Capitolo 03

SERGIO ZATTIN

domenica 01 dicembre

Sono le tre di pomeriggio passate, e mi sto rigirando tra le mani la bottiglia d’acqua che avevo sul comodino. È di vetro, con un’etichetta di cartoncino colorato con sopra il nome e l’immagine di Diana; la dea è intenta a raccogliere in un’ampolla l’acqua che sgorga da una sorgente.

Penso a cosa fare una volta uscito dall’ospedale. Dove andare? A casa mia no, visto che a quanto pare ci abitano una ex moglie e una figlia che non ricordo di avere. C’è sempre Sergio, magari posso passare da lui. Mi chiedo se, ovunque sia finito, io e lui siamo ancora buoni amici.

Penso a tante cose, mi pongo un’infinità di domande. Mi è capitato mille e mille volte, nella vita, di chiedermi cosa avrei fatto e come mi sarei comportato al posto di un certo personaggio del romanzo o del film di turno, quando a quel personaggio capitavano accadimenti impossibili e fantasiosi.

Mi sono nutrito di storie horror, fantasy, e surreali con la ferma convinzione di saperla più lunga di ogni protagonista, coprotagonista o comparsa sacrificale; con la salda certezza che io, al loro posto, non solo non avrei perso la calma, ma sarei riuscito ad affrontare ogni situazione con facile naturalezza, incrollabile ottimismo e, perché no, con una certa dose di disincantata ironia, prendendo sempre la decisione migliore, facendo sempre la scelta giusta.

Quanto mi sbagliavo.

Mi rendo conto che, di fronte a certe situazioni, mi sento tutt’altro che un eroe. Sono invece annichilito, impaurito, sopraffatto.

«Signor Resti, ci sono visite.» La voce di Nunzia mi distoglie da ulteriori pensieri. «Elisa Ottavia Ragusa e Sergio Zattin. Per lei va bene?»

Certo che va bene. Sergio, finalmente. Entra per prima la donna che abita a casa mia; indossa un elegante tailleur nero e sul viso, teso e nervoso, ha stampata un’espressione funerea. La segue Sergio; anche lui ha uno sguardo preoccupato. Ed è diverso dal Sergio che conosco: è in grandissima forma, sembra ringiovanito di dieci anni. L’uomo barbuto e dai capelli arruffati che vestiva sempre in tuta per nascondere una discreta pancia ha lasciato il posto a un uomo dal fisico asciutto e curatissimo. Sembra un modello, e gli abiti che indossa hanno l’aria di essere eleganti e costosi. Ma si tratta proprio del mio amico, su questo non c’è alcun dubbio. La prima faccia conosciuta che vedo da quando è iniziato questo strano incubo. E così, mi ritrovo con gli occhi lucidi, aggrappato al calore del suo abbraccio.

«Insomma, cos’è questa storia?» chiede la donna. «Perché sei venuto da me, ieri? Cos’erano quei discorsi strani, prima di svenire, o quello che ti è successo?» Non so bene cosa risponderle, e rimango in silenzio. «Sei coinvolto in qualche modo nella storia dell’attentato?» continua lei. «Se è così, devi dirmelo. Devi dirmi tutto e devi dirmelo subito, David. Ne va anche della mia reputazione, e quindi della mia carriera, te ne rendi conto? Voglio sentire i miei soci dello studio legale e capire se questa storia…»

«Frena, frena. Ma quale attentato?» esplodo, stizzito. Non ce la faccio più a essere associato a quel dannato attentato. «Dammi un attimo di respiro. Ora vi spiego ogni cosa, vi chiedo solo di non interrompere e di ascoltarmi in silenzio fino a che non finisco.»

Racconto ciò che ricordo, da quando mi sono addormentato in aereo a quando mi sono svegliato in quello che, evidentemente, non era più un aereo, ma un dirigibile. Fino all’arrivo alla villa che sorge al posto di casa mia. La cosa strana è che, a giudicare dalle occhiate che si lanciano, sembra che Sergio e la mia presunta ex moglie sappiano benissimo di cosa parlo quando accenno al mio mondo, a Smartphone e a personal computer.

