Capitolo 01

ELISA OTTAVIA RAGUSA

sabato 30 novembre

«Signore, si svegli, siamo arrivati. È rimasto solo lei a bordo, le ho già preso il bagaglio.»

Farfuglio non so cosa, riattivo i pensieri e mi alzo. Tra i piedi mi ritrovo un piccolo trolley viola, il mio unico bagaglio. Nei tre passi storditi verso il portello d’uscita incrocio il sorriso di un’altra hostess. Non mi sono ancora rimesso gli occhiali e tutto appare leggermente sfocato, spennellato con quella patina d’irrealtà che solo i miopi possono comprendere appieno.

«Ci auguriamo di rivederla al più presto sui nostri Zeppelin» fa la donna, con una terribile voce stridula.

Non presto troppo caso a quello che dice: sono ancora assonnato e voglio solo andarmene al più presto. Pesco gli occhiali dal borsello e mi incammino per il finger, desolatamente vuoto e silenzioso.

Mentre seguo le frecce verso l’uscita cerco il telefono e la ricevuta del parcheggio, per avvertire che sono atterrato. La ricevuta, nella tasca destra della giacca, la trovo subito; il telefono, in quella sinistra, no. Sono certo di averlo spento e riposto lì una mezz’ora prima di imbarcarmi. In aereo mi sono addormentato senza tirarlo fuori, sicuro al cento per cento. Nonostante tutto, prendo a cercarlo ovunque. Niente. Apro il trolley e mi prende un mezzo colpo: anche il computer portatile è sparito.

Ed eccomi qui, inginocchiato a terra, disperato, a frugare con le mani tra slip e calzini, in un angolo di un anonimo corridoio dell’aeroporto di Fiumicino. Qualcuno deve avermi derubato mentre ero seduto ad aspettare, o in fila all’imbarco. «Non è possibile» sibilo, maledicendo il mondo, i borseggiatori e la mia colossale idiozia.

Inutile fare denuncia, figuriamoci. Mentre impreco attiro le attenzioni di un inserviente allampanato che spinge un carrello con sopra scopa, paletta e prodotti per le pulizie assortiti. «Ha qualche problema, signore?»

«Sì. Lo Smartphone, il portatile… mi hanno fregato tutto. All’aeroporto di Palermo» rispondo. Poi mi alzo e cerco di riacquistare un minimo di dignità.

«Mi scusi? Cosa le hanno rubato?»

«Lo Smartphone e il portatile. Senta, devo chiamare quelli del parcheggio. Avevo il servizio di car valet e devo avvisarli che sono arrivato, non è che potrebbe prestarmi il suo cellulare?»

«Mi spiace signore, ma non credo di capire. In ogni caso, può rivolgersi alla stazione di polizia aeroportuale, si trova proprio accanto all’uscita.»

«Guardi che le rimborso la chiamata.»

Il tipo mi guarda con un’aria stranita. «Temo di non poterla aiutare, signore» dice, poi si volta e si mette a pulire un finestrone con vista panoramica sulle piste dell’aeroporto. Butto un occhio fuori anch’io. Vedo solo una dozzina di dirigibili. Sulle piste non c’è un aereo: solo dirigibili. Immagino si tratti di una trovata pubblicitaria, o forse stanno girando vai a capire quale film.

L’inserviente smette di pulire. «Signore, si sente bene? Forse lei ha subito un’aggressione ed è in stato confusionale. Vuole che avverta qualcuno? Chiamo la sicurezza, se crede.»

«No, non si preoccupi, non c’è nessun problema.»

Questo idiota non ha nessuna intenzione di lasciarmi fare una telefonata e io non ho tempo da perdere con la sicurezza e le sue stronzate. Alla peggio aspetto una navetta e mi faccio portare direttamente al parcheggio.

Arrivo all’uscita, dove riconosco qualcuno del mio volo; me li ricordo, sfatti e nervosi per l’attesa all’aeroporto siciliano. Noto il signore di mezza età, distinto e ben vestito, che mi era seduto accanto sull’aereo. Sfoggia una barba assai curata, con i baffi arricciati all’insù, e porta dei vistosi occhiali dalla montatura d’osso; accanto a sé ha una voluminosa ventiquattrore di pelle e due buste di cartone. Se ne sta in piedi, fermo in un angolo buio, intento a sfogliare un’agendina che richiude non appena mi avvicino.

