DAVID FOSTER WALLACE
martedì 03 dicembre
Sergio chiama verso le due: è stato avvertito del tentativo di furto. Lo tranquillizzo e lo convinco che può far fronte a ogni impegno e rientrare nel primo pomeriggio di domani, come organizzato. Per non farlo preoccupare evito di dirgli che secondo i tribuni l’intrusione è opera delle spie giapponesi, e non faccio cenno al fatto che la scoperta della vera natura di Adelmo mi ha fatto prendere un mezzo colpo. Gli accenno anche all’invito di Iris per il Macbeth. Per lui non ci sono problemi; vuole anzi sapere com’è andata la serata. Gli rispondo che è andata benissimo, senza specificare altro.
Terminata la chiamata chiedo ad Adelmo se c’è la possibilità di fare un bagno caldo, visto che nei servizi interni della mia stanza la vasca non c’è.
Il maggiordomo mi porta nella spa privata di Sergio: nella villa c’è un’area riservata al relax che sembra uscita da un centro benessere di lusso. Oltre a una piccola ed elegante sauna dotata di un moderno triclinium, al centro della sala c’è una vasca a idromassaggio di tre metri per tre, incassata in un pavimento di marmo grigio e nero.
La vasca, rivestita di mattonelle retroilluminate di diverse sfumature turchese, è già piena d’acqua. Completano il quadro un impianto di filodiffusione, un televisore a parete e un telecomando anfibio, che posso lasciare galleggiare sull’acqua, mentre mi godo il bagno.
Il maggiordomo mi informa che ha provveduto a sistemare la stanza degli ospiti e a lavare i miei indumenti. «Mi sono permesso di portarle un cambio di biancheria intima e un accappatoio pulito, signore. Gli abiti che indossa può lasciarli nella cesta lì in fondo, sarà mia premura metterli a lavare quando avrà finito.»
Prendo una manciata di fumetti da una pila ordinata che vedo su un mobile, in un angolo. Il Sergio che conosco colleziona fumetti e li ha tutti sistemati dentro le bustine di plastica d’ordinanza, riposti su delle mensole di legno che si è fatto costruire apposta da un falegname. Questo Sergio, invece, non è un collezionista, ma un lettore occasionale che acquista un po’ di tutto. Entro nella vasca e sistemo i fumetti sul bordo. Ne sfoglio qualcuno, facendo attenzione a non bagnarli.
Gli albi sono più o meno quelli delle collane che conosco, solo che vi trovo sempre dei particolari discordanti. Dylan Dog, per esempio. Questo si chiama Golem Gog, vive a Praga, è biondo, porta gli occhiali e con le donne sembra più che impacciato: una vera frana. Il dongiovanni è il suo assistente, raffigurato non come il sosia di Groucho, ma come quello di Casanova. Il solo fumetto rimasto identico a come lo ricordo è Tex. Non fa una piega. In qualunque universo parallelo si finisca, in qualunque mondo altro si capiti, l’unico punto fermo che rimane non può essere che Tex: ci vuole ben altro che una guerra nucleare, la rinascita dell’Impero Romano e un cambio dimensionale, per scalfire Tex Willer.
C’è anche una rivista che parla di tennis, un vecchio numero di maggio. Io e Sergio siamo sempre stati due grandi appassionati. Sfoglio la rivista con curiosità: i tennisti al vertice della classifica sono più o meno quelli, con l’eccezione di un certo Akira Nishimoto, soprannominato fantasiosamente il Samurai. Orgoglio dell’Impero nipponico, rappresenta una delle sue eccellenze sportive, ed è terzo nel ranking mondiale, dietro solo a Jannik Sinner (orgoglio dell’Impero Romano) e a Carlitos Alcaraz (orgoglio delle province ispaniche). Non ci sono tennisti del continente americano, ovviamente, e scopro che anche i quattro tornei del grande Slam sono rimasti invariati, con l’unica eccezione dello US Open, che adesso si chiama “Tenzone di Tokio” e che viene giocato sul cemento della capitale dell’Impero giapponese. Il tradizionalismo del tennis ha vinto anche sulle vicende di questo mondo, a quanto pare: Roma sarà anche la Caput Mundi, ma non ha un torneo dello Slam: si è preferito ricostruire il tempio di Wimbledon, bonificando l’area circostante.