«Cosa sta succedendo? Ne avete idea?» concludo. Per tutta risposta, la donna mi tira uno schiaffo in faccia; uno schiaffo talmente forte che mi fa volare via gli occhiali.

«Che tu sia dannato, David» dice. «Vuoi fingerti pazzo? Potevi trovare un modo più originale di questo. Sai cosa penso? Penso che tu sia coinvolto nell’attentato. Sì, penso proprio che tu sia legato ai repubblicani, in un modo o in un altro. E ora stai giocando questa carta patetica per… non so neanch’io perché. Forse vuoi farti passare per matto, non lo so. E sai che c’è? Non lo voglio sapere. Alla fine, questa storia me la farò tornare utile: ti leverò tutto, David. Tutto. Fino all’ultima lira. Stai lontano da me e stai lontano da nostra figlia. Domani farò emettere un’ordinanza restrittiva, puoi scommetterci; quindi, non azzardarti a riavvicinarti a casa mia, a me, o a Diana Olimpia.»

Detto questo si volta ed esce dalla stanza.

«Cosa sta succedendo?» chiedo a Sergio, che intanto mi ha raccolto gli occhiali.

«Dovresti essere tu a dirmelo» risponde. Il tono della sua voce è calmo, ma lo sguardo sembra ancora più preoccupato di prima.

«Ma se ve l’ho appena spiegato.»

«Davvero tutto questo non c’entra nulla con l’attentato? A me puoi dirlo, lo sai che sei come un fratello.»

«Te l’ho detto e te lo ripeto: non c’entro assolutamente nulla con quella storia. Non ne so niente.»

«Credo che tu abbia bisogno di riposare: il dottore ha detto che hai preso una botta in testa, ed evidentemente hai una piccola amnesia selettiva. Stai sovrapponendo la realtà e la fantasia.»

«Non c’entra nulla la botta e non ho nessuna amnesia. Quando sono caduto e ho sbattuto la testa era già tutto diverso. Chiedilo a quella tizia che dice di essere la mia ex moglie, se non mi credi. A proposito, prima mi è sembrato che ciò di cui parlavo non vi fosse estraneo. Perché?»

«Perché sono cose di cui racconti nei tuoi romanzi» sospira Sergio. «Senti, ho parlato con il medico: ti basta firmare un foglio per uscire da qui. Vieni a stare da me, per qualche giorno, che ne dici? Così avremo il modo di farci quattro chiacchiere, e soprattutto potrai startene tranquillo: per quanto sia ottimo, questo è pur sempre un ospedale!»

Non chiedo di meglio. Sergio va a chiamare il dottore, mentre mi rivesto e penso alle sue parole. I miei romanzi; cosa c’è scritto nei miei romanzi? Firmo il foglio di congedo che sono le cinque del pomeriggio, poi saluto Nunzia con un abbraccio, il dottor Nardelli con una stretta di mano.

Seguo un giovane infermiere incaricato di condurmi fuori da un’uscita secondaria: Sergio mi sta aspettando in macchina nella piazza della cattedrale, dal momento che davanti l’ingresso principale dell’ospedale ci sono diversi giornalisti che non vedono l’ora di intervistarmi. Scendo le scale e percorro il dedalo di corridoi fino all’uscita nei pressi di porta Santa Maria, poi continuo a piedi fino alla piazza.

Salgo sull’auto del mio amico, una lussuosa Fiat di un modello che non ho mai visto. Devo chiedergli mille cose, ma rimango in silenzio, intento a scegliere le parole migliori, a pensare alle domande giuste. Mentre ragiono su cosa dire, e come, ci fermiamo di fronte a una fontanella, contorniata da dei graziosi vasi di fiori. Vedo due rubinetti; uno è a getto continuo, l’altro ha un tubo che termina con quella che sembra una lancia dei distributori. Sergio scende, fa un sorso d’acqua dal primo, poi prende il tubo del secondo, svita il tappo del serbatoio e ci infila la lancia dentro.

