Capitolo 13

venerdì 06 dicembre

 

L’orologio segna le diciannove e quarantasette. Continuo a guardarlo ogni cinque minuti, consapevole che la mia insistenza nervosa non fa altro che rallentare la percezione che ho dello scorrere del tempo.

Mi siedo, scosto le tende e controllo fuori. È da circa un’ora che ho ripreso il rituale paranoico che mi ha accompagnato per tutta la notte. Dopo essere tornato e aver sentito il messaggio dell’investigatore mi sono fatto una doccia, per poi stendermi sul letto a guardare la televisione con una birra in mano. La mia intenzione era quella di distrarmi con qualche canale sportivo, in attesa della chiamata di Paul Santamonica; mi andava bene qualunque cosa, bastava ci fosse un oggetto dalla forma vagamente circolare di cui seguire le evoluzioni con la mente libera, o una corsa di qualunque tipo: avevo bisogno di rilassarmi e di riposare, prima di parlare con l’investigatore.

Mi sono addormentato guardando una corsa di bighe; al mio risveglio, dopo un paio d’ore, la prima cosa che ho visto è stata la mia faccia, in un servizio all’interno del notiziario del canale sportivo.

«Resti ha telefonato dalle cabine dell’entrata est del parco giochi Imperiale di Valmontone intorno alle quindici e trenta. Quindi, ripetiamo l’appello a tutti gli albergatori, i ristoratori e i cittadini della zona: se avete visto e riconosciuto David Resti, chiamate immediatamente i carabinieri. Lo scrittore si trova in uno stato confusionale che potrebbe renderlo pericoloso sia per sé che per gli altri; pertanto, raccomandiamo di fare la massima attenzione.»

Mi sono maledetto mille e mille volte: sono stato un idiota a chiamare. E sono stato un idiota a mangiare in quel bar e a farmi vedere in giro come se nulla fosse. Un idiota e un ingenuo. Mentre parlavo con Chelli, quei dannati pretoriani devono aver tracciato la mia posizione, e ora è solo questione di tempo prima che mi trovino. Ho subito chiamato Santamonica, ma senza ottenere risposta. Evidentemente mi ha dato appuntamento alle otto perché prima di quell’ora non rientrerà in ufficio.

E ora eccomi qui. All’appuntamento mancano solo dieci minuti. Finisco la seconda birra fissando il parcheggio semivuoto, oltre la finestra. Sogno una spiaggia tropicale, di quelle con la sabbia bianca e fina, di quelle con le palme e le amache. E ancora i cocktail, il sole, il rumore dell’oceano e delle onde che arrivano sul bagnasciuga. Il sogno a occhi aperti è interrotto dal signore della reception, che entra nel mio campo visivo. Lo vedo avvicinarsi e silenzio l’audio del televisore. Lascio le tende chiuse, a parte un piccolissimo spiraglio, per poter sbirciare fuori. Quando l’uomo arriva di fronte alla porta si ferma e si guarda attorno. Sembra spiazzato, indeciso sul da farsi. Bussa.

Io trattengo il respiro, lui si gratta la testa e tira fuori un mazzo di chiavi. Ne seleziona una e fa per infilarla nella serratura, poi si gratta ancora la testa, impreca, si ricaccia le chiavi in tasca e torna sui suoi passi. Forse non mi ha riconosciuto, ma deve essersi fatto più di una domanda su quell’Andrea Bianchi che si è presentato senza documenti e vestito proprio come lo scrittore che stanno cercando i pretoriani. Di entrare nella stanza numero 8 non ha avuto il coraggio, ma una telefonata alle forze dell’ordine, giusto per scrupolo, la farà senz’altro. Mi rimane davvero poco tempo.

Intanto, il videoterminale prende a ronzare. Rispondo e appare Paul Santamonica. Si trova nel suo ufficio, seduto dietro alla scrivania. «Devi aver visto giorni migliori, ragazzo» esclama. In effetti, immagino di avere un aspetto orribile. Lo saluto e mi piazzo con la sedia di fronte al piccolo schermo del video terminale, poi mi accendo una sigaretta e apro la bottiglia di whisky.