«Mi riconosce?» faccio, toccandogli la spalla.

L’uomo si ritrae, quasi impaurito. «Cosa vuole?»

Magari ho fatto o detto qualcosa di scortese, senza volerlo. Magari mi ha scambiato per un borseggiatore. Magari hanno rubato anche a lui, ed è per questo che si comporta così. Alzo le mani e provo a rassicurarlo.

«Eravamo seduti accanto, sull’aereo. Non volevo spaventarla, mi scusi. Mi chiedevo solo se sarebbe così gentile da prestarmi il cellulare; qualche figlio di buona donna mi ha rubato lo Smartphone e devo chiamare il parcheggio. Roba di due secondi, davvero» dico, sventolando la ricevuta.

Il tizio sembra sollevato. «Ah, ma certo, lei deve fare una telefonata!»

«Esatto. Può aiutarmi?»

«Mi spiace, ma ho la scheda scarica, e non ho monete in tasca. Provi a chiedere a loro» fa, indicandomi le persone in fila di fronte alle cabine telefoniche. Detto questo, si volta senza aspettare il grazie che biascico dopo un istante.

Cabine telefoniche. Tra un ingresso e un altro è pieno di cabine telefoniche, le noto solo ora. Da quanto non ne vedevo più una? Le hanno istallate nei pochi giorni che sono stato via. Chissà perché, poi. Neanche fossero un paio: sono decine, e sembrano tutte nuove di zecca.

Un’idea un po’ naif dell’amministrazione comunale di Fiumicino, forse. A dire il vero sembra che tutto l’aeroporto sia stato ristrutturato, risistemato; ho come la sensazione che sia più ordinato, più pulito. Anche l’architettura sembra diversa: è pieno di porticati e colonne romane. E di nicchie alle pareti, nelle quali vedo statue bronzee di aquile imperiali e mezzi busti marmorei.

Ignoro cosa sia successo nell’ultima settimana, ma sono sempre più convinto che debba trattarsi di un set cinematografico, e deve essere anche una grossa produzione. Comunque, mi interessa poco o nulla: ho altro per la testa. Mi avvicino ai tizi che stanno telefonando, mentre una parte del mio cervello registra un’anomalia che forse, in altre circostanze, avrei indagato con maggiore attenzione: nessuno, e dico nessuno, ha in mano un cellulare.

Mi dirigo verso una signora bassa e un po’ in carne che tiene per mano un bambino assonnato. «Parcheggio Augusto?» sta dicendo la donna. «Salve, sono Marina Lavinia Corbelli. Siamo appena atterrati e…»

«Mi scusi, signora» mi intrometto. «Mi scusi davvero per la maleducazione, ma ho subito un furto. Sta per caso parlando con quelli del parcheggio Augusto?»

«Un furto, dice?» fa la donna, che poi rimane a fissarmi con la bocca aperta e gli occhi sgranati. «Comunque sì, sono al telefono con il parcheggio Augusto.»

«Sarebbe così gentile da dire loro se possono mandarmi l’auto?» la imploro. «Mi chiamo David Resti e ho prenotato il servizio di car valet.»

«Ha prenotato cosa?» fa quella, strizzando gli occhi.

«La macchina. Devono portarmi la macchina direttamente qui, dal parcheggio.»

«Ah, va bene.»

La signora riferisce e mi dice che tra una decina di minuti mi consegneranno l’auto sotto al ponte con la pubblicità della Orologi svizzeri. «Davanti all’ingresso numero quattro del Terminale numero tre» conclude.

La ringrazio e mi avvio, con un ritrovato buon umore per la piccola gentilezza ricevuta. Una volta arrivato mi appoggio stancamente a un pilone di sostegno del ponte. Il buonumore dura poco, più o meno il tempo della sigaretta fumata da una ragazza dai capelli tinti di viola che sta aspettando il pulmino per il parcheggio assieme a un gruppetto di amici.

Primo, perché non fumo più da un mese, e il cielo sa se ho voglia di accendermene una. Secondo perché, mentre la mia auto ancora non si vede, il pulmino arriva con un tempismo perfetto, tre secondi netti dopo che la tipa getta a terra il mozzicone. Gli dei delegati alla distribuzione della fortuna stanno lavorando in modo fantasioso, evidentemente. Terzo, perché mentre lei fumava e i suoi amici ridevano e scherzavano, ho razionalizzato quanto sia fastidioso perdere portatile e cellulare. Non tanto per il valore economico, visto che era roba vecchia; il fatto è che devo far disattivare la scheda del telefono, recuperare tutti i numeri, cambiare le password in rete e via discorrendo.

