuori dalla finestra vede uno Zeppelin nel cielo, mentre i programmi radio e quelli televisivi parlano solo di una cosa: lo sbarco sulla Luna. È il gran giorno, il satellite finalmente conoscerà l’orma di un astronauta. David Resti, che non ha viaggiato nello spazio ma tra universi paralleli, si inginocchia a terra, felice e grato. E piange, piange di gioia.
Tutto qui. Non c’è bisogno di altro. Quello che gli succederà dopo non è affar mio.
Mangio gli hamburger, accompagnandoli con il distillato. Voglio sbronzarmi e crollare sul letto, per riaprire gli occhi lontano da tutto ciò che mi circonda. Dal mondo incomprensibile in cui sono finito, dal ricordo di quella psicopatica a cui ho sparato… soprattutto da questo dannato scrittore spagnolo che mi penzola sulla testa.
Mi dico e mi ripeto che la mia strana avventura è finita, finalmente. Devo solo addormentarmi. Cosa che faccio accucciato sul letto, abbracciato alla bottiglia e con i fogli del romanzo accanto. E con il cadavere di un impiccato a vegliare sul mio sonno, come il più maledetto degli angeli custodi.