«Cazzo fai?» urlo, uscendo dall’auto.

«Sto riempiendo il serbatoio» risponde, guardandomi come se fossi pazzo.

«Con l’acqua?» chiedo, esterrefatto.

«E con che cosa lo dovrei riempire? Con la benzina, come nei tuoi romanzi?» risponde, divertito. Torno a sedere con l’espressione di un bambino a cui hanno appena spiegato che Babbo Natale non esiste. «Senti, David, te lo chiedo ancora: stai giocando?» continua Sergio, appena mi raggiunge in auto.

«No, non sto giocando.»

«Davvero non sai che le auto vanno ad acqua?»

«Come faccio a sapere una cosa del genere? Da dove vengo io vanno a benzina, o a diesel, o a gas. Al massimo sono elettriche.»

«Non è più così da anni» fa lui, con un tono cupo. Rimaniamo in silenzio per un pezzo, poi Sergio scuote la testa e sospira. «Ascolta, ora andiamo a casa, ti fai un bagno caldo e poi magari ci vediamo una pellicola, che ne dici?»

«Ci vediamo una… cosa?» rispondo.

«Una pellicola. Aspetta: nei tuoi romanzi li chiami ancora film, come si faceva nella vecchia era.»

«Le parole straniere non si usano più, immagino.»

«No. Dall’editto imperiale del 1982. Qualche termine è rimasto in uso; che so, quelli che vogliono fare i sofisticati dicono ancora brioche, ma i termini stranieri non sono più in voga. Al contrario di ciò che succede nei tuoi romanzi, qui i barbari non hanno conquistato il mondo: nell’Impero si insegnano italiano e latino, non le loro lingue.»

Presumo che per barbari intenda inglesi e americani. Mi prendo la testa tra le mani. Poi mi passo gli indici sulle palpebre. «Senti, non andiamo a casa» dico. «Portami in giro.»

«In giro?»

«Sì, voglio fare un giro. Anche se non so il come e il perché, almeno voglio vedere dove sono finito. Portami a Roma. Sempre se ti va e se non hai altro da fare.»

Sergio annuisce. Per quanto ci conosciamo da una vita, la situazione ha un che di onirico: ognuno dei due si rende conto che la versione dell’amico sedutogli accanto non è quella giusta. Lui deve pensare che io sia impazzito, mentre io non ho idea di cosa pensare.

«Che lavoro fai?» gli chiedo.

«Imprenditore edile. Ho anche una linea di negozi di arredamento di lusso per interni ed esterni. Ma i soldi veri li faccio costruendo, con gli appalti nelle province imperiali; lì sì che c’è da arricchirsi» risponde.

«Da dove vengo io sei un impiegato. Lavori in un’edilizia economica specializzata in arredi per sanitari. Con gli scarti e le rimanenze che mi hai portato mi sono piastrellato il bagno usando mattonelle di sedici colori diversi. Sarà stato due o tre settimane fa. Mi hai anche dato una mano a incollarle, e ci è comunque uscito un pessimo lavoro. Ma immagino che questo ricordo lo abbia solo io.»

Sergio sorride. «Be’, io invece so di averti venduto un bagno assai lussuoso da cento milioni di lire, due o tre settimane fa. Per la tua nuova casa di Palermo. Te l’ho spedito in Sicilia assieme a degli operai fidati che te lo installassero. Ma immagino che questo ricordo lo abbia solo io.»

Incasso la battuta e non rispondo.

Ho sempre pensato che Sergio sia sprecato per il lavoro che fa, così come lui pensa che io abbia più talento di quello necessario per descrivere le caratteristiche di un elettrodomestico. Ovunque mi trovi, qui siamo riusciti entrambi ad avere successo.