«Mi stanno cercando, è questione di ore prima che mi trovino. Forse meno» dico, cercando di darmi un tono da duro, da uomo di mondo. Poi faccio una pausa studiata e mi verso un bicchiere. «Sono nel motel che ti ho detto, a un paio di chilometri dal tuo ufficio. Senti, hai trovato qualcosa? Mi servono anche un’auto e un’arma. Se vuoi guadagnare un extra possiamo metterci d’accordo» aggiungo.

Paul accenna un ghigno, il suo sorriso tranquillizzante. Mi imita e si versa un bicchiere di distillato. Fa un sorso. Poi un altro. E un altro. «Nessun problema. Ci si può mettere d’accordo. Ci si può sempre mettere d’accordo, quando si tratta di guadagnare qualche lira.»

Detto questo, manda giù il whisky e si accende una sigaretta. E continua. «Come ti ho detto, ho quello che volevi.»

Trattengo a stento un’esclamazione di gioia. Mando giù anche io quello che ho nel bicchiere. Un whisky davvero orribile. Non orribile come quello che beve Paul Santamonica, ma fa comunque schifo.

«Aspetta che prendo carta e penna» rispondo.

La risata di Paul mi coglie di sorpresa. Una risata folle, quasi satanica. «Ragazzo mio, sei simpatico. Dico davvero. Ma non scomodarti ad alzarti, non è così che funziona.»

«Non capisco» rispondo, interdetto.

«Non ti stai scordando qualcosa?» fa lui.

«I soldi» mormoro. Paul annuisce, si versa un altro bicchiere e si mette a fumare con i piedi sulla scrivania.

«Posso farti il versamento e richiamare» faccio, «ma chi mi assicura che tu, poi… voglio dire…»

Paul prende la foto del Checkpoint Charlie e la toglie dalla cornice. «Facciamo così» dice, mentre scrive qualcosa sul retro della fotografia. «Ora ti faccio un bell’autografo dietro a questa foto. Un autografo con l’indirizzo di quella signorina che ti piace tanto e che mi hai chiesto di trovare. Ci siamo capiti, no?» conclude, mentre mi strizza l’occhio.

«Un cazzo» rispondo, spegnendo quel che rimane della sigaretta, per accendermene subito un’altra. Mi verso un altro bicchiere, lo mando giù e continuo. «Ascolta Paul, non è che non mi fido, ma ci potresti aver scritto qualunque cosa sul retro di quella foto.»

Lui rimane a fissarmi in silenzio per quasi un minuto. E quasi un minuto non passa mai, in certe situazioni. «Ascoltami tu, mezza sega» dice, alla fine. «È vero. Non hai nessuna garanzia che io qui abbia scritto un indirizzo. Potrei averci disegnato un cazzo, per quel che ne sai tu. E se anche ci avessi scritto un indirizzo, aggiungo, non hai nessuna garanzia che si tratti dell’indirizzo che cerchi. Potrebbe esserci l’indirizzo della mia puttana preferita, o di una vecchia zingara che legge le carte. Quindi, sai qual è il punto?»

«No» rispondo, un po’ in soggezione.

«Il punto è che ti devi fidare di me. E sai perché ti devi fidare di me?»

«No» mormoro, con un filo di voce.

«Ti devi fidare perché o ti fidi, o puoi andare a fare in culo. Mi sono esposto, per te. Sono entrato nella Cloaca per trovarti un tizio che stanno cercando sia i pretoriani che i giap. Lo capisci cosa sto rischiando? Lo capisci o no?»

«Io… credo di sì» cedo. «E per la macchina e una pistola? Come facciamo?»

«Facciamo che se metti sul piatto altri cento milioni ti posso dare la mia vecchia Fiat e vedo di procurarti qualcosa che assomigli alla mia amica» dice. Poi con una mano prende un mazzo di chiavi e le fa tintinnare, con l’altra la Colt e la punta dritto verso lo schermo del videoterminale. «Ci sentiamo dopo. Richiama quando hai effettuato il versamento, o non richiamare proprio. E cancella questa video chiamata, se la stai registrando» aggiunge, mentre sento distintamente il rumore di una porta che si apre.

«Chi cazzo è a quest’ora?» fa Paul. «Non si bussa?»

Poi lo schermo si fa scuro. Ha chiuso.

