Capitolo 11

 

giovedì 05 dicembre

 

Alle quattro del pomeriggio mi ritrovo a passeggiare per il parco giochi Imperiale. Appena scesi dal bus siamo stati assaliti da un gruppo di giovani travestiti dai personaggi della Disney: Topolino, Pippo e Minnie da una parte, Paperino, Gastone e Paperina dall’altra. Ci hanno circondato e consegnato una brochure con orari, prezzi, foto, didascalie esplicative sulle attrazioni del parco e informazioni varie di ogni tipo. Mentre sfogliavo distrattamente quel giornalino colorato mi è caduto l’occhio su una delle annotazioni finali presenti alla voce Domande Frequenti: Cosa fare in caso di smarrimento della patente o dei documenti d’identità.

Ho letto che ci si deve recare all’ufficio oggetti smarriti presente all’interno del parco, aperto fino alle otto di sera, dare le proprie generalità e farsi rilasciare un modulo con cui presentarsi al distaccamento della stazione dei carabinieri di Valmontone (aperto dalle otto del mattino alle sei di sera e situato appena fuori dal parco) per fare denuncia e richiedere un duplicato dei documenti smarriti.

E così mi è venuta un’idea tanto semplice quanto, spero, efficace: entrare nel parco giochi, aspettare le sei del pomeriggio, dire di aver perso i documenti e farmi rilasciare il modulo dall’ufficio oggetti smarriti, fornendo un nominativo falso. Poi, mi presenterò all’hotel più infimo della zona con il modulo di smarrimento, registrandomi con il nome falso da me scelto.

Ho ancora due ore da spendere nel più grande parco giochi che esista. Io, che i parchi giochi li detesto. Il ginocchio, poi, mi fa sempre più male; non si tratta di vero e proprio dolore, ma più cammino più sento delle fitte sospette. Entro in un bar, ordino una birra e me la bevo al tavolo più defilato, dove passo qualche minuto a osservare la vita che scorre fuori dalla vetrata. C’è parecchia gente, e la cosa mi stupisce, visto che è una fredda giornata di inizio dicembre. Famiglie, turisti, coppiette e comitive di giovani… tutti accomunati da un particolare: la gioia e la serenità stampata sui visi sorridenti, neanche avessero il simbolo dello smile marchiato a fuoco sull’anima.

Cosa mi aspettavo? È un parco giochi. La gente ci viene per divertirsi. Cosa darei per avere la metà della spensieratezza di queste persone.

Ripesco la brochure dal borsello. Voglio provare a svagarmi anche io e a lasciare fuori dai pensieri ogni cosa, almeno per due ore; devo solo decidere quale attrazione visitare. Scarto le montagne russe e le giostre in cui si prova il brivido della velocità o della caduta libera, perché non le ho mai sopportate e finirei per vomitare il poco che ho in corpo. Le attrattive a tema acquatico, dalle battaglie dei pirati alle naumachie e alle corse sul fiume, mi ispirano già di più, peccato che in questa stagione non siano praticabili.

Castelli spettrali, dimore infestate, tunnel degli orrori e case degli specchi li elimino dalla lista senza pensarci troppo, visto che non sono dell’umore adatto per incupirmi ulteriormente. Poi ci sono diverse attrazioni orientate per una fascia d’età bassa.

No, non mi ci vedo a visitare il castello della Bella Addormentata, il magico mondo di Peter Pan o il deposito di Zio Paperone, con tanto di tuffo dal trampolino in un mare di monete d’oro di gommapiuma. Potrei visitare le tante attrazioni della sezione a tema “Roma antica” o “Giappone imperiale”, ma considerando che del mondo in cui sono finito ne ho fin sopra i capelli, escludo anche questa opzione.

A conti fatti, non rimane che l’Esperienza lunare.

La grande costruzione con la forma del nostro satellite ospita quella che, nell’ultimo anno, è stata la più visitata delle attrattive: un piccolo parco tematico a sé stante, dedicato alla missione che tra qualche giorno porterà il primo uomo a sbarcare sulla Luna. E così per le due ore successive ripercorro le orme degli astronauti; piloto una riproduzione fedelissima della Mercurio 15, osservo l’infinito da grandi oblò aperti su stelle, pianeti e asteroidi, passeggio nello spazio profondo e, per finire, metto piede sulla Luna, indossando una tuta spaziale con sopra il nome del tribuno Luigi Flavio Salis.