In autostrada parliamo di noi. Sono un uomo sostanzialmente solo anche in questo mondo: figlio unico, nessun parente stretto in vita. In compenso, mentre da dove vengo non mi sono mai sposato e Sergio ha una moglie e due figli, qui mi sono sposato dieci anni fa con una giovane e brillante neolaureata in legge, e quello a essere rimasto single è lui.

«Perché ho divorziato?» chiedo.

Sergio scrolla le spalle. Con il passare del tempo, dice, io e mia moglie abbiamo smesso di amarci. Aggiunge che nell’ultimo anno ho frequentato un’attrice teatrale di Roma, sua cara amica. Con lei ho rotto da poco, vista e considerata la mia decisione di trasferirmi a Palermo.

Intanto, siamo usciti dal casello: appena superato il raccordo lo spettacolo che mi si presenta davanti è talmente assurdo da lasciarmi senza fiato e annullare ogni altro pensiero: Roma sembra uscita dal set di un film fantascientifico.

Grattacieli enormi che accarezzano un cielo dove volano decine e decine di Zeppelin; sopraelevate a cinque corsie poste su livelli differenti che dalle periferie confluiscono verso il centro, inserite nel contesto urbano e paesaggistico con una sapienza estetica tale da non farle quasi notare; una cura del verde maniacale, tanto che, ovunque vaghi, il mio sguardo viene catturato da parchi, alberi e giardini di incredibile bellezza.

Sergio mi indica le torri di marmo e pietra, alte almeno duecento metri, che troneggiano sui colli romani; sopra ognuna di esse si erge una statua rivestita in oro e argento alta cinquanta metri. La stessa statua, per ogni torre: l’aquila imperiale romana.

«Andiamo al Bacco, un’enoteca che ti è sempre piaciuta moltissimo. Parco del colle Oppio, con vista sul Colosseo.»

«Va bene» mormoro.

Migliaia di veicoli in movimento, eppure, non c’è un solo rallentamento dovuto al traffico, tanto che arriviamo in centro in un attimo. Le auto poi, oltre ad andare ad acqua, sono anche assai silenziose.

Una volta arrivati al locale rimango ancora una volta a bocca aperta. Il giardino si apre su una terrazza panoramica da cui si ha una vista privilegiata sul Colosseo. L’Anfiteatro Flavio, rivestito di marmi colorati e travertino bianco, splende alla luce dell’ultimo sole della giornata come un diamante. Ai suoi lati due enormi statue, anch’esse di marmo, alte una settantina di metri l’una. Sono imponenti, magnifiche, maestose.

Raffigurano Romolo la prima, Giulio Cesare la seconda. Il braccio destro di entrambe è allungato in un saluto romano. L’incrocio di quelle braccia sovrasta l’anfiteatro, come a volerlo proteggere. Nella mano sinistra, abbassata lungo la coscia, stringono un gladio, la cui punta guarda verso il suolo. Lo spettacolo è a dir poco stupefacente.

«Il Colosseo è stato ristrutturato a partire dalla fine degli anni Settanta; ci sono voluti quasi trent’anni per riportarlo agli splendori di un tempo, ma ne è valsa la pena. La costruzione delle statue, invece, è iniziata nei primi anni Novanta ed è terminata una decina d’anni fa. Uno dei progetti architettonici più suggestivi e simbolici del nostro Impero» mi spiega Sergio, orgoglioso.

Appoggiato alla balaustra di ferro battuto, sembra parlare più a sé stesso che a me. Io, intanto, cerco di rubare ogni dettaglio della magnificenza che ho di fronte. Attorno al monumento non passano auto; anzi, a parte via dei Fori Imperiali non ci sono proprio più strade, ma un enorme e curatissimo parco. Attorno al Colosseo, migliaia e migliaia di persone in fila ordinata.