Non vorrei essere nei panni del cliente appena entrato. Già quell’ufficio è tetro e decadente di suo, figuriamoci quanto deve sembrare allegro essere accolti da un Paul Santamonica nervoso fradicio e con la pistola in pugno.

Controllo il terminale. In effetti è impostato in modo tale da registrare automaticamente ogni chiamata in entrata e in uscita. Cancello tutto. Devo pagare, non ho scelta. A pensarci, era chiaro da subito che non avrei avuto nessuna garanzia. Forse effettuare il versamento è da sciocchi, d’altro canto, cosa me ne può fregare? In fondo non sono neanche soldi miei, sono soldi del David Resti scrittore ricco e famoso. Infilo la scheda nel videoterminale e verso duecentocinquanta milioni a Paul Santamonica.

È fatta. Richiamo, ma non risponde. Lascio un messaggio in segreteria, pregandolo di controllare il conto. Sergio mi ha detto che le transazioni economiche avvengono in tempo reale, ventiquattr’ore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni all’anno.

Aspetto un minuto e chiamo ancora. Niente. Niente di niente. Cinque minuti e riprovo. Ancora nessuna risposta.

«Cazzo. Cazzo. Cazzo. Quel figlio di puttana mi ha fregato» urlo. Poi sbatto con violenza a terra il videoterminale, che si frantuma in mille pezzi.

Afferro la bottiglia, ancora piena a tre quarti di quel whisky da quattro soldi, e la infilo nel borsello. Poi apro la porta della stanza, deciso ad andare da Paul per affrontarlo. Ci arriverò a piedi, tagliando per la collina. Richiudo la porta immediatamente, senza aver fatto neanche un passo: nel piazzale sono appena arrivate due auto dei carabinieri, con tanto di lampeggianti accesi. E una Maserati tutta nera. Sbircio dalla finestra. Dalla Maserati scendono Chelli e Smiti. Si dirigono verso la reception.

Dalla porta non posso uscire; la mia unica possibilità è sgattaiolare fuori dalla finestra che dà sul boschetto. Esco dalla stanza come un ladro e mi inoltro tra gli alberi cercando di fare meno rumore possibile. Dietro di me sento la voce di Chelli, che sta bussando alla porta della stanza.

«C’è nessuno?» urla. «Questa è una perquisizione della guardia pretoriana; aprite la porta, se siete dentro. Aprite, o la butteremo giù.»

Affretto il passo. Dopo essere entrati con il duplicato delle chiavi vedranno il videoterminale fracassato e la finestra aperta; non ci metteranno molto a fare due più due. Ho un vantaggio di pochi minuti, ma dovrebbe essere sufficiente, a meno che non abbiano dei cani da sguinzagliarmi dietro. Ma di cani non ne ho visti. Mi inerpico su per la collina, al buio. Ogni tanto mi fermo per riprendere fiato e attaccarmi alla bottiglia, sperando di trovare nell’alcool quel coraggio di cui mai come in questo momento sento di avere bisogno. Dopo una ventina di minuti sbuco proprio dietro agli edifici in cui si trova l’ufficio dell’investigatore. Sono sudato, con mani e volto coperti da graffi più o meno profondi, procurati dai rovi e dai rami del bosco.

Sento le sirene delle auto dei carabinieri, ma sotto il palazzo di Santamonica non c’è nessuno. Arrivo al portone e lo trovo aperto. Guardo il citofono, indeciso se annunciarmi o no. Se non si trova in ufficio, citofonare è inutile. Se invece è lì, un’improvvisata è quello che ci vuole per guadagnare un vantaggio psicologico.

Salgo le scale stringendo la bottiglia, mezza vuota. Arrivo all’ultimo piano. La porta è aperta. Entro nella stanza d’attesa. La luce è spenta. Dalla porta dell’ufficio, socchiusa, filtra il bagliore della lampada. Paul è dentro, quindi. Meglio farsi vedere sicuri e determinati.

Faccio un sorso di whisky. E un bel respiro. «Paul Santamonica» dico, «hai controllato il mio versamento?» Rimango immobile, teso come non mai, mentre aspetto una risposta che non arriva. «Ascoltami bene, ti offro altri cento milioni se mi aiuti a uscire da questa situazione» aggiungo. Ancora silenzio.