Sì, quella parvenza di buonumore è andata a farsi un giro, e sarà un giro di quelli lunghi, tipo un safari panoramico in un parco naturale con i leoni, le giraffe e compagnia bella.

Quanto è passato? Sembra un secolo che aspetto. Senza il telefono non riesco neanche a quantificare lo scorrere del tempo; saranno dieci anni che non ho più un orologio da polso, e in effetti è incredibile che sul ponte ci sia la pubblicità di una marca di orologi. Orologi svizzeri, c’è scritto, e il modello che campeggia sul cartellone sembra uno Swatch.

Intanto, siamo rimasti in tre. Da una parte io, con l’aria trasandata, gli occhiali da nerd, la barba di sei giorni, i jeans sdruciti e la giacca di velluto con le toppe sui gomiti. Dall’altra una donna elegante e dal corpo perfetto che indossa un vestito blu scuro e dei tacchi vertiginosi con la disinvoltura di una diva, o di una donna d’affari senza pietà.

Tra di noi, quasi fosse un messo divino incaricato di far comunicare due mondi così diversi e apparentemente ostili, un giovane con una brutta giacca verde sgargiante che passeggia nervoso avanti e indietro. Sembra uscito da un documentario sui broker di Wall Street, sempre stressati e in bilico tra il diventare milionari o improvvisarsi serial killer.

Vediamo delle luci, e il ragazzo fa un balzo in avanti, neanche fosse un canguro. La donna, invece, rimane imperturbabile; la classe non è acqua, del resto. Un paio di auto si fermano a qualche metro da noi, mentre cerco con lo sguardo la mia vecchia Ford. Niente da fare: una è l’auto di servizio del parcheggio, l’altra una Maserati rosa. La donna ci degna di uno sguardo sprezzante, poi si avvicina ai tizi del parcheggio, firma qualcosa e se ne va.

Io e il ragazzo incrociamo gli sguardi, che sono pieni di quella rassegnazione balorda che solo chi aspetta la sua dannata auto fuori dall’aeroporto di Fiumicino in una fredda notte d’autunno può capire. Sappiamo entrambi che la serata non è finita: prima del giusto riposo c’è ancora da percorrere la strada fino a casa.

«Ford Fiesta grigia, Ford Fiesta grigia» ripeto sottovoce, come un mantra, mentre arrivano altre due auto. E invece no. La prima a fermarsi è una Ferrari coupé, nera. Sta a vedere che il ragazzo è un broker per davvero, di quelli milionari, per giunta. Non faccio in tempo a finire il pensiero che davanti a noi si ferma anche una Fiat 500 rossa. E qualcosa inizia a non tornarmi, perché il ragazzo prima mi fulmina con occhi che sono un misto di odio, disprezzo e invidia, poi si avvicina ai parcheggiatori, firma e si infila nella 500. E parte a razzo. Rimango come un idiota a fissare la Ferrari e il tipo che ne è sceso. Il parcheggiatore si guarda attorno e si rende conto che, oltre ai suoi colleghi, ci sono solo io.

Mi viene incontro. «Signor David Resti?»

«Non ci posso credere» rispondo. «Avete sbagliato auto. Tutte a me. Tutte a me!»

«Che dice, scusi? Lei non è il signor David Resti?»

«Sì, sono io.»

«Può mettermi una firma qui? L’abbiamo lavato come da ordine, questo gioiellino!»

«Non è la mia» taglio corto. «Vi siete sbagliati.»

«Sbagliati?»

«Avrete scambiato le chiavi, o vai a capire cosa. Non la sto accusando: dieci a uno hanno fatto casino in ufficio e lei non c’entra nulla.»

Parlo con tutta la rassegnazione del mondo. Oramai non ce la faccio più neanche ad arrabbiarmi. Voglio solo che questa serata di merda finisca al più presto, ho bisogno di dormire per due giorni di fila. Il parcheggiatore si gratta la testa e prende a rigirarsi la ricevuta tra le mani. Gli regalo un sorriso stanco. È una vittima anche lui, in fondo.