«Che succede? Sono visitatori?»

«No» risponde il mio amico. «C’è uno spettacolo, più tardi. Se vuoi ti ci porto: sono abbonato e ho un piccolo palco tutto per me.»

«Ma cosa è successo qui?» chiedo, incredulo.

Sergio mi prende sottobraccio. «Niente, David. Qui non è successo proprio niente. È nei tuoi romanzi che Roma è una fogna. Anzi, sono una fogna tutta l’Italia, tutta l’Europa e tutto il pianeta Terra.»

Ci accomodiamo dentro il locale e ordiniamo due calici di vino. «Di cosa parlano esattamente i miei libri?» chiedo, dopo un sorso di un ottimo rosso.

Sergio sospira e scuote la testa; poi si riempie il bicchiere di vino. Ma non risponde.

«Insomma, di cosa parlano?» insisto.

«Di un mondo di merda, amico mio. Parlano di un mondo di merda! Quello da cui credi di venire, dio solo sa perché. Senti, mi è venuta in mente una cosa: non è che a Palermo ti sei preso roba strana?»

«Che intendi per roba strana?»

«Pasticche, droghe sintetiche o roba simile. Perché, vedi, è possibile che magari tu sia ancora sotto gli effetti di una qualche sostanza. Forse dovremmo andare in una clinica specializzata. Conosco uno psichiatra bravissimo che potrebbe visitarti.»

«Ti prego, basta» sbotto. «Senti, facciamo così: immagina che io venga da un universo parallelo e che mi sia ritrovato catapultato qui per una sorta di… non lo so, magia, o quel che vuoi tu. Sei disposto a comportarti con me e a rispondere alle mie domande come se in effetti venissi da un altro mondo? Senza tirare in ballo amnesie, botte in testa, cliniche, ospedali, droghe sintetiche o vai a capire cos’altro. Che ne dici, ci stai?»

Sergio ci pensa su un attimo, poi mi invita ancora a brindare. «Va bene» fa. «Ci sto. Al mio migliore amico, viaggiatore tra universi paralleli» aggiunge, con tono solenne. Sorridiamo entrambi e alziamo i calici.

«Ok. Checkpoint Charlie, il romanzo con cui sarei diventato famoso: di cosa parla?»

«Vediamo, quel romanzo è un’ucronia distopica. La storia cambia quando i carri armati sovietici e quelli americani, la mattina del 28 ottobre 1961, si ritirano dal Checkpoint Charlie di Berlino, per ordine diretto dei due presidenti, Kruscev e Kennedy.»

«Immagino che qui, invece, non sia andata così» chiedo, con il cuore a mille.

«Davvero non te lo ricordi?» fa Sergio. Scuoto la testa e faccio un altro sorso di vino. «Al Checkpoint Charlie hanno sparato. E niente, poi sono scoppiate le bombe.» Sgrano gli occhi. Sergio continua. «Sai, in quel romanzo sei partito da una bella premessa: nessuna guerra atomica. Solo che poi hai descritto un mondo che di decennio in decennio è peggiorato, e si è votato all’autodistruzione. Un mondo terribile e cupo, in conflitto permanente. Il pianeta in cui sono ambientati i tuoi romanzi è quanto di più malato si possa immaginare, fa davvero schifo. Ci hai fatto fortuna, però. Hai risparmiato al mondo l’inverno nucleare, ma gliel’hai fatta pagare con gli interessi: guerre più o meno ovunque, continenti di plastica che galleggiano negli oceani, un inquinamento devastante, epidemie pandemiche che costringono in casa miliardi di persone; senza contare le nuove generazioni che descrivi, completamente lobotomizzate davanti agli elaboratori domestici o ai telefoni portatili.»