Ciò che più mi impressiona è che alcune esperienze si vivono in un ambiente portato, non so come, a gravità zero. Per quanto ne so, l’assenza di gravità si può simulare solo sott’acqua o in caduta libera. Qui, invece, basta entrare in un parco tematico per provarla.

Alle sei e mezza di sera mi dirigo verso l’ufficio oggetti smarriti con un groppo in gola. Per un po’ sono riuscito a non pensare a nulla; anzi, mi sono addirittura divertito. Ora, però, devo recitare la mia parte in questa strana commedia di cui non capisco se sono il protagonista, l’antagonista o l’ultima delle comparse.

Mi ripeto per la centesima volta la storia da raccontare ed entro. Nell’ufficio ci sono una trentina di persone in fila e due sportelli aperti. Chi ha perso la borsetta, chi il portafoglio, chi la busta con i regali acquistati nei negozi tematici, chi solo i documenti. Prendo il numeretto per la fila e mi siedo in un angolo. Quando è il mio turno mi presento allo sportello pregando che nessuno mi riconosca. Stai tranquillo, sei uno scrittore, continuo a ripetermi per farmi coraggio. Le facce degli scrittori chi le conosce, in fondo? Nessuno. A chi interessano? A nessuno.

«Buonasera. Nome, cognome e data di nascita. Cosa ha smarrito, dove e orientativamente a che ora» dice la ragazza che ho di fronte. Parla in modo meccanico, senza guardarmi. La sua attenzione è tutta per il modulo che prende dalla cima di una pila di fogli e che inizia a compilare.

«Salve, mi chiamo Andrea Bianchi e sono nato a Roma il 12 novembre del 1980. Ho… ho smarrito i miei documenti: patente e carta di identità. Non so bene dove o a che ora, in realtà… diciamo tra le sedici e trenta e le diciotto e trenta.»

«Ha perso documenti e portafoglio? Solo documenti? Che attrazioni ha visitato, in quella fascia oraria?»

Rispondo che ho perso solo i documenti, che non ho messo nel portafoglio ma nella tasca della giacca. Poi le dico che in quelle due ore mi sono girato tutte le montagne russe più grandi e veloci del parco, e che immagino i documenti siano volati via perché la tasca della giacca me la sono ritrovata aperta, con la cerniera rotta.

La ragazza, che non sembra aver prestato la benché minima attenzione alle mie giustificazioni, ripiega la parte bassa del modulo, in corrispondenza del tratteggio. Ci passa sopra il palmo della mano e con un gesto veloce strappa via la striscia destinata a me. «Ecco a lei. Domattina si presenti al deposito oggetti smarriti: ingresso est del parco, cinquanta metri a destra, dove c’è la statua dell’Imperatore» dice, con quel modo meccanico e veloce di chi è abituato a ripetere la stessa formula per tutto il santo giorno. «Apre alle nove. Se nessuno dovesse aver ritrovato i suoi documenti, porti il modulo al distaccamento della stazione dei carabinieri, per presentare denuncia e avviare le procedure per i duplicati. Trova il distaccamento lungo la strada, un chilometro prima dell’ingresso sud del parco: c’è l’insegna, non può sbagliare. Gli orari sono sul retro» conclude.

E mentre con una mano spinge il tasto che fa scattare il display regola fila, l’altra già corre verso la pila di moduli, a prendere quello sulla cima. «Numero 84» dice.

Balbetto un grazie, mi giro ed esco, stringendo il modulo come se fosse un trofeo prezioso. Mi dirigo all’uscita più vicina, e una volta fuori dal parco salgo sul primo taxi che vedo. Chiedo all’autista di portarmi nell’albergo più economico che ci sia nelle vicinanze. Tra le varie proposte che mi sciorina l’uomo alla guida, ne scelgo una vicina alla collina su cui sorgono i palazzoni dove Paul Santamonica ha il suo ufficio. Si tratta di un modesto alberghetto posto proprio sotto la collina, dalla parte opposta rispetto al parco. È situato lungo una stradina di campagna poco trafficata e senza nulla attorno, se non un bar a un centinaio di metri. Una collocazione poco felice per gli affari, ma ideale per le mie esigenze mimetiche.

Sull’insegna al neon brilla la scritta Affittacamere le 15 palle. Si tratta di un edificio a due piani, e le stanze hanno ingressi esterni; le porte di quelle del piano terra sono affacciate direttamente sul piazzale del parcheggio, mentre quelle del primo piano su un ballatoio collegato al piazzale da due rampe di scale, una a destra, una a sinistra. Ogni porta è diversa, colorata come una delle quindici palle da biliardo, con tanto di numero stampato sopra a caratteri giganti.