«Ma ne è sicuro, dottò?» fa il tizio. Sembra in seria difficoltà. Annuisco e mi avvicino alla Ferrari, giusto per guardarla un po’ più da vicino.

I suoi colleghi, intanto, stanno discutendo tra loro. «Scusi, eh: ce l’ha un documento?» mi chiede il più anziano.

«Sì, certo» dico, e gli mostro la patente. «Senta, vorrei andarmene a casa. Perché non torniamo subito al parcheggio e cerchiamo la mia Ford?»

«La sua cosa? Qui sembra tutto in ordine. Un attimo che controlliamo anche il libretto.»

Per quanto possa sembrare incredibile, sul libretto ci sono i miei dati. E la targa dell’auto è uguale a quella della mia Ford. Provo a protestare e a spiegare per l’ennesima volta che si tratta di un errore, che la Ferrari non è la mia e che non voglio mettermi nei guai, ma la situazione è talmente assurda che alla fine cedo, anche perché i parcheggiatori quasi arrivano a minacciarmi. E così firmo la ricevuta. I più definirebbero la circostanza come kafkiana, a me invece ricorda certi romanzi surreali di Bulgakov.

Due minuti e mi ritrovo da solo, con le chiavi del coupé in mano. So che è tutto sbagliato, ne ho la piena consapevolezza, ma sono davvero troppo stanco: qualunque cosa sia successa, qualunque sia l’errore, ci penserò domani. Andrò in caserma a sporgere denuncia. Per cosa e contro chi, non lo so ancora, ma proverò a spiegare la situazione e a porvi rimedio.

Ci metto cinque minuti solo per capire come si accende il quadro. Il cambio non c’è, deve essere automatico, come un po’ tutto dentro l’auto. Quando sento una voce dire: «Bentornato, David» quasi mi prende un colpo. «Hai fatto buon viaggio?» continua. «Vuoi impostare la guida automatica?»

Zittisco la voce spingendo il tasto spento che vedo sul cruscotto, sotto un display che sembra un piccolo televisore ultrapiatto, in un quadro comandi dove c’è scritto elaboratore di bordo.

L’auto è accessoriata con i ritrovati tecnologici più moderni, ma considerando le diciture che leggo sul display, della nomenclatura deve occuparsene un arzillo vecchietto che non conosce l’inglese. Comunque, per quanto ne so la Ferrari può avere un sistema di guida automatica, come le Tesla; meglio disattivare tutto, primo perché se certe cose non le sai usare va a finire che ti ci ammazzi, secondo perché non voglio fare casini al proprietario. Parto piano, con la paura che una leggera pressione sull’acceleratore faccia schizzare via l’auto.

Mentre guido su un raccordo semi vuoto cerco di calmarmi e ragionare. La spiegazione più logica è che io abbia un omonimo, e che al momento della registrazione della proprietà della Ferrari la motorizzazione abbia inserito i miei dati sul suo libretto. Il vero proprietario non deve essersene mai accorto, magari è un tipo distratto. Stessa cosa per la targa.

«Sì, non può essere andata che così» dico. «Che faccio ora?» aggiungo, nel tentativo di scacciare il sonno con il suono della mia voce. «Torno indietro? No, troppo stanco, e ormai sono quasi in autostrada. Mezz’ora e arrivo a casa.»

Domani devo risolvere questo casino e riportare l’auto al parcheggio, sperando che il proprietario non sia tornato.

Accendo la radio in cerca di rock, ma sembra che la musica italiana abbia colonizzato tutti i canali. Giro tra le stazioni senza troppo entusiasmo, alla ricerca di un programma qualsiasi, giusto per farmi compagnia e rimanere sveglio.

«… il legato imperiale Marco Aurelio De Carolis ha assicurato che la situazione nella provincia di Persia è tornata sotto controllo, ribadendo che i movimenti delle truppe giapponesi sul confine sono dovuti a un’esercitazione militare precedentemente concordata e nulla hanno a che fare con i recenti disordini a Teheran. Il legato ha aggiunto che la situazione è ormai normalizzata e che dopo il fallito attentato al nostro Imperatore e l’arresto dei senatori repubblicani, la situazione in quella che è una delle nostre province più calde si è regolarizzata, e l’ordine è ristabilito. Passiamo ora a una notizia decisamente più leggera: il proconsole Charles Bernard ha annunciato che i festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario della nascita della provincia senatoria francese si apriranno, in una Marsiglia tirata a lucido per l’occasione, il giorno…»

«Ma che cazzo è sta roba?» mormoro.