Spalanco la porta. E non riesco quasi a credere a ciò che vedo. A terra ci sono due corpi: un giovane uomo e Paul Santamonica. Morti entrambi. Si sono sparati a vicenda, e non una volta sola, a giudicare da come sono ridotti. La stanza è a soqquadro, come se ci fosse stata una lotta. Il terminale e la televisione sono finiti a terra, in mille pezzi. E c’è sangue. Sangue ovunque. «Cosa cazzo è successo qui?» sussurro. Riconosco il ragazzo: il tipo che si era seduto accanto a me e Iris nel ristorante di Campo de’ Fiori, quando mi hanno frugato nel borsello. Una spia giap, quindi. Come hanno fatto i giapponesi ad arrivare a Paul Santamonica?

I pretoriani da una parte, i giap dall’altra e io in mezzo. Devo andarmene più in fretta che posso. Sfilo la Colt dalle mani dell’investigatore e me la infilo dietro i pantaloni. Prendo la foto del Checkpoint Charlie, con in primo piano quel cane mutante dallo sguardo radioattivo e dannato. La giro e leggo cosa c’è scritto, alla luce della lampada.

Cloaca – Piazza Ugo Foscolo n. 12 – terzo piano.

Nome sulla porta: Armellini.

Me la infilo nel borsello e dalla scrivania prendo le chiavi della macchina di Santamonica. Corro giù per le scale: tutto ciò che devo fare è arrivare alla Cloaca e farmi dare il romanzo da Rojas. Il coraggio che mi è rimasto, messo già a dura prova da quello che ho appena visto, se ne va del tutto quando inciampo e rotolo giù per l’ultima rampa di scale, finendo disteso nell’atrio.

A parte il dolore al ginocchio, che torna a farsi sentire con insistenza, me la cavo solo con un grande spavento e un taglio sulla fronte. La pistola, il borsello e gli occhiali da vista mi volano via. La bottiglia, invece, si fracassa contro il muro. Raccolgo a tentoni tutto quanto, tagliandomi le mani con i pezzi di vetro. Rimetto gli occhiali e mi accorgo che si è spezzata una delle stanghe. La recupero e la ripongo nella tasca della giacca. Una volta in piedi, mi rendo conto che a qualche metro da me c’è una coppia di anziani. Hanno in mano delle buste di cartone, e mi guardano terrorizzati.

«Va tutto bene. Me ne stavo andando» blatero. Poi, sul portone di ingresso, mi volto e frugo nel borsello, in cerca del portafoglio. «Come vi chiamate?» chiedo.

«Io… io sono Mauro, e lei è mia moglie Anna» risponde l’uomo, quasi balbettando. «La prego, non ci faccia del male. Abbiamo… abbiamo dei nipotini, sa? Siamo… siamo andati a comprargli i regali di Natale.»

«Ma no, che ha capito. Ecco, questo è per il disturbo» dico, porgendo alla coppia una manciata di banconote.

I due non si azzardano a muovere un muscolo. Immagino che la soggezione sia dovuta alla pistola che stringo in mano. Getto le banconote a terra e me ne vado, senza aggiungere altro. Una volta nel parcheggio vago tra le macchine, mentre spingo il tasto di apertura sul telecomando dell’auto di Paul Santamonica. Sento il sangue colarmi sulla fronte e tra le mani, mentre mi trascino la gamba sinistra. Dopo un paio di minuti la trovo: una vecchia Fiat 600.

Devo andarmene. Immagino che nessuno abbia denunciato gli spari con cui i due si sono ammazzati, scambiandoli per i fuochi artificiali che ogni tanto partono dal parco: se ne sentono e se ne vedono in ogni momento. Senza contare che all’ultimo piano del palazzo non ci abita nessuno.

Il problema sono quei due dannati anziani che ho incrociato nell’atrio. Scommetto che chiameranno i carabinieri. Anzi, scommetto che li hanno già chiamati. Chelli è qui in zona, non ci metterà molto a fare uno più uno.