Restituisce l’idea di quei motel di periferia che si vedono nei film americani, rifugio di viaggiatori, disperati e coppie clandestine in cerca di qualche ora di intimità rubata a mogli o mariti traditi. Non potrei chiedere di meglio.

Entro in un disimpegno piccolo e deserto. Dietro il bancone c’è un signore calvo che indossa una vecchia canottiera macchiata. Mi dà le spalle, e sembra non essersi accorto di me, intento com’è a guardare la televisione e a ridere da solo. Sul bancone c’è un cartello scritto a mano dove viene specificato che se si vuole un videoterminale in stanza bisogna pagarlo a parte, e che il servizio va richiesto al momento della registrazione.

«Mi scusi, è lei Massimiliano Fabio?» chiedo, per richiamare l’attenzione dell’uomo. Il nome è quello che ho letto in fondo al cartello, calcato in stampatello, a mo’ di firma.

Il tizio si gira di scatto, imprecando. «See» mi risponde, poi. «Sono io. Che te serve?»

«Scusi, non volevo spaventarla» ribatto. Quindi mostro il modulo e chiedo una stanza. «Con videoterminale.»

L’uomo mi guarda appena e fa una fotocopia del modulo, mentre con gli occhi continua a seguire un programma in cui due comici si insultano a vicenda. Il primo, vestito casual, apostrofa con termini volgari il secondo, che è invece vestito assai elegante e gli risponde con giri di parole sofisticati per esprimere più o meno lo stesso concetto.

«Fanno ventimila lire per la notte più cinquemila de supplemento terminale» dice l’uomo, con uno spiccato accento romano; poi, si gira verso il pannello di compensato dietro al bancone, posto proprio sotto al televisore, dove sono appesi dei portachiavi a forma di palla da biliardo.

Ci sono quasi tutte le chiavi; non deve fare poi molti affari, questo posto. Il portiere prende la palla numero 8 e la posa sul bancone. Quindi, da un cassetto, tira fuori una scatola di cartone di circa trenta centimetri per lato e posa sul bancone anche quella. «Venticinquemila al giorno, pagamento anticipato e colazione esclusa. Pe’ magnà ci sta il bar qua vicino che fa pure pranzi e cene, sennò ci stanno le macchinette automatiche qua de fuori. Via entro le dieci» aggiunge, parlando in fretta e ridacchiando da solo, con gli occhi puntati sul televisore: i comici stanno insultando le proprie madri in un botta e risposta che, a quanto pare, lo diverte molto.

«Pago per due giorni» dico, mettendo mani al portafoglio. Poi prendo chiavi e scatola.

La stanza numero 8 è defilata, l’ultima sulla destra di quelle che danno direttamente sul piazzale del parcheggio. Ci entro tirando un sospiro di sollievo: per una volta è andato tutto come doveva.

Un corridoio stretto e lungo un paio di metri porta a un piccolo ambiente con un letto, un armadio, una scrivania con una sedia e un televisore. I mobili non sono nuovi e di certo non sono lussuosi, ma per quanto riguarda ordine e pulizia non ho di che lamentarmi. Ci sono due finestre, una che dà sul parcheggio, un’altra con vista sul boschetto che inizia oltre l’edificio. Si respira un odore di fresco che mi ricorda certi deodoranti per ambiente al muschio bianco.

Tiro fuori dalla scatola un piccolo video terminale e un foglietto con le istruzioni per montarlo al telefono che c’è nella stanza. Nulla di troppo complicato: un paio di minuti e ho finito. Ora posso fare e ricevere chiamate utilizzando sia il video terminale che il normale telefono. Provo subito a contattare Paul Santamonica, per vedere se ci sono novità. Non risponde, e gli lascio un messaggio: gli dico di richiamarmi il prima possibile a questo numero, specificando anche il nome dell’albergo.

Adesso ho bisogno di stendermi un po’ sul letto: il ginocchio ha ripreso a farmi male con una certa insistenza. Sintonizzo il televisore su un canale a caso, più per compagnia che per voglia di vedere qualcosa. Mi ricordo dei due libri che ho acquistato all’Anagnina e li tiro fuori. Da quello che capisco, il movimento del Sessantotto c’è stato anche nel mondo in cui sono finito. Giovani italiani che protestavano contro il neonato Impero. Alcuni psicologi elaborarono la teoria che per eliminare determinate problematiche sociali interne e concentrarsi verso l’espansione esterna, la cosa migliore da fare, per l’Impero, era di approntare delle riserve sul modello delle riserve indiane di quelli che una volta erano stati gli Stati Uniti d’America, e di lasciare a quelle riserve – chiamate con disprezzo “Cloache” – un’ampia autonomia gestionale.