Certo che ne trasmettono di cose strane, il sabato notte. La voce è monotona come una ninna nanna e rischia di farmi addormentare, altro che tenermi sveglio. Spengo la radio e mi concentro sulla guida, e quando finalmente esco al casello di Anagni mi viene un’idea: accosto e accendo il computer di bordo, per vedere se c’è un navigatore di serie. Magari tra i preferiti il proprietario ha impostato l’indirizzo di casa; se così fosse potrei risalire a lui, chiamarlo e spiegargli perché sotto al mio culo c’è il sedile della sua Ferrari.

«Bentornato, David. Hai percorso 86,1 chilometri con l’elaboratore di bordo disattivato. Tutto a posto?»

Sul display, che si riaccende, compare il navigatore. Mostra solo la posizione corrente, nessun comando. Lo tocco, ma niente: non riesco a sbloccare la schermata.

«Vuoi impostare un percorso, David?»

Questo coso funziona a comandi vocali. Benvenuto nel futuro di chi può permettersi le nuove tecnologie.

«Sì. Cioè, no. Vorrei sapere se c’è in memoria l’indirizzo di casa.»

«Certo, David. Imposto la guida automatica? I rilevatori del sistema indicano che sei stanco, e il tono della tua voce lascia presumere uno stato psicofisico di forte tensione. Guidare in queste condizioni potrebbe essere pericoloso.»

«No. Mostrami l’indirizzo e disattivati» dico, trattenendo l’impulso malsano di tirare un pugno al cruscotto: se rompo qualcosa mi tocca chiedere un mutuo ventennale per ripagare i danni. Un secondo e sul display compare l’indirizzo. Non riesco a crederci. Il navigatore è impostato per arrivare a casa mia.

A casa mia.

Percorro l’ultimo tratto con un’ansia sempre maggiore. Quando sono davanti al vialetto di ingresso un doppio bip riempie l’abitacolo, e il cancello automatico si apre da solo. Fermo la Ferrari accanto a un suv bianco che non ho mai visto prima. Scendo e faccio un giro attorno alla casa. Ancora una volta, non credo ai miei occhi. Mi sento come se stessi vivendo il sogno di un giullare ubriaco. Una sbronza colossale, per giunta.

Io abito in una malmessa villetta di centoventi metri quadrati divisi su due piani, con un po’ di terra attorno. Davanti casa un giardino poco curato e una tettoia aperta su tre lati, sotto cui posteggiare l’auto; sul retro un giardino ancor meno curato, pieno di ulivi malati, erbacce e rovi. E una rimessa per gli attrezzi in cui non metto piede da non ricordo neanche quanto tempo.

Davanti a me, invece, c’è una villa grande il triplo di quella che dovrebbe esserci, con garage annesso. Un atrio sorretto da colonne, un giardino curatissimo, con tanto di laghetto e ruscello artificiale, ponticello in legno e angolo zen con pietre, sabbia, bonsai e luci soffuse che cambiano colore a intermittenza. Dietro la villa, poi, una piscina con faretti subacquei e delle rocce artificiali da cui viene fuori un getto che forma una cascata spettacolare, mentre siepi e alberi maestosi delimitano la proprietà.

Quando torno all’ingresso vedo che all’interno le luci si sono accese. Tiro fuori le chiavi di casa. Il portachiavi è il mio, ma le chiavi sono diverse da come le ricordavo. Le guardo, poi guardo la veranda e la porta che, intanto, si apre. Un sensore di movimento fa accendere una luce calda che illumina la veranda a giorno. Due donne. O meglio, la prima è una donna di una trentina d’anni, trentacinque al massimo. Molto, molto bella. La seconda è una bambina. Indossa un pigiama con degli orsetti disegnati sopra, e il suo viso dall’aria assonnata ha un non so che di familiare. Mi si getta al collo con foga e mi bacia sulla guancia prima che io possa protestare.

«Papà! Ma non eri a Palermo? Che ci fai qui? Che bella sorpresa» dice.

Le gambe mi tremano. Io non ho figli. Mai avuti. La donna, che deve essere la madre della bambina, si appoggia a una colonna. Poi, dalla tasca della pesante vestaglia che indossa sopra il pigiama tira fuori un pacchetto di sigarette. Ne sfila una, se la porta alla bocca e l’accende. Rimango a guardarla con una certa soggezione, mentre aspira e si passa la mano tra i capelli.