Se mi dovessero trovare, i tribuni della guardia pretoriana mi chiederanno conto di tutto. Già immagino le parole di Chelli: «Signor Resti, mi dica, come mai ha contattato un investigatore privato? Perché nell’ufficio del suddetto investigatore c’è il cadavere di una spia giap? Chi stava cercando, signor Resti? Forse lei sapeva dall’inizio dove si nascondeva Rojas, e non ci ha detto nulla? Non mi dica che non si ricorda neanche questo. La sua trama, da debole, sta diventando improbabile, ridicola e inconsistente. Cosa ha da dire? Confessi, le conviene».

Devo andare subito alla Cloaca. Scendo dalla collina guidando pianissimo, ma verso la fine del rettilineo, prima che la strada si immetta nella rotatoria da cui si prende l’imbocco dell’autostrada, vedo un’auto dei carabinieri.

L’agente con la paletta mi fa segno di accostare. Non ho più la forza di pensare a un piano alternativo, non ho più la forza di lottare contro il destino.

Metto la freccia, pronto ad arrendermi, e mentre sto per fermarmi una macchina mi supera a velocità sostenuta.

Con la coda dell’occhio vedo dei ragazzi con in mano birre e bottiglie di distillato. Non si sono resi conto del posto di blocco. Il guidatore se ne accorge non appena mi supera, e frena in modo sconsiderato; l’auto sbanda, passa accanto a quella dei carabinieri e va a finire la sua corsa qualche metro più in là, contro il guard rail.

Il carabiniere con la paletta mi fa segno di andare, poi si volta e si mette a correre verso l’auto dei ragazzi, anticipato dal suo collega che è già lì accanto e, con la pistola in pugno, sta intimando loro di scendere con le mani alzate e bene in vista. Continuo fino all’autostrada, pensando a quei ragazzi che mi hanno inconsapevolmente salvato.

Immagino fossero ubriachi; chissà cosa gli faranno, ora. Forse nulla, oppure chissà. Immagino che, anche in questo mondo, tutto dipenda dallo status sociale che si ha. Quando si è ricchi si può rimediare a qualunque errore con relativa facilità. D’altro canto, lo svantaggio è che si perdono il senso del limite e della misura. Forse il concetto stesso di errore diventa fumoso, arbitrario. Un ragazzo di vent’anni strafatto di acidi e di alcool che distrugge l’auto che è riuscito a comprarsi con tanti sacrifici, agli occhi del mondo è uno che non è in grado di gestire i suoi soldi, la sua vita, niente di niente. Uno che, magari, ha anche bisogno di uno psicologo, di qualcuno che gli raddrizzi la schiena.

Se quello stesso ragazzo, strafatto degli stessi acidi e dello stesso alcool, fosse però una star del cinema o un cantante famoso, se quell’auto fosse il frutto non della fatica di un operaio che si spezza la schiena, ma di due sorrisi di fronte a una telecamera o di quattro rime incerte che fanno sognare una generazione di teenagers lobotomizzati, allora non ci sarebbe nulla di male. Sarebbe solo un incidente di percorso. Qualcosa di cui vantarsi in televisione o sui social, magari.

Mi accendo una sigaretta, mentre penso a come con i soldi e la fama si possa comprare o alterare ogni cosa, anche i giudizi morali. Ogni cosa, tranne i tribuni militari Chelli e Smiti, immagino.

Accendo l’autoradio, voglio compagnia. Ascolto un po’ di canzoni, poi prendo a fare zapping. Non si parla che dello sbarco sulla Luna. Manca poco oramai, si è entrati nella zona rossa del conto alla rovescia per le ultime sessanta ore, e tutto l’Impero è in fibrillazione. Ancora non si sa se l’Imperatore assisterà alla diretta dal Campidoglio, dalla tenuta Imperiale dei Fori, dalla villa di Tivoli o da quella sul golfo di Napoli. Spengo la radio. La testa mi sta scoppiando, ho la nausea, mi sento stanco. Avrei davvero bisogno di dormire per due giorni filati.

Sul raccordo mi concentro su ogni cartello, in cerca di eventuali indicazioni per la Cloaca. La prima che trovo mi fa uscire in direzione Trigoria. Supero la borgata e mi ritrovo in mezzo alla riserva di Decima Malafede. Buio, alberi e silenzio. Poi un cartello con su scritto “Cloaca – 5 chilometri”. Le luci di un’auto che mi viene incontro. Il suono di un clacson.

Sterzo d’istinto.

Poi il nulla.

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