A quanto leggo, gli italiani a cui non stava bene il sistema sociale dell’Impero potevano andarsene lì, perdendo però per sempre la qualifica di “cittadini romani”, e i conseguenti, innumerevoli privilegi che questo comportava.

Dopo le Leggi Speciali del ‘71 sul territorio italiano sono sorte cinque Cloache a statuto speciale, in Lombardia, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia. Dentro le Cloache non esiste legge; o meglio: qualunque legge ci sia, all’Impero non interessa più di tanto. Un apposito corpo di legionari ne presidia i confini, e i soldati hanno il diritto di poter intervenire all’interno quando meglio credono, anche se di fatto non lo fanno quasi mai.

In queste aree, leggo, vivono sfaccendati, spacciatori, tossici, anarchici, autarchici, artisti ribelli e sognatori. Solo una categoria vi è ufficialmente bandita: i repubblicani. Basta solo il sospetto che in un quartiere di una Cloaca ci siano sovversivi repubblicani per giustificare un intervento dei legionari, e siccome nessuno di quelli che hanno deciso di vivere nelle Cloache vuole che l’Impero metta il naso lì, il controllo interno in tal senso è abbastanza efficace.

Un simpatizzante repubblicano, paradossalmente, ha più possibilità di essere scoperto in una Cloaca che fuori. Mille occhi, mille orecchie pronti a spiarlo, mille lingue pronte a tradirlo. Anche perché ci sono premi per i delatori.

Leggo poi che nelle Cloache si può entrare e uscire liberamente, basta superare i controlli all’ingresso, e che si sconsiglia ai cittadini romani di visitarle per curiosità, in quanto non vi è alcuna tutela per la propria sicurezza.

Cerco notizie sulla Cloaca del Lazio, quella dove, a detta di Paul Santamonica, potrebbe trovarsi Rojas.

«La Cloaca di Decima Malafede è costituita da un quartiere periferico a statuto speciale a sud di Roma, appena fuori dal raccordo. Si estende nel triangolo compreso tra la Cristoforo Colombo e la Pontina, dove prima delle Leggi Speciali del ‘71 c’erano Tor de Cenci e Spinaceto. L’unico accesso è situato a sud, a Castel di Decima, nel parco Invictus, all’interno della riserva naturale di Decima Malafede, da cui ha preso il nome.

«L’Imperatore Marzio Marcello ha recentemente espresso la volontà di chiudere questa Cloaca, in quanto troppo vicina alla Caput Mundi. Lo sgombro e il relativo spostamento nel viterbese sono previsti entro il 2030. Al posto della Cloaca, nell’area sorgerà un maestoso parco monumentale dedicato all’Imperatore: il Marziale.»

Chiudo i libri, sperando che il detective si sia sbagliato. Andare in una Cloaca a cercare Rojas mi sembra poco salutare. Certo, potrei chiedere di accompagnarmi proprio a Santamonica, mettendo sul piatto qualche milione di bonus. Ci penserò dopo. Ora ho fame, voglio uscire per andare al bar. Non faccio in tempo ad alzarmi dal letto che l’occhio mi cade sullo schermo del televisore. Ci sono due tizi attorno a un tavolo, un uomo e una donna, in quello che sembra un salotto giornalistico. Dietro di loro, su uno schermo a parete, la foto di una faccia che conosco bene: la mia.

«Ma che diavolo» impreco, poi afferro il telecomando e alzo il volume.

Sta parlando la donna; la conduttrice del programma, immagino. «David Resti è scomparso stamattina nei pressi della Stazione Termini. Il noto scrittore negli ultimi giorni è stato più volte oggetto dell’attenzione dei media, vero Marco?» La regia fa un primo piano su tale Marco Aurelio Catullo Spini, giovane editorialista del Plebeo Curioso, a quanto recita ciò che leggo in sovrimpressione.

«Esatto, Gaia Flavia. E il nostro giornale è stato uno di quelli che più si è occupato di Resti. Inizialmente per la sua amicizia, nonché collaborazione professionale, con lo scrittore spagnolo Nataniel Rojas, accusato con forse troppa leggerezza di essere coinvolto nell’attentato fallito al nostro Imperatore. Come sappiamo queste voci sono state smentite, ma rimane comunque il mistero di dove sia finito Rojas, che sembra introvabile.»

«Magari è in vacanza nelle province caraibiche, no?» controbatte la giornalista, sorridendo.