«Ho capito il concetto» lo interrompo. «Il mondo che hai descritto è esattamente il mondo da cui vengo» continuo. «Il mondo che conosco. Parlami di questo, di mondo. Cosa è successo? Mi stai dicendo che c’è stata la Terza guerra mondiale: chi l’ha combattuta? Chi l’ha vinta? Come è possibile che ora ci sia quello che vedo e non un mondo post apocalittico come quello descritto in certi film o in certi romanzi di genere?»

«Frena, frena» fa Sergio. «Punto primo: io non sono uno storico. E non ero certo uno studente modello, a scuola. Posso raccontarti i fatti giusto a grandi linee. Punto secondo: non c’è stata nessuna guerra mondiale. Non c’è stato il tempo di combattere.» Sergio finisce il suo vino e ordina direttamente una bottiglia. «Credo che ci servirà» dice.

«Continua» lo esorto. «Che vuol dire che non c’è stata una guerra? Cosa è successo?»

«Cosa vuoi che sia successo? Americani e sovietici hanno lanciato le bombe. È durato tutto un paio di giorni, non di più. Berlino è stata la prima, e credimi se ti dico che ancora non ho capito chi ha lanciato quella bomba. Chi dice che l’abbia ordinato Kennedy, chi dice che sia stato Kruscev. Comunque, poi si sono distrutti a vicenda. E hanno distrutto mezzo mondo. Ci siamo salvati solo noi. Noi e i giapponesi. Delle grandi capitali, delle grandi città occidentali sono rimaste in piedi solo Roma e Tokio.»

Prendo la bottiglia di vino. Il nettare del Fauno, si chiama. Sull’etichetta, in effetti, c’è un fauno che sta bevendo vino, sdraiato sotto un albero. Sembra davvero felice. Mi verso un bicchiere e ne mando giù metà, di un fiato. Poi esorto il mio amico a dirmi di più.

«E dai, non lo so» risponde, quasi spazientito. «Chi si ricorda! Sono cose che ho studiato anni fa, diamine. Vediamo: furono colpite le nazioni e le città più importanti.» Sergio fa un sorso di vino. «Tempo due giorni e mezzo mondo non esisteva più. L’altro mezzo divenne in breve un vero e proprio inferno di guerre civili e anarchia.»

«Quanti morti?» chiedo.

«Tra le esplosioni e le carestie degli anni successivi, si calcola circa due miliardi e mezzo. Forse più. Circa cinque sesti degli abitanti del pianeta. Questo lo so per certo perché proprio due mesi fa è stato annunciato che la popolazione mondiale è tornata a quel numero.»

«E noi? Hai detto che Roma non fu colpita.»

«Esatto. Nessuno ci bombardò. Noi e i giap. Perché? Non lo so. Tante teorie in merito, nessuna certezza. E a chi volevi chiederlo, poi? Kennedy e Kruscev morirono durante i bombardamenti.»

«Dimmi del dopo» continuo, «dimmi come è stata possibile una cosa del genere. Dopo un conflitto nucleare mi aspetterei un mondo tornato al medioevo, non quello che vedo qui. E poi, l’Impero Romano? Ma scherziamo? Come è possibile che qualcuno abbia ricostituito un cazzo di Impero Romano? È pazzesco. Fuori da ogni logica.»

«Il ventennio successivo non fu facile per nessuno» ribatte Sergio. «Mezzo mondo era radioattivo, quasi invivibile; l’altro mezzo era devastato da anarchia ed epidemie. L’inverno nucleare aveva portato la razza umana sull’orlo dell’involuzione. Ci furono guerre civili un po’ ovunque, anche qui in Italia. Attentati, scontri tra comunisti, nostalgici fascisti, soldati americani ancora presenti nelle basi. Però noi stavamo meglio degli altri: avevamo ancora uno Stato e un’economia che, bene o male, continuava a funzionare.