«Diana Olimpia, rientra in casa, che si gela. E torna a dormire. Io e tuo padre dobbiamo parlare» dice.

«Ma, mamma, non lo vedo da due settimane!»

«Starai con tuo padre domani, che non c’è scuola. A letto ora, forza.»

«Uffa, va bene. Ciao papà, a domani» si rassegna la piccola, dandomi un altro bacio. Poi si avvicina alla madre per baciare anche lei. Rientra in casa mentre io balbetto un incerto: «Buonanotte».

Io e la donna. Soli. Io zitto, perché non so che dire. Lei zitta, perché sembra che di cose da dire ne abbia fin troppe, e non sa da dove iniziare.

«Senti, me la offriresti una sigaretta?» chiedo.

La donna fa una smorfia di annoiato disappunto, ma comunque prende una sigaretta dal pacchetto e me la passa. E tanti saluti all’aver smesso di fumare. Accendo, e a un suo cenno mi accomodo su una sedia di vimini; lei fa altrettanto e rimane a fissarmi con sdegnosa insistenza. Evito il suo sguardo, e mentre fumo cerco di pensare, di razionalizzare. Magari ho un problema al cervello, e queste sono solo fantasie. Oppure ho avuto un incidente e sono finito in coma. Per quanto ne so potrei anche essere morto, e trovarmi in una sorta di purgatorio, una prova mistica di qualche tipo per la mia anima. L’ultima possibilità è un grande classico: un universo parallelo. Resta da capire come ci sono finito.

La voce della donna mi riporta alla realtà. «Che cazzo ci fai qui, David?» Fantasia, prova mistica o universo parallelo che sia, devo rispondere qualcosa di sensato.

«Ci abito?» azzardo.

«Non ho voglia di scherzare» abbaia la donna senza nome. «Ti ho spedito tutte le tue cose a Palermo, come da accordi. Ieri ho fatto imballare e portare via il tuo biliardo Ziggurat. Non è rimasto altro. Quindi, David: che ci fai qui? È per la storia dell’attentato? È da ieri sera che i giornalisti mi danno il tormento.»

Faccio uno boccata dalla sigaretta, sospiro e provo a risponderle nel modo più sincero possibile.

«Ascoltami, non so di cosa stai parlando. Non ricordo come ti chiami. O meglio, non è che non me lo ricordo, non lo so. Tutto questo, la Ferrari, la villa… non ha senso. Io ho sempre vissuto qui da solo, in una casa malandata, tra l’altro. Tu e quella bambina, poi: io non ho mai avuto figli. E non ho una moglie, o compagna, o quello che dovremmo essere io e te.»

«Cosa stai blaterando?»

«Inizia col dirmi come ti chiami. Cerchiamo di capire cosa sta succedendo.»

«Maledetto figlio di puttana! Vuoi fingerti pazzo o cosa? Cos’è, un’idea bislacca per ottenere un’uscita più vantaggiosa dal divorzio? O c’entrano i repubblicani?» urla lei, per tutta risposta.

Rimango a osservarla basito, mentre si alza e rientra in casa, sbattendosi la porta alle spalle.

«E ora che faccio?» chiedo alla notte. La testa pulsa, la spia si è messa a lampeggiare. Sono in riserva. Una soluzione sarebbe andare da Sergio, che abita qui vicino. Ma sono le due passate. Senza contare che non ho idea di cosa potrei trovarci, a casa del mio amico. Nel posto in cui sono finito Sergio potrebbe essere un prete, e magari lo trovo in salone a praticare un esorcismo a una vecchia posseduta da un demone che le fa vomitare vermi e scarafaggi. E se invece fosse uno psicopatico, e lo pesco in cantina, tutto nudo, intento a sodomizzare un caprone mentre sgozza un gallo intonando un peana a Satana? No, non voglio andare proprio da nessuno. Inizio ad avere paura anche della mia ombra, e solo l’idea di rimettermi alla guida mi fa star male. «Vaffanculo» mormoro. E decido di dormire in macchina. Mi alzo, ma dopo due passi ho un mancamento. Stress, stanchezza, sonno. La tripla s ha fatto arrivare le lancette al minimo. La spia indica rosso fisso. Non ce n’è più: carburante esaurito.

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