«Me lo auguro per lui. Resta il fatto che da una settimana nessuno ha sue notizie. Tornando a David Resti, sappiamo da fonti certe che lo scrittore ha avuto un incidente, qualche giorno fa. Ha sbattuto la testa e ha riportato un trauma cranico che, attenzione attenzione, secondo alcune voci gli avrebbe procurato dei terribili attacchi di panico e delle misteriose amnesie.»

«Addirittura? Ma amnesie di che tipo? Siamo nel campo del oddio cosa ho mangiato a pranzo o in quello del diamine, non mi ricordo come mi chiamo

«Questo non lo sappiamo, Gaia, ma sappiamo che Resti potrebbe versare in una condizione psichica di estremo disagio e presentarsi confuso, disorientato e spaesato.»

«Capisco. È davvero molto importante ritrovarlo al più presto, per poterlo curare adeguatamente.»

Osservo i successivi dieci minuti del programma sudando freddo. Mandano un servizio con delle interviste; non so come abbiano fatto, ma in poche ore quei dannati giornalisti sono riusciti a trovare i ragazzi che mi hanno visto sul balcone del caffè del teatro Argentina, con Akane. E sono anche riusciti a convincere alcuni attori del Macbeth a raccontare della cena dopo lo spettacolo, a cui ho partecipato come accompagnatore di Iris; che sia andato a dormire da lei non è un segreto per nessuno. Le allusioni divertite alle due donne e a come la botta in testa non abbia evidentemente influito sui miei appetiti sessuali si sprecano, così come le domande su chi sia la bellezza misteriosa con cui mi sono intrattenuto durante la rappresentazione. Nel pomeriggio hanno provato a intervistare sia Iris sia Sergio, ma entrambi si sono rifiutati di spiccicare anche una sola sillaba. Poi è la volta della mia ex moglie, che invece di cose da dire sulla mia moralità, sulla mia fedeltà e in generale sulla mia persona ne ha diverse, nessuna delle quali lusinghiera.

Cambio canale, in cerca di altre informazioni che mi riguardino. Nei telegiornali si parla di me e si chiede ai telespettatori di segnalare tempestivamente la mia presenza alle forze dell’ordine, visto che non sto bene e ho bisogno di cure. È necessario trovarmi al più presto, ne va della mia sicurezza. Spengo il televisore. Deve esserci Chelli dietro questa storia, non ho dubbi in merito.

Non so che fare. La paura è tornata a bussare alla porta con insistenza feroce, e non me la sento di uscire. Ma qualcosa devo pur mangiare. Mi ricordo del distributore automatico che ho visto accanto all’ingresso e faccio incetta di biscotti, tramezzini e succhi di frutta. Mi chiudo in camera con le luci spente e il televisore acceso, con il volume al minimo; cambio canale di continuo, alla ricerca di ogni telegiornale, ogni notiziario che venga trasmesso. Sembra che nessuno sappia dove mi sia cacciato, ma in compenso nell’edizione del telegiornale di mezzanotte viene fuori l’esatta descrizione di come sono vestito.

L’appuntato scelto Gennaro Caiello dice di avermi accompagnato nel negozio sportivo dove ho acquistato gli abiti che indosso. Devono aver interrogato i commessi e i cassieri, magari sono addirittura entrati nel sistema per vedere quello che ho acquistato. Sono preso dallo sconforto. Quanto ci metteranno a trovarmi? Mi sento braccato come una volpe in una battuta di caccia. Una volpe… magari fossi una volpe: mi sento come un coniglio inseguito da lupi feroci, solo e senza speranza. La ragazza dell’ufficio oggetti smarriti del parco mi avrà riconosciuto? E il tassista che mi ha portato fin qui? E l’uomo alla reception di questo dannato alberghetto? Continuo a ripetermi che è solo questione di tempo.

Passo il resto della notte su una sedia, vicino alla finestra, a fumare e a osservare il parcheggio; ogni volta che sento un’auto arrivare sbircio oltre le tende tirate e mi accerto che non si tratti dei carabinieri, o peggio di un’elegante Maserati nera, dalla quale vedrei scendere i tribuni militari Chelli e Smiti. Ogni rumore è una scossa per i miei nervi tesi. Di ora in ora, sempre più stanco e scoraggiato, mi convinco che forse sarebbe meglio chiamare Sergio e chiedere aiuto.

Mi addormento al sorgere del sole, ancora seduto sulla sedia, aggrappato a quel cuscino improvvisato che sono le spesse tende della finestra.

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