«Ci fu una crisi di governo, i militari presero il comando fino alle elezioni del ’63. Si presentò una nuova coalizione con un programma al di sopra di ogni partito, di ogni ideologia. Il concetto era semplicissimo: in un mondo morente, volevano restaurare i fasti della Roma imperiale. Misero d’accordo tutti, da destra a sinistra. Con la benedizione del Vaticano. Vinsero, e ci fu un referendum per passare da Repubblica a Impero. Il resto è storia. Gli altri avevano macerie e cenere radioattiva, noi avevamo Roma, la Caput Mundi. Gli altri combattevano ancora sanguinose guerre civili tra sopravvissuti, noi avevamo un Imperatore. E un esercito. E grandi scienziati, grandi industriali. Gente come Enrico Mattei, Roberto Olivetti, Federico Faggin. Insomma, tempo vent’anni ed eravamo padroni di quello che rimaneva dell’Europa e dell’Africa.»

«E poi?»

«Poi ci siamo dati da fare. Abbiamo ricostruito, colonizzato. Considera che dagli anni Novanta la situazione del pianeta è migliorata moltissimo. Ora stiamo molto attenti a uno sviluppo sostenibile, ecologico. Sia noi che i giap. È una sorta di dogma.»

«I giapponesi, dici? Nel resto del mondo comandano loro?» chiedo, sempre più sorpreso da quello che mi sta raccontando Sergio. I giapponesi… come nella Svastica sul sole di Dick. Un romanzo che qui non deve essere mai uscito, tra l’altro, visto che il mondo è impazzito un anno prima della sua pubblicazione.

«Sì, si sono presi Asia e Oceania. Il continente americano è ancora conteso. Uno dei motivi di maggiore attrito tra i due Imperi, assieme al Medio Oriente. Senti, ora usciamo che ti porto al Colosseo.» Sergio si alza e indica fuori dalla finestra. «Invece di pensare al passato guarda qui fuori: Roma, la città più bella che esista. La più ricca, la più visitata del pianeta. Anche i giap ce la invidiano. Voglio dire: Tokio non è male, ma Roma… Roma è la Caput Mundi. Un gioiello completamente restaurato, tornato agli sfarzi di millenni fa. Pensa a questo e sorridi, diavolo!»

Seguo il mio amico fuori, ma a sorridere proprio non ci riesco. Mezz’ora e siamo seduti in un piccolo palco privato situato nel terzo dei cinque anelli presenti nell’anfiteatro, quello dedicato a bar, ristoranti, centri commerciali e, appunto, palchi privati. Il Colosseo è stato ristrutturato con mano sapiente e ampliato in altezza, seppur nel rispetto del disegno e dell’architettura originali. Mi spiega Sergio che, con i suoi centomila posti, è l’arena più grande al mondo.

«Cosa ci fanno?» chiedo. «Concerti?»

«Anche, sì. Ma soprattutto corse con le bighe e giochi gladiatori. A volte anche naumachie; non stasera, però. In ogni caso, è un grande spettacolo. Intrattenimento, musica, artisti, ora vedrai! Ma ordiniamo la cena, intanto» fa, pigiando i tasti di un piccolo schermo posto in corrispondenza del suo posto. «C’è lo Zen, un ristorante giap. Uno dei migliori del Lazio, e forse di tutto l’Impero. Si può ordinare direttamente dai palchi e portano tutto qui. Molto comodo, soprattutto se si è in dolce compagnia, anche se stasera vedrò di accontentarmi del mio migliore amico» scherza.

Sorrido a Sergio, mentre mi si stringe il cuore. Ce la sta mettendo tutta, per sdrammatizzare e provare a mettermi a mio agio.

«Cucina giap? Non hai detto che sono nemici?»