Nelle pagine finali della rivista, con mia grande sorpresa, trovo un articolo firmato a mio nome. A quanto pare, la passione per il tennis appartiene anche al mio alter ego. E scrive cose davvero particolari: non è solo un “archeologo musicale”, ma anche un appassionato di ogni sorta di storie bizzarre che vengono dal continente americano. L’articolo parla di come sia riuscito a mettere le mani su un quaderno di appunti scritto alla fine degli anni Novanta da questo ragazzotto americano, tal David Foster Wallace c’è scritto, un tizio nato nello stato di New York in pieno inverno nucleare. Uno dei tanti disperati che hanno vissuto arrangiandosi tra le macerie radioattive di una civiltà spazzata via dalla follia umana. Uno che, però, sapeva scrivere, e sapeva farlo dannatamente bene. uno a cui, soprattutto, il tennis doveva piacere, e doveva piacere parecchio.
A detta del mio alter ego, i racconti di Wallace sui circhi itineranti – in cui tra gli anni Ottanta e Novanta ha visto esibirsi questa specie di tennisti-saltimbanchi dal talento sovrannaturale come John McEnroe o André Agassi – sono stati da ispirazione per quei dettagli che tanto piacciono al pubblico: nei suoi fortunati romanzi, infatti, tali sconosciuti circensi di cui nessuno ha mai sentito parlare sono diventati campioni incredibili, sportivi dalla fama mondiale.
Alla fine dell’articolo c’è anche una delle pochissime foto di questo Wallace; lo ritrae con una bandana in testa, giovanissimo, aggirarsi tra le macerie di New York. Nessuno sa che fine abbia fatto, se sia ancora vivo o meno.
Il mio alter ego conclude l’articolo confidando ai lettori che uno dei suoi sogni nel cassetto è quello di prendersi una sorta di anno sabbatico per andare a visitare l’entroterra americano, partendo dalle provincie senatorie romane del Nord America. Vuole ammirare con i propri occhi i circhi itineranti, mettersi sulle tracce di questo David Foster Wallace e, perché no, arricchire il proprio bagaglio musicale, ascoltando quello che hanno da offrire i musicisti indigeni.
Metto da parte rivista e fumetti e, mentre penso al genio di Wallace, alla fascia rossa di McEnroe e alla parrucca di Agassi, mi immergo nella vasca. È tutto così dannatamente surreale che metto da parte i pensieri e mi concentro solo sull’acqua. Ho sempre desiderato una vasca da bagno, ma per questioni di spazio non ne ho mai avuta una.
L’acqua. La schiuma. Il silenzio. Ripenso alla notte trascorsa con Iris: sarebbe bello averla con me, ora. Accendo la televisione e mi perdo tra programmi che non conosco. Dibattiti tra senatori, servizi su uomini in tuta da astronauta, discorsi sul referendum, telefilm tratti dai miei romanzi… le immagini si accavallano e si rincorrono come due gatti nel momento di gioco quotidiano.
Sono stato a un passo dal consegnare ai tribuni il numero di Rojas. Se lo avessi fatto, forse non avrei avuto modo di parlare con lo spagnolo e farmi dare la copia del romanzo. L’unica che esiste, per quanto ne so.
Sì, più ci penso, più mi convinco che avrei commesso una sciocchezza. Mi sono fatto impaurire, terrorizzare anzi, da quei dannati tribuni; non deve accadere più.
Esco dalla vasca e mi infilo l’accappatoio con le idee più chiare: adesso so cosa devo fare. Quando si cerca qualcuno a chi ci si rivolge? A un’agenzia di investigazioni. Immagino che per un investigatore capace sia tutt’altro che impossibile risalire a un indirizzo partendo da un numero di telefono.
Certo è che gli investigatori andranno pagati, e va da sé che devo procurarmi dei soldi; per prima cosa, voglio capire di quanti ne dispongo. Dieci minuti dopo sono in salone, che mi rigiro tra le mani la mia carta della Banca Nazionale dell’Impero.
«Adelmo, una domanda che forse troverai sciocca: come faccio a prelevare dei soldi? In banca? E questa? Posso pagare con questa?»
«Sì, certo signore: può prelevare in banca. E può pagare con la sua carta o in contanti in ogni esercizio, sempre che non preferisca acquistare direttamente dal video terminale.»
Mi faccio spiegare meglio; ho dato per scontato che, non esistendo internet, non esistessero neanche servizi di inBank o di commercio online. Ma non è così. Tutt’altro. Adelmo accende il video terminale. Dalla sezione Servizi si può ordinare più o meno ogni prodotto direttamente da casa, scegliendolo da un supermercato virtuale.
Il tutto viene recapitato con tempistiche che variano da un minimo di pochi minuti a un massimo di alcuni giorni, a seconda della distanza tra il luogo dell’ordine e quello in cui la merce è immagazzinata. Il concetto alla base del sistema è molto simile a quello del mio mondo; anzi, è più omnicomprensivo di qualunque servizio conosca.