«No, non nemici. Rivali, semmai» risponde. «Ma con il Giappone i rapporti sono buoni, ci sono un’infinità di trattati per scambi culturali e commerciali. Sai, dopo quello che è successo tra usa e urss, ti assicuro che nessuno vuole una guerra. Le divergenze sono sullo sfruttamento delle ricchezze del continente americano, e sui confini della provincia di Persia. E poi, vabbè, la rivalità per la corsa spaziale. Ma se è vero che sono stati loro a inviare il primo astronauta in orbita attorno alla Terra, fra qualche giorno ci vendicheremo alla grande. Ti immagini? Il primo a mettere piede sulla Luna sarà un italiano. Non vedo l’ora.»

Sergio si infervora sempre di più. Di tutti i discorsi che abbiamo fatto, quello dei viaggi spaziali sembra essere l’unico che gli interessi e di cui abbia davvero voglia di parlare. E così, mentre nell’arena partono le corse delle bighe, mi snocciola dati e aneddoti su tutte le missioni spaziali italiane e giapponesi degli ultimi anni. Lo ascolto distratto, preso come sono a divorare con gli occhi – e con tutti gli altri sensi – ciò che mi circonda. La fiumana di uomini e donne che dai vomitoria si riversa sugli spalti, le enormi arcate al cui interno campeggiano gigantesche statue, tra le quali riconosco quelle di Dante, Garibaldi e San Pietro, lo sfarzo sfacciato di marmi colorati, colonne, capitelli, drappi e mosaici che rivestono pareti e impreziosiscono corridoi e sale comuni. È tutto magnifico, abbagliante.

Tra una corsa e l’altra, spettacoli di danze esotiche ed esibizioni musicali, con cantanti che fluttuano nell’aria, sorretti da fili invisibili ancorati alla nuova copertura ultratecnologica. «Entrata in funzione da appena tre mesi» dice Sergio. «Spingendo un pulsante, si può chiudere l’anfiteatro in pochi secondi.»

E ancora, giochi di luci e di acqua mai visti prima, atleti circensi la cui bravura eguaglia o sovrasta gli artisti del Cirque du Soleil, giocolieri, sputafuoco, ologrammi dell’aquila imperiale alti decine e decine di metri, dai colori vividi e cangianti. Poi, la voce stentorea del presentatore ringrazia l’Imperatore Marzio Marcello – oggi assente per precedenti impegni – e ricorda la sua magnificenza. E la gloria dell’Impero Romano. E la grandezza della più bella, importante e gloriosa città su cui gli uomini tutti abbiano mai avuto l’onore di posare gli occhi: Roma. La Caput Mundi.

Sono stordito da tanta bellezza, disorientato dalla sensazione surreale di essere stato catapultato in un mondo che fonde gli sfarzi di un passato dimenticato agli ultimi ritrovati di una tecnologia all’avanguardia. Quando vengono annunciati i gladiatori, un boato assordante riempie l’aria. Il pubblico è in visibilio. Una sfida a coppie. Un reziario egizio e un sannita britanno contro un mirmillone e un trace, entrambi galli. Centomila persone che urlano selvaggiamente, che incitano, che danzano al ritmo di musiche ipnotiche e forsennate. Tamburi che entrano nel cervello, mentre i muscoli dei combattenti, cosparsi di oli e unguenti, guizzano e scintillano alla luce dei riflettori e ancora e ancora in loop, nei replay, sulle decine di maxischermi sistemati ai lati dell’arena.

Ho letto qualcosa sugli spettacoli gladiatori e quello che succedeva nell’arena, ma quando certe cose si studiano sui libri è un conto, assistere a determinati spettacoli in prima persona è tutta un’altra cosa. Me ne accorgo sulla mia pelle.

Gli ultimi ricordi lucidi che ho mi vedono in piedi, a urlare e incitare ora questo, ora quel gladiatore. A sperare nel sangue sulla sabbia. A chiederlo con ferocia. Una ferocia che non avrei mai, mai immaginato di avere. Il reziario e il sannita la spuntano e l’arena ha il suo tributo di morte e gloria: i vincitori non solo giustiziano i vinti, ma staccano loro la testa, esibendola come un trofeo verso il pubblico impazzito di piacere.

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