Posso ordinare una mozzarella di bufala o un parrucchiere a domicilio; richiedere un ragazzo che mi tagli l’erba in giardino o commissionare un copricapo etnico messicano di produzione artigianale. E da un’ora ad alcune settimane avrò il prodotto o il servizio direttamente a casa, o depositato presso l’ufficio postale più vicino.
Adelmo mi spiega che ogni videoterminale è collegato automaticamente al conto del proprietario, ma vi si può anche allacciare una carta di credito qualunque: basta inserirla nella fessura dietro lo schermo e attivarla con un codice fornito dalla banca. «In questo modo il proprietario della carta può anche accedere al proprio estratto conto» conclude il maggiordomo. «Desidera che le ordini qualcosa?» aggiunge, subito dopo. «Il signor Sergio ha detto che può prendere quello che vuole, senza alcuna limitazione.»
«No, grazie. Voglio solo provare la carta» rispondo. Una volta inserita, sullo schermo compare la richiesta di accesso. Serve un codice numerico di sei cifre. Tento una password, ma niente. Appare una scritta: Primo tentativo fallito.
«Le ricordo che ha tre tentativi, signore» dice Adelmo. «Poi la carta le verrà bloccata.»
«Sai se questa Banca Nazionale dell’Impero è presente, in zona? Se c’è una filiale?»
«Certo, signore. A pochi minuti d’auto da qui.»
Controllo l’ora: le cinque passate. Le banche, a quanto mi dice il maggiordomo, sono aperte a orario continuato, dalle otto di mattina a mezzanotte. Mi faccio spiegare dov’è la filiale, prendo il telecomando del cancello, le chiavi della macchina di Sergio ed esco.
«Adelmo, perdonami» dico, proprio sulla porta di casa. «Non è che potresti far venire a prendere la Ferrari? Immagino che Sergio avrà un carrozziere di fiducia» concludo, e mi dirigo verso l’auto. Da quando ho scoperto che è un robot, dargli ordini mi viene sempre più naturale.
I tribuni sono stati di parola: davanti casa, in effetti, non c’è più nessuno. La piccola folla di giornalisti e curiosi è scomparsa come neve al sole, lasciando però il posto a due vetture. La prima è dei carabinieri, la seconda è una Maserati nera con i vetri oscurati. Guardia pretoriana, immagino. Sono parcheggiate lungo la strada, a qualche metro dal cancello. Quando mi avvio la Maserati si muove e mi segue fino alla banca. Una volta parcheggiato, scendo e mi avvicino all’auto. Busso al finestrino del guidatore, che si abbassa per metà. All’interno, due ragazzi con i completi scuri.
«Scusate, c’è qualche problema?» chiedo.
«Nessun problema, signore. Siamo la sua scorta.»
«La mia scorta?»
«Esatto, signor Resti.»
Mi domando se tali attenzioni siano dovute alla volontà della guardia pretoriana di controllarmi, piuttosto che a una reale preoccupazione per la mia incolumità. In ogni caso, per ciò che ho intenzione di fare questa sorveglianza è un problema. Ci penserò dopo, una cosa alla volta.
Entro nell’edificio. Per accedere all’interno della banca si deve passare attraverso porte dai vetri blindati simili a quelle a cui sono abituato. Forse le banche sono identiche alle banche che ricordo io. E invece no; appena metto piede all’interno mi devo ricredere: ciò che mi trovo davanti sembra la sfarzosa scenografia di un film d’epoca. Pavimenti e colonne di marmo, statue dalla foggia antica, aquile imperiali, una luce calda e avvolgente che scende da decine di lampadari di cristallo che pendono da un soffitto affrescato.
Un altoparlante diffonde musica classica a basso volume, e al posto delle piccole e scomode sedie per l’attesa ci sono delle vere e proprie poltroncine di pelle, ognuna delle quali ha davanti un tavolino con sopra riviste, giornali e addirittura un frigo bar dal quale i clienti possono servirsi mentre aspettano il proprio turno. Un impiegato mi si presenta con un inchino appena accennato, poi mi chiede cosa devo fare, così da assegnarmi un numero progressivo relativo allo sportello di mio interesse. Quando gli dico chi sono e che ho dimenticato il codice della mia carta si inchina, poi mi accompagna in una saletta d’aspetto, separata dal salone d’attesa principale. Cinque minuti e sono seduto nell’ufficio della direttrice.
«Prego, Signor Resti, si accomodi» fa la donna, indicando una poltrona. Poi mi versa da bere. «Questo Porto viene direttamente dalla provincia di Lusitania, e converrà con me che è davvero eccellente. È un piacere immenso rivederla! Un minuto e le consegneremo il nuovo codice.»
«Grazie mille. Sono mortificato per la mia distrazione, ma proprio non ricordo il vecchio codice.»
«Ma si figuri, si figuri! A chi non capita?»
Immagino di essere un ottimo cliente, visto che la donna sembra fare di tutto per compiacermi. Il Porto è ottimo, nulla da dire. Poco dopo arriva un impiegato con una busta e la consegna alla direttrice, che a sua volta la consegna a me. La ringrazio e me ne torno a casa di Sergio, seguito dalla scorta. Una volta arrivato, vedo che la Ferrari non c’è più.
Quanto tempo sarà mai passato, da quando sono uscito? Mezz’ora, tre quarti d’ora al massimo, e sono già venuti a prenderla. Entro in casa, mi accomodo davanti al video terminale e apro la busta. C’è un codice provvisorio per il primo accesso. Lo inserisco e il sistema mi chiede di aggiornarlo con uno di mia scelta. Non ho né tempo né voglia di pensare a nulla di complicato, così imposto il nuovo codice inserendo la mia data di nascita: 140584. La carta si collega al mio conto, e vado subito a controllare l’estratto.
Sono ricchissimo. A quanto leggo, ho qualcosa come cinquanta miliardi di lire. La testa mi gira, e non resisto alla tentazione di dare un’occhiata alla lista dei movimenti, curioso di sapere come il mio alter ego spenda i suoi soldi.
Negli ultimi mesi ho bruciato diversi miliardi. Molti sono versamenti alla mia ex moglie e agli avvocati, ma una buona fetta delle uscite riguarda spese per la casa a Palermo. A quanto pare, in salone ho un giardino zen con tanto di ruscello, fiumiciattolo e ponticello in legno. Poi c’è il bagno preso da Sergio, e mobili pregiati per la camera da letto. Ho fatto istallare anche un camino degno della scenografia di un film fantasy, uno di quelli dove ti ci potresti cuocere un bue intero allo spiedo, e avanzerebbe ancora spazio.
In questo mondo, dunque, sono un maniaco dello shopping compulsivo d’arredamenti d’interno extralusso. La nemesi dell’Ikea Self Made Man dei tempi moderni, tutto polpette svedesi, librerie di compensato leggero e manuali con un paio di disegni stilizzati sopra a fare da istruzioni. Ragiono sul fatto che, in effetti, mi è sempre piaciuto spendere per arredare e personalizzare casa secondo i miei gusti, solo che il budget limitato ha sempre tenuto forzatamente strette le briglie della fantasia. Qui invece…
Esco dalla schermata del conto e vado su quella dei Servizi. Per prima cosa ordino un orologio da polso. Un orologio arancione scuro, quadrante con numeri romani. Poi vado a versarmi qualcosa da bere. Opto per il whisky Scozzo di Sergio da un milione a bottiglia, e torno a sedermi con il bicchiere colmo.
Per sdebitarmi dell’ospitalità, gliene dovrò comprare una cassa intera. Come minimo. Mi ritrovo a pensare a Sergio. Alla videocassetta. Al referendum. Com’è possibile che rimanga indifferente a tutto questo? Non è certo un mostro, posso metterci la mano sul fuoco. Butto giù un sorso e mi rispondo che deve entrarci il relativismo. Il bene e il male sono concetti fumosi, se rapportati a società e culture diverse. O forse no. Forse Sergio in questo mondo è solamente uno stronzo egoista e insensibile, e i morti nell’arena non gli fanno né caldo né freddo.
Forse i repubblicani sono i buoni, e gli imperiali i cattivi. Come in tutti i classici, come in Star Wars. Che in questo mondo magari non è mai esistito. Cerco “Guerre Stellari” nella sezione culturale dei Servizi, quella dedicata a libri, pellicole e albi a fumetti. Mi esce fuori un fumetto italiano della fine degli anni Ottanta. I protagonisti sono Luca che cammina nel cielo, la principessa Lella e Gianni il Solitario.
Pazzesco. Sarebbe anche divertente, se non fosse così dannatamente grottesco. La storia, più o meno, è quella. Solo che si tratta di spazzatura di nicchia, un fumetto di serie b, a voler essere generosi.
Finisco il liquore e cerco delle agenzie di investigazione. Ce ne sono a centinaia solo nel Lazio. In un mondo dove non esistono l’ispettore Facebook, l’agente Instagram, il commissario WhatsApp e il tenente Google, reperire informazioni su chicchessia non deve essere cosa semplicissima. Certi dettagli tecnologici apparentemente insignificanti non influenzano, alla lunga, solo il nostro modo di vivere e di pensare, ma tutta una serie di dinamiche sociali complesse, la fortuna di alcune professioni e di oggetti di uso comune.
Dalla schermata posso fare delle ricerche inserendo determinati parametri, come la fascia di prezzo, gli orari di apertura degli uffici, la provincia o la città in cui c’è una sede. Imposto il valore di prezzo massimo e mi alzo, per versarmi ancora da bere.
Tra le proposte che mi vengono suggerite ne trovo diverse che sembrano adatte al mio caso. Per lo più si tratta di grandi agenzie, alcune con una sede in ogni capoluogo di provincia. A colpirmi, però, è un investigatore privato che specifica di lavorare da solo e che ha un ufficio a Valmontone. Non c’è un orario di apertura, non c’è il numero di telefono. Devi presentarti lì e pregare di trovarlo, evidentemente. Paul S si chiama. Perché il prezzo giornaliero dei suoi servizi si aggiri nella fascia di onorario massima, quella da “Oltre cinquecentomila lire”, mi sembra un mistero tanto affascinante quanto degno di essere indagato.
Un’agenzia di grandi dimensioni ha costi enormi, database, contatti e quant’altro. Ma un singolo uomo? E che plus può darti un singolo uomo in confronto a una grande agenzia con risorse e mezzi a profusione? Al di là della competenza, che visto il prezzo do per scontata, non riesco a immaginarne che uno: la discrezione. Se mi rivolgessi a una grande agenzia cosa potrebbe succedere? In quanti mi vedrebbero entrare nei loro uffici? E se qualcuno intuisse che sto cercando Rojas avrei diversi problemi.
Ripenso al ghigno sicuro di Chelli e al volto inespressivo di Smiti. E mi sento subito a disagio. No, non voglio nessuna grande realtà investigativa del cazzo. Voglio un professionista fidato, e più guardo la pagina di Paul S, più mi convinco che è l’uomo giusto per me.
Le pagine pubblicitarie delle grandi agenzie mostrano le sedi, con corridoi e uffici pulitissimi, centraliniste indaffarate con le cuffie in testa, investigatori privati in giacca e cravatta con sorrisi da spot pubblicitario e la barba fresca di rasatura. Il mio Paul S, invece…
Nella sua pagina non ci sono immagini della sua persona o del suo ufficio, neanche a pagarle. L’unica foto che si vede ritrae, in primissimo piano, una vecchia Colt degli anni Cinquanta, un tesserino da investigatore privato che deve aver visto giorni migliori, un posacenere con una sigaretta e un bicchiere di whisky mezzo pieno con ancora le impronte delle dita stampate su. Il tutto illuminato da una lampada da scrivania d’altri tempi. Sembra il poster di un film noir d’annata. Sì, Paul S è il mio uomo, non ho dubbi.
Adelmo viene a chiamarmi: l’orologio è arrivato. E la cena è pronta. Finito di mangiare gli spiego le mie intenzioni per la mattina successiva, sperando che qui, a limitarmi, non ci siano particolari leggi della robotica.
«Domattina io dovrei uscire, ma non desidero essere seguito. Puoi aiutarmi?»
«Se posso, volentieri. Ma non potrò eseguire compiti che prevedano azioni atte a infrangere la legge.»
«Non preoccuparti, Adelmo. Dovrai solamente uscire di casa con indosso i miei abiti e un cappellino; poi, dovrai prendere l’auto di Sergio e andarti a fare un giro. Io, invece, mi allontanerò con il tuo impermeabile, utilizzando l’altra auto, l’utilitaria che c’è in garage e che di norma usi tu.»
Impieghiamo altri cinque minuti per definire i dettagli di un piano che, pur essendo tutt’altro che degno di un romanzo di spionaggio, in questo momento mi sembra il migliore che possa attuare.
Dopo cena parcheggio in garage l’auto grande di Sergio, accanto all’utilitaria che usa Adelmo. Una volta rientrato prendo la bottiglia di scotch, ancora piena per tre quarti. Mi sento già un po’ brillo, visto che a cena non mi sono risparmiato il vino rosso; ciononostante continuo a bere: l’idea di seminare la guardia pretoriana per recarmi nello studio di un enigmatico investigatore privato mi eccita e mi impaurisce allo stesso tempo. E questo turbinio di sensazioni mi spinge a bere, vuoi per calmarmi, vuoi per infondermi